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- Filippo Bianchi – “Il secolo del jazz” – Bacchilega Editore pgg.247 € 16.00
- Maurizio Franco (a cura di) – “Enrico Intra Intramood” – con allegato DVD – “Edizioni Musicali Sinfonica” pgg. 200 – € 25.00
Filippo Bianchi – “Il secolo del jazz” – Bacchilega Editore pgg.247 € 16.00
Nessuna tesi particolarmente astrusa, magari buttata lì “a miracol mostrare” tipo “la musica è morta” o scempiaggini del genere, ma una serie di considerazioni di cui alcune davvero argute e molte condivisibili: questa, in estrema sintesi, il contenuto del bel volume firmato da Filippo Bianchi , dal significativo titolo “Il secolo del jazz”.
Operatore del settore oramai da lunghi anni, Bianchi attualmente dirige la rivista “Musica Jazz” e quindi ha la possibilità di guardare alle cose del jazz da un osservatorio particolarmente privilegiato. Ed in effetti tutta la prima parte del libro è occupata da una serie di editoriali scritti per la rivista, cui fa seguito una seconda parte contenente interviste a musicisti , una terza sezione “Visto da fuori” in cui si fanno parlare (naturalmente di jazz) personaggi dello spettacolo ed una sessione finale dal titolo “Pagine sparse”.
Devo confessare che ho letto con particolare interesse gli editoriali di Filippo proprio perché contengono gli spunti più originali ed innovativi del suo pensiero spaziando su tutte le tematiche che interessano il mondo del jazz. Ed egli lo fa con estrema intelligenza riuscendo a collegare la storia e le valenze del jazz , con le conoscenze scientifiche , con la filosofia, con le altre arti quali, ad esempio, la letteratura e il cinema. Di qui una visione ampia, esaustiva di ciò che la musica afro-americana rappresenta nel mondo di oggi. Ad esempio assolutamente rilevante il pezzo in cui si affronta il problema del rapporto tra improvvisazione e tradizione laddove si afferma, ben a ragione , che il jazz è apparentemente travagliato da un paradosso: “essere contemporaneamente un luogo di tradizione con tutto il suo peso e un luogo di creazione con tutti i rischi impliciti nella anticipazioni”. Personalmente ho apprezzato poi i due editoriali in cui si parla, rispettivamente di “Insidie e saperi dell'improvvisazione” e de “L'antica leggenda della morte del jazz” ove si sottolinea come le varie musiche di oggi, quali l'hip hop e simili ( che secondo alcuni soloni dovrebbero sostituire il jazz) siano in realtà zeppe di campionamenti delle ritmiche di Hancock-Carter-Williams piuttosto che dei gruppi di Horace Silver e Steve Coleman.
Molte le interviste interessanti con particolare rilievo per quelle a Corea , Holland e MacLaughlin in quanto riescono a ricreare il clima in cui si è mosso per circa quaranta anni il grande Miles Davis dando vita ad alcuni dei gruppi più significativi della storia del jazz.
Tra le “Pagine sparse” ho particolarmente apprezzato quelle in cui si parla di “Todo Modo” e della incredibile storia della colonna sonora scritta da Mingus, rifiutata da Petri e definita da Renzo Arbore una “patacca” (ogni commento è superfluo!).
Insomma un volume che si legge con immutato piacere dalla prima all'ultima pagina ; a queste considerazioni vorrei aggiungere due ulteriori riflessioni: dato che il libro può essere letto con soddisfazione anche da chi non sia dentro alle segrete cose del jazz, non sarebbe stato male, soprattutto per alcuni personaggi, spiegare chi sono e perché li si è intervistati; infine sarebbe bello che alla forza delle idee facesse seguito la forza dei fatti…nel senso che a mio avviso”Musica Jazz”, la rivista così ben diretta da Filippo Bianchi, dedicasse ancora maggiore attenzione a quanto accade in tutte le componenti del jazz made in Italy.
Maurizio Franco (a cura di) – “Enrico Intra Intramood” – con allegato DVD – “Edizioni Musicali Sinfonica” pgg. 200 – € 25.00
Enrico Intra è sicuramente una delle figure più rappresentative della musica italiana, al di là di qualsivoglia etichetta. Pianista, compositore, direttore d'orchestra, arrangiatore, organizzatore di eventi quanto mai significativi, didatta, l'artista milanese si è sempre mosso su un terreno impervio, non accontentandosi dell'acquisito ma ricercando costantemente nuove strade espressive. Di qui una musica non facile, in bilico tra scrittura e improvvisazione, tra jazz e composizione accademica, nonostante Intra abbia sempre orgogliosamente dichiarato la sua appartenenza al popolo del jazz.
Ce n'è, insomma, abbastanza per accogliere con grande soddisfazione questo libro a lui dedicato; grazie alla sapiente regia di Maurizio Franco il volume riesce a fornire un quadro esaustivo della valenza artistica di Intra e quindi del ruolo da lui svolto nell'ambito della cultura italiana di questi ultimi decenni.
Dopo alcuni saggi introduttivi firmati tra gli altri dal musicologo Luigi Pestalozza, il volume ospita una serie di “Testimonianze” di diversi autori tra cui molti musicisti tutti concordi nel sottolineare l'originalità della figura di Intra, musicista italiano-europeo con una propria specificità nell'ambito del jazz. In questo senso particolarmente significativi gli interventi dei musicisti che con Intra hanno lavorato quali Giancarlo Barigozzi, Lucio Terzano, Tony Arco, Marco Vaggi e soprattutto Vranco Cerri che con Intra ha condiviso più di cinquant'anni di intensa e proficua attività.
La terza parte contiene una “Antologia degli scritti e delle interviste” di Intra e in quest'ambito è quanto mai interessante rileggere le dichiarazioni rilasciate dal musicista ad “ABC” nel 1966 in cui si affronta il tema della nascita in Italia del cabaret: per chi ne sapesse poco, questa intervista risulterà davvero illuminante.
Segue una “Discografia Essenziale” ove vengono ricordati i migliori album di Intra proponendo le copertine nella loro totalità ivi comprese, cioè, le note di copertina e le foto. Peccato che non in tutte le copertine sia segnata la data di registrazione, sarebbe stato un elemento di ulteriore preziosita'.
A chiudere una serie di partiture di grande interesse.
Ma, prima di lasciarvi alla lettura del volume, vorrei sottolineare un ultimo elemento: ho letto con particolare interesse, oserei dire “accanimento“ ,il saggio di vincenzo caporaletti su “Dal cliche' all'Archetipo di Enrico Intra“. Il perche' dell'accanimento e' dovuto al fatto che ho dovuto leggere almeno tre volte alcuni passaggi per capire il tutto. Dopo di che' mi e' venuto un dubbio che vi esterno immediatamente: io non sono certo la persona piu' intelligente di questo mondo…ma altrettanto sicuramente nemmeno la piu' stupida e per giunta mi occupo di musica da una vita. Ora francamente ho l'impressione che ancora oggi una certa parte della critica “colta“ scriva per iniziati nel senso che a capirli debbano essere necessariamente in pochi. Cosi', per esprimere concetti di sicuro non semplici, si adopera un linguaggio ancora piu' complesso senza minimamente preoccuparsi di chi quelle pagine voglia leggere e comprendere. Ad esempio perche' utilizzare parole ed espressioni come poietico, cum positio tardo medioevale, codifica neoauratica…e via di questo passo. Siamo sicuri che non si possa fare uno sforzo per esprimersi in maniera altrettanto compiuta ma piu' semplice. Francamente penso proprio che sia giunto il momento di scendere dalle torri eburnee e far si' che il messaggio, ammesso che ci sia, giunga al maggior numero possibile di destinatari.
Buongiorno, anche io mi sento di intervenire in questa discussione. Devo dire che la vedo come Gerlando, e non certo per piaggeria. Mi sono laureata in etnomusicologia con Diego Carpitella – che certamente non affrontava argomenti e concetti semplici: i suoi scritti erano piuttosto complessi, ma per quanto possibile a se stesso e a noi studenti, anche e soprattutto in sede di elaborazione di tesine e tesi di laurea, imponeva sempre un linguaggio certamente ricco ma anche intellegibile per il piu’ vasto numero possibile di “utenti”. E’ giusto usare termini specialistici e anche pregni di significato, ma l’ intellegibilita’ rimane un valore aggiunto, ma – a meno che uno scritto non rimanga chiuso nell’ ambito di un convegno – in un libro forse varrebbe la pena di “decrittarne” le parti piu’ ermetiche. Se non altro perche’ leggere con un vocabolario di italiano aperto accanto prevede due fasi: una di “traduzione” e una di “ricollocamento” del termine tradotto nel contesto concettuale dello scritto… a scapito dell’ immediatezza della comprensione. Spero si capisca che il mio intervento non e’ volto sminuire il valore degli scritti di Caporaletti, anzi, e’ mosso dalla speranza che i suoi fondamentali studi vengano accolti dal maggior numero di appassionati possibile.
Saluti!
Daniela Floris
Caro Maurizio,
speravo che il mio intervento suscitasse qualche commento e quindi sono stato particolarmente lieto nel ricevere le Tue considerazioni anche perché esposte con quel garbo e quella competenza che ti sono proprie.
Sono assolutamente d’accordo con Te quando affermi che il “nostro mondo é ancora troppo spesso legato a dilettantismo, falso accademismo, pasticci di ogni genere” cose che credo aver evidenziato nell’editoriale “Sul jazz e la professionalità” su cui, se Ti andasse, sarei felice di ricevere un Tuo intervento.
Ciò detto resto però del mio parere vale a dire che si possa, anzi si debba scrivere in maniera la più chiara possibile. Ti faccio un esempio: come ho già avuto modo di dire in altre occasioni, io, oltre che di musica, mi occupo di economia. Ebbene quando ho cominciato a scrivere per riviste importanti e “specializzate” del settore come “Il Mondo” o “Espansione” prima di licenziare un articolo lo facevo leggere a mia madre che di economia nulla sapeva. Se Lei era in grado di capirlo significava che l’articolo era scritto bene, altrimenti c’era qualcosa che non andava. Ma questa è una mia idea cui cerco di restare fedele quando propongo qualcosa ai miei lettori…ma non è detto che sia un’idea giusta!
Ho letto con piacere la recensione di Gatto.Vorrei ringraziarlo e spero di farlo personalmente.Senza dimenticare naturalmente anche quella di Bianchi.Sempre interessanti i suoi interventi.Enrico Intra
Caro Gerlando, in primo luogo ti ringrazio della recensione attenta al libro Intramood, che offre una panoramica chiara del volume. Su un solo argomento vorrei però portare delle precisazioni e cioé il commento allo scritto di Vincenzo Caporaletti, musicologo e intellettuale di fondamentale importanza per gli studi sulla nostra musica. La prima precisazione riguarda il fatto che quell’intervento é stato preparato per un convegno di studi, quindi era rivolto a un consesso ben definito. La seconda é legata al lessico, che non é certo da torre eburnea e nemmeno utilizzato per non farsi capire; é, molto semplicemente, quello che si usa nell’ambito della cultura alta e che, finalmente, é entrato a far parte anche del mondo del jazz, troppo spesso legato a una letteratura da giornaletto pop. Qualsiasi scritto di alto livello, in qualunque campo del sapere, prevede un linguaggio specifico (e del resto Caporaletti utilizza termini diffusi in altri ambiti e solo un paio di neologismi). La cultura non é una cosa facile e non sempre si può e si deve scrivere “per tutti”. Ben venga dunque un nuovo modo di porsi anche rispetto al jazz, e dico questo non perché auspichi l’uso di parole difficili e un distacco assoluto tra chi scrive e chi legge, ma perché purtroppo non si può alzare la qualità senza pretendere un impegno (come quello che tu hai fatto) anche da parte di chi legge. Certo, si possono smussare tanti angoli, ma non la sostanza, che é poi il vero nodo da sciogliere, cioé quello che c’é da capire, e proprio questo comporta le maggiori difficoltà.
Il nostro mondo é ancora troppo spesso legato a dilettantismo, falso accademismo, pasticci di ogni genere che tu ben conosci e quindi personalità come Caporaletti vanno tutelate e difese. E questo era il senso del mio intervento, che spero costruttivo.
Grazie ancora per la tua attenzione.
Maurizio Franco