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Franco D' Andrea

Auditorium Parco della Musica, Teatro Studio

“Il pianoforte e' uno strumento riassuntivo e non puo' essere paragonato ad una orchestra: ma da' una grande liberta'”. Con queste parole Franco D' Andrea ha introdotto il suo (bellissimo) concerto al Teatro Studio dell'Auditorium di Roma, spiegando anche la sua gratitudine verso alcuni musicisti americani che hanno influito sulla sua arte. Questa gratitudine ai grandi del jazz (da Monk, ad Armstrong, tanto per fare un esempio) e' stata il perno di tutta la serata in compagnia di questo pianista elegante ed eclettico, che ha deciso di far emergere dal “presente” del suo inconfondibile stile un “passato” che di quel presente e' base fondante, ispirazione continua e vitalissima sorgente, tanto che neanche si puo' parlare propriamente di “passato”, per quanta forza propulsiva a lui fornisce.

Le mani di D' Andrea percorrono la tastiera in mille modi (con moto centrifugo fino a toccare i due estremi, in melodie omogenee tra la destra e la sinistra ma dissonando, o magari con la destra che vola e crea nel registro alto mentre la sinistra persegue a tutti i costi un ostinato vigoroso). Ma ad un tratto, da un sapore “contemporaneo” e anche “sperimentale” che avviluppa chi ascolta in spirali di sonorita' poco esplorate, emerge un ‘walkin' bass, si riconoscono delle “blue note” , o un fraseggio a noi noto. Lo stesso ostinato cambia sapore con un accordo di settima che ce lo decritta, e trasforma quelle sonorita' in “I've got Rythm”; o, al contrario, un delicato inizio di “St. Louis Blues” da' luogo ad un' improvvisazione intensissima in stile rigorosamente blues, ed e' fedele anche agli accordi minori dell' inciso in “tangana”, cosi' come Handy lo aveva voluto: e viene in mente un po' Oscar Peterson. Il tema di “Naima” di Coltrane resiste morbido ed intenso nonostante la mano sinistra proceda con accordi destrutturanti: ed e' per questo che l' omaggio al grande saxtenorista e' ancora piu' emozionante; ma sembra di captare dopo anche “C jam Blues” di Ellington, e “Caravan”, anch' essi emergente da accordi assolutamente fuorvianti, e “Lover man”, inframmezzato all' improvvisazione piu' pura, in un collage affascinante. Proprio questo contrasto e' significativo, e simboleggia quanto alcuni standards – se legati alle piu' grandi personalita' del jazz – rimangano attuali nonostante il presente sia altro, ed anzi lo abbiano generato.
D' Andrea in un' ora e mezza di piano solo ha dimostrato che non esiste un progredire senza un punto di partenza, ma anche che il punto di partenza, nella musica, non e' mai vetrificato o mummificato o totalmente superato: anzi e' una dinamica, bellissima e intensa fonte continua di ispirazione. Ma dal nuovo, allo stesso tempo, riceve energia e grande vitalita'. Ed e' questo forse il “mistero” a cui D' Andrea ha voluto alludere intitolando questo notevolissimo concerto.

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