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George Lewis

George Lewis

George Lewis dirige la Parco della Musica Jazz Orchestra – “A power stronger then itself”

Non e' usuale sentire una Big Band improvvisare in blocco ad un cenno del direttore, che dirige la liberta' sonora ed espressiva dei propri musicisti. Si e' solitamente abituati a sentire splendidi soli su backgrounds scritti nel minimo dettaglio, si e' abituati ad una alternanza codificata tra le varie sezioni dell' orchestra, ma di certo assistere ad un concerto di una band diretta da Lewis – grande trombonista, oltretutto – e' un' esperienza certamente elettrizzante. E non solo per la splendida ed elegante presenza della moglie Miya Masaoka: virtuosa della particolare arpa giapponese “Koto”, dona momenti di grazia ed intensita' sonora preziosissimi, incorniciata dai suoni potenti dei fiati dell' orchestra. Ma anche per la modalita' di creazione in “diretta” di episodi musicali anche molto lunghi di Lewis, a dir poco eclettico, certamente geniale cultore del suono, dell' effetto. L' orchestra per lui e' uno strumento al quale dare input (che siano essi scritti nella partitura o segnalati con gesti e incitazioni) dai quali nasce continuamente nuova musica .
Instradare inizialmente per poi lasciare liberi i musicisti e' certamente una scelta stilistica, tanto che Lewis entra sul palco, fa cenni, dirige con gesti davvero semplici, quasi soltanto solfeggiando, e poi lascia sola la Band sparendo per interi minuti, rientrando solo per cambiare qualcosa – agendo a volte sulle trombe, a volte sui sax, a volte esaltando o fermando la batteria, o incitando tutti gli orchestrali a battere le mani a tempo.
Ogni strumento ha la possibilita' di esprimersi nella sua intera gamma cromatica, l' orchestra e' un unico organismo che respira insieme – spesso anche omoritmicamente. Le partiture scritte esistono, e gli obbligati anche: ma sono solo punti di partenza da cui (in uno strabiliante indefinibile equilibrio) ogni musicista – pur improvvisando in contemporanea agli altri – concorre ad un suono comune, che e' quello suggerito dal genio Lewis. Una compagine dunque che un attimo prima suonava in apparente entropico “all toghether” ad un minimo cenno si affievolisce e lascia un magico spazio al Koto solista, facendo una piccola eco, soffiando suoni ed effetto che esaltano il sapore lontano di un suono per noi ancora un po' misterioso. A quel punto il contrabbasso (suonato con l' archetto) spennella note che vanno oltre il pentagramma, hanno senso in quanto suoni e non in quanto note . Ogni strumento si trasfigura, non si cura di fare lo “ stilisticamente perfetto” , ma di creare un suono che va al di la' del jazz, con una valenza espressiva quasi di “ricerca” estemporanea. Tutto questo non faccia pensare ad un superamento totale di ritmi e armonie a noi noti: si ascolta swing, si ascolta qualche frammento di “latin” o di standard magari , ma e' proprio Lewis che fa la differenza, e la differenza e' nel modo di dirigere, perche' Lewis li' per li' sfrutta appieno tutte le qualita' di ogni singolo strumentista. Questo anche quando assegna ostinati ritmico – melodici ad intere sezioni e contemporaneamente liberta' quasi totale ad altri . Le dinamiche sono portate spesso all' estremo, con contrasti improvvisi tra fortissimi e pianissimi, i timbri stessi viaggiano sul contrasto, sia nell' interazione tra strumenti sia nell' insistere su registri inusuali. A frasi staccate delle trombe e dei tromboni si sovrappongono note lunghe dei sassofoni, mentre il pianoforte (Riccardo Fassi, versatile come non mai) via via occupa spazi percussivi e/o lirici, non necessariamente dove li si aspetterebbe. Non c'e' nulla di scontato, neanche nella percussivita' continua ed uguale della batteria di Iodice – che sembra divertirsi un mondo – o nei cambi di registro del contrabbasso di Pirozzi, o negli urli dei sax di Giammarco e Oddi.
Il suono spazia su atmosfere che potrebbero dirsi serene e celestiali o angoscianti ed infernali , spesso hanno una valenza naturalistica o evocativa, a volte sembrerebbe di ascoltare musica dodecafonica, a volte impressionistica, sempre comunque musica inaspettata e anche abbastanza stupefacente. Da un semplice tintinnare ritmico di un triangolo esplode un insieme crescente di ritmi e suoni che tutto sembra fuorche' casuale. A fine concerto si ha la consapevolezza che Lewis e' un virtuoso del trombone e dell' inaspettato strumento polifonico denominato (per comodita') “Orchestra Jazz”.

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