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Marco Albonetti, Vicky Schaetzinger – “Astor Place el tango de Astor Piazzolla” – abeat ABJZ 068
Chi segue questa rubrica sa quanto io ami il tango, Piazzolla e le commistioni sempre più frequenti tra il tango di Astor e il jazz. Ma, proprio per questo, sono particolarmente esigente quando mi accingo ad ascoltare nuovi CD del genere, da cui mi aspetto innanzitutto che in qualche forma mi siano restituiti quella forte emozione, quel pathos che promanano sempre dalle incisioni di Piazzolla. Insomma delle esecuzioni per quanto filologicamente corrette , inappuntabili sotto il profilo della tecnica strumentali non sono sufficienti se non sono state in grado di ricreare il clima proprio delle composizioni di Piazzolla.
E purtroppo è questo il caso dell'album in oggetto: Albonetti e Schaetzinger provengono dal mondo della musica “colta” di cui sono insigni rappresentanti; di qui un'esecuzione assolutamente perfetta … troppo perfetta nel senso che manca quel senso del dramma, della narrazione insito in Piazzolla. Così viene poco valorizzata la componente ritmica anch'essa insita nella musica del musicista argentino per un “trattamento” che in qualche modo ne ingentilisce la natura al di là delle intenzioni compositive. (Gerlando Gatto)

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Massimo Barbiero with Rossella Cangini – Denique Caelum – Senz'h Edizioni Musicali
Come altre volte per i lavori di Massimo Barbiero, anche nel caso di “Denique Caelum” e' consigliabile scardinare ogni termine di paragone con altra musica, o genere musicale, o brano, o artista. Barbiero compie insieme a Rossella Cangini un percorso personalissimo, impervio, intellettuale, intellettivo ma anche interiore che si puo' decidere di decrittare (rischiando di banalizzarlo o di fraintenderlo) , oppure di lasciarlo fluire liberamente nel nostro stesso immaginario e/o vissuto. Cosicche' e' bene accettare da subito che questo cd e' ispirato all' Ulisse di Joyce, come ci dice lo stesso Barbiero, ma senza cercarne pedisseque corrispondenze nei melodicissimi ritmi voluti da questo “polipercussionista”, senza cercare peraltro le motivazioni della inusuale vocalita' dell' eclettica Rossella Cangini, che spinge la voce in sonorita' davvero impervie, tanto che essa , se si e' bravi nel lavoro di “auto scardinamento di certezze uditive”, diventa “suono” e non piu' voce: suono meditativo, o novello “flusso di coscienza interiore”, delirante valanga di suoni vocali e percussivi con parole inquietanti (tratte dalla “L” dell' alfabeto apocalittico di Sanguineti) (“Molly Bloom”). Suoni naturalistici della voce si dispiegano in “Lo stagno”, con un sottofondo tutto armonico e vibrato, dritto e vagante tra modo maggiore ed indefinitezza. E' lo “stagno nero” sottendente la Dublino di Joyce? O e' uno stato d' animo di apparente immobilita'? O e' tutte e due le cose? Meglio dunque abbandonarsi a questi torrenti di parole e poesie (vedi “Leopold Bloom – la colazione, con testi anche qui di Sanguineti e la voce diventata “meccanica” della Cangini, in cui ogni singola parola e' spunto per diventare suono, ed ogni suono e' spunto per i suoni di Barbiero. O viceversa?)
Se la “Z” dell' alfabeto apocalittico si dipana in uno scat in cui la voce gioca sul suono sibilante e si fa ritmo insieme alla batteria, in “Marmaduke” (Il Bordello) ci sono echi e reminiscenze di uno scat piu' propriamente jazzistico, appiglio sonoro che non e' consigliabile utilizzare perche' fuorviante. Bisogna semplicemente ascoltare (vedi la sonorita' sospesa di “Denique Caelum”) ed assistere a questo viaggio interiore di due artisti e del loro peculiare, introflesso ma paradossalmente anche estroverso linguaggio, che e' sintesi di uno scorrere della vita che non puo' che essere peculiarissimo, ma per questo interessante in se e non in quanto assimilabile al proprio o al gia' noto. (Daniela Floris)

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Dino Betti Van der Noot – God save the earth – SAM 9026
E' musica che respira questa di “God save the earth” dell' eclettico Dino Betti Van der Noot, appropriatamente vincitore del “Top jazz 2009” come miglior compositore/arrangiatore. E' un respiro ampio, ed e' un respiro anche in senso quasi stretto, perche' in tutti e sei i brani la sensazione e' quella di note naturali, istintive, ariose e allo stesso tempo necessarie a quella stessa musica come lo e' l' azione del respirare. Gia' nel primo brano (“God save the heart”) appare una grande cura nella scelta compositiva: il canto nel suo impianto melodico pentatonale, riecheggia l' Africa (che nell' immaginario comune rappresenta la Terra), ma questa scelta voluta non impedisce ai fiati di accarezzare liberamente la bella voce di Ginger Brew.
Il fascino e' proprio nella apparente contraddizione tra musica scritta – e scritta bene – e l' improvvisazione libera di ogni singolo strumentista, ma anche nell' improvvisazione simultanea di tutta l' orchestra, in un fluttuare continuo che letteralmente fa volare chi ascolta attraverso sonorita' diverse, come in “In the beginning was beauty”: una intro di accordi ed arpeggi, da vera big band e dall' arrangiamento curatissimo nei piano dei fiati tutti , che poi pero' fa spazio all' improvvisazione di flauti, fiati e vibrafoni che non smette mai di essere corale, in un caleidoscopico comporsi e ricomporsi in mutevoli ma perfetti disegni ritmici, armonici e melodici, fino ad un finale elegante riassottigliamento . Per non parlare dell' energia pura di “ Maybe”, scaturita dalla reiterazione di note lunghe per quarte e gradi congiunti in contrasto con un vero e proprio solo improvvisato di batteria che va avanti per tutto il brano, senza mai essere slegato dagli altri, in una miracoloso equilibrio interno ad una compagine massiccia. Anche quando i suoni elettrici prendono il sopravvento in una improvvisazione libera e crescente, i fiati bilanciano con martellanti note reiterate, e il tutto diventa affascinante e interessante fino ad un breve duetto tra sassofono e pianoforte, che silenziano il magma precedente, per guidare di nuovo l' orchestra in un sound d' insieme. Qui gli obbligati sono sontuosi, e anche il finale, cromatico, viene brevemente interrotto da un delicato intermezzo in 3/4 .

C'e' una continua ricerca sonora, spesso evocativa (vedi “ Like a Circle in the water” , con il suo accumulo progressivo di suoni ma in una atmosfera armonica rarefatta, anche per l' apporto della batteria che disegna paesaggi piu' che incasellare) , ma anche jazzisticamente espressiva: basti ascoltare i bellissimi fraseggi del trombone ricamati sulla base pentatonica ed instancabile del contrabbasso in “Alone in the crowd” , in cui emerge la compagine della jazz band vera e propria, per le incursioni ritmico – armoniche dei fiati, ma svetta anche pianoforte, mirabilmente impazzito sulle note acute. Conclude il cd “City mornings: non una ballad, non una canzone, quasi una suite, piuttosto, in cui sicuramente la musica scritta esiste ma e' utilizzata come spunto per la creativita' dei musicisti che si ascoltano tra influendo anche sulla bella voce di Sofia Woodpecker. L' introduzione e' destrutturata e compatta allo stesso tempo, e la continua ricerca sonora dell' improvvisazione collettiva torna nei piccoli interludi tra una strofa e l' altra, e sfociando in un ispirato e poetico “solo a due” di pianoforte e batteria: una atmosfera di musica colta contemporanea, che conclude inaspettatamente il brano ed il disco. Musica di altissimo livello, solisti eccellenti, caldamente consigliato. (Daniela Floris)

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Ralph Towner, Paolo Fresu – “Chiaroscuro” – ECM 2085
Ralph Towner e Paolo Fresu hanno in comune parecchie caratteristiche: un'assoluta padronanza strumentale, una predilezione per lunghe linee melodiche all'interno di atmosfere spesso intimiste e crepuscolari, una bella facilità di scrittura e soprattutto la voglia di misurarsi sempre in contesti diversi , alla ricerca di forme nuove attraverso cui esprimere la propria poliedrica personalità.
Così, nel caso del chitarrista , si ricordano memorabili incisioni con Egberto Gismonti , John Abercrombie, Gary Burton, Peter Erskine, Gary Peacock , Maria Pia De Vito.
Dal canto suo il “nostro” Fresu è impegnato in una miriade di progetti davvero molto diversi l'uno dall'altro., tanto che è difficile e sicuramente inutile menzionarli in questa sede. Non era perciò difficile immaginare che due personalità di questo tipo finissero per incidere assieme tanto più che i due si erano già incontrati, sul piano artistico, nel 1992 al festival jazz di Sant'Anna Arresi; c'è voluto qualche anno ma, alla fine ecco spuntare dalle alchimie di Manfred Eicher quest'ulteriore perla del catalogo ECM.
L'album è splendido per lo stato di grazia in cui i due musicisti si trovano a dialogare su un repertorio composto da sette brani scritti da Towner, due in collaborazione e uno standard, il celebre “Blue in green” di Miles Davis e Bill Evans. In ogni brano i due nulla fanno per nascondere o tanto meno far emergere il proprio universo poetico: tutto accade in maniera naturale, senza forzature e così le di Towner si fondono con la tromba e il del musicista sardo in un gioco di rimandi, di contrappunti che trasportano l'ascoltare in una dimensione altra, lontana dalle angosce di un'esistenza spesso nevrotica per poter gustare appieno i tesori della musica. (Gerlando Gatto)

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Giulio Visibelli – “Via Maestra” – Music Center BA167
Anche in questo album Visibelli evidenzia quelle doti che aveva già avuto modo di esprimere appieno nelle precedenti produzioni discografiche: un sound molto ben definito, una perfetta padronanza dei diversi strumenti con cui si cimenta (sax tenore, sax soprano, flauto e flauto alto), una concezione della composizione e della musica aperta nel senso di riuscire sempre a coniugare con perfetto equilibrio forme compositive e improvvisazione che resta pur sempre una delle caratteristiche peculiari della musica jazz.
Di qui un album in cui la maestria tecnica si accoppia ad una straordinaria capacità di ascoltarsi reciprocamente, in un colloquio che mai sembra perdere efficacia, freschezza, gioia di esprimersi attraverso la musica.
Il tutto attraverso una serie di situazioni estremamente diversificate, in cui Giulio, Franco Ambrosetti tromba e flicorno, Roberto Cecchetto chitarra, Marco Micheli contrabbasso e Mauro Beggio batteria hanno modo di mettersi in bella evidenza. Il quintetto esegue dodici brani, di cui però cinque sono brevissimi autoritratti sonori eseguiti in assoluta solitudine : il solo di Visibelli è intitolato ”Giuljan” per le atmosfere vicine a Garbarek, “Franco's mood” esemplifica al meglio le atmosfere care ad Ambrosetti, “Electrob” è il brano di Cecchetto , “Soprasotto” quello di Micheli “Mauro's Heads” la composizione di Beggio. Negli altri sette brani, tutti composti dal leader, si nota , tra l'altro, la invidiabile conoscenza che Visibelli ha della musica considerata giustamente un tutt'uno al di là dei soliti schemi convenzionali. Così ad esempio all'andamento sghembo ma familiare di “Emi” si contrappone un “Numeri primi” che affonda le sue radici in quella musica colta indiana spesso “frequentata” dal leader con il gruppo “Neji”; strutturato su tempi atipici quali 11/8, 13/8 e 17/4 il brano presenta, inoltre, tre splendidi assoli di Visibelli , Ambrosetti e Cecchetto.
Il disco si presenta molto bene anche dal punto di vista grafico, grazie all'uso in copertina di un'opera del pittore livornese Giampaolo Talani. (Gerlando Gatto)

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