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Bach off beat – “Johann Sebastian Bach Trio Sonatas”

Bach off beat – “Johann Sebastian Bach Trio Sonatas”

Bach off beat – “Johann Sebastian Bach Trio Sonatas” – Crocevia di suoni 006
Si fanno sempre più frequenti le commistioni tra jazz e musica colta e occorre sottolineare come oramai questo tipo di operazione sia supportato da una ben definita progettualità e da una approfondita conoscenza di ambedue le materie trattate. Questo album non sfugge alla regola ché anzi ci presenta un gruppo di tutto rispetto composto sia da jazzisti sia da musicisti provenienti dall’area colta, in grado di ben eseguire le partiture bachiane. In realtà qui ci si rivolge ad un aspetto precipuo della vastissima produzione di Bach, vale a dire il “Trio Sonatas” per organo cioè la II in do minore BWV 526, la I in mi bemolle maggiore BWV 525 e la VI in sol maggiore BWV 530. Il gruppo, come si accennava, è misto: Omar Zoboli (oboe, corno inglese, sax soprano) è solista avvezzo a frequentare la musica da camera, quella contemporanea e quella barocca; anche la vocalist e solista di corno inglese Yael Zamir e il clarinettista Sergio Delmastro appartengono più o meno allo stesso ambiente; viceversa Massimo Colombo, (pianista di vaglia e valido arrangiatore) e Ferdinando Faraò (batterista e compositore) sono due fra i più acclamati solisti della scena jazzistica nazionale; ebbene il connubio è perfettamente riuscito e le improvvisazioni di Colombo si legano perfettamente con quelle dei compagni d’avventura dando all’album un’assoluta coerenza di fondo. Obiettivo particolarmente difficile da raggiungere in quanto non ci si è limitati ad arrangiare le composizioni di Bach ma intorno e dentro le stesse sono state inserite, come le definiscono gli stessi musicisti, delle “brevi pause di riflessione improvvisata” che se mal concepite avrebbero rischiato di rovinare il tutto.

Barber Mouse – “Plays Subsonica”

Barber Mouse – “Plays Subsonica”

Barber Mouse – “Plays Subsonica” – Auand 9026
Nel mondo del jazz è in atto una tendenza a rivisitare il repertorio dei grandi gruppi pop – rock ed ovviamente i più si sono indirizzati verso i nomi internazionali quali Pink Floyd o i Beatles.. tanto per fare qualche esempio. Invece il trio “Barber Mouse” (al secolo Fabrizio Rat al pianoforte, Stefano Risso al contrabbasso e Mattia Barbieri alla batteria) ha scelto una via diversa rivolgendosi alle canzoni dei Subsonica una delle band italiane più interessanti degli ultimi periodi, da cui ha preso in prestito – se mi consentite l’espressione – il vocalist Samuel Romano alle prese con il mondo dell’avanguardia, finora poco praticato. In realtà i pezzi dei Subsonica sono solo un pretesto ché i quattro abbandonano ben presto la via maestra per lanciarsi in una serie di improvvisazioni senza rete a cominciare dal sound. Vengono così usati strumenti acustici, cui è stata aggiunta una gran quantità di oggetti da bricolage con il risultato di produrre un suono profondamente alterato, tanto che alle volte si ha la netta sensazione di ascoltare strumenti non acustici. Ma è tutta l’atmosfera dell’album che risulta, specie all’inizio, profondamente straniante. Così l’album si apre con un “Colpo di pistola” profondamente rivisitato per acquisire quota e spessore con il passare dei minuti tanto che già al terzo brano – “Incantevole” – l’ascolto è più partecipato grazie soprattutto alla splendida versione di Fabrizio Rat. Stefano Risso è in bella evidenza in “Non identificato” di cui disegna le linee guida. In “Come se” Samuel Romano da prova sia delle sue straordinarie capacità interpretative sia della sua versatilità mentre con “Strade” si torna alla prevalenza della melodia.

Big Blue – “Big Blue”

Big Blue – “Big Blue”

Big Blue – “Big Blue” – CamJazz 3311-2
Proseguendo nella meritoria operazione di portare alla ribalta giovani talenti, la CamJazz ci presenta questo nuovo quartetto composto da Jorma Kalevi Louhivuori alla tromba, Anti Kujanpää al pianoforte, Jori Huhtala al basso e Jonas Leppänen alla batteria. Quanti seguono la produzione Cam, si saranno certamente accorti che i quattro finlandesi figurano già in altri dischi, solo che questa volta si sono riuniti sotto il nome di “Big Blue” offrendo un’altra mirabile prova. Il gruppo appare ben rodato, ben amalgamato e soprattutto in grado di esprimere un discorso compiuto dall’inizio alla fine dell’album. L’atmosfera è quella dei grandi spazi propria della musica nordica seppure con qualche notevole differenza: anche se proiettata verso l’alto, la musica tende sempre ad evidenziare un certo ancoraggio con la realtà cosicché mai appare inutilmente vacua, fumosa o peggio ancora pervasa da furia sperimentalista. Ognuno recita al meglio la propria parte forte di una indiscussa preparazione tecnica di base: il trombettista disegna frastagliate volute con un suono sempre nitido e distinto; il pianista evidenzia un tocco assai raffinato e propone svariate eleganti soluzioni armoniche; il batterista ha sicuramente ben introitato le suggestioni di un jazz molto più libero (alla Paal Nilssen-Love tanto per intenderci) mentre il bassista riesce a sostenere il tutto senza essere invadente. Ad eccezione del pianista, inoltre, gli altri si dimostrano eccellenti compositori avendo firmato tutte le composizioni tra cui particolarmente rilevanti “Temple in Tokyo” di Jorma Kalevi Louhivuori per la bella cantabilità e “The big blue” di Jonas Leppänen per l’andamento così particolare.

Samuel Blaser – “Boundless”

Samuel Blaser – “Boundless”

Samuel Blaser – “Boundless” – Hat ology 706
Samuel Blaser ha in breve tempo raggiunto la meritata considerazione di trombonista tra i più inventivi ed originali della nuova generazione di jazz-men. Cresciuto in una famiglia in cui la musica era di casa, Samuel ha studiato presso il Conservatorio della sua città natale (la svizzera La Chaux-d-Fonds) specializzandosi sia in classica sia in jazz ed ottenendo da subito numerosi riconoscimenti. Dopo aver collaborato con musicisti di prestigio quali Phil Woods, Clark Terry e Jim McNely, ed una breve apparizione nella prestigiosa Vienna Art Orchestra, il trombonista è andato a specializzarsi alla Suny Purchase University di New York. Tornato in Europa, nel 2008 il primo album importante, “7th Heaven”, in quartetto con il chitarrista Scott DuBois, il bassista Thomas Morgan e il batterista Geral Cleaver; nel 2009 “Pieces of Old Sky”, finché arriviamo nell’ottobre del 2010 quando Blaser, durante una tournée, registra live questo album in quartetto con il ben noto chitarrista francese Marc Ducret, il bassista svizzero Banz Oester e il batterista Gerald Cleaver . Il programma è incentrato su una suite in quattro parti che in realtà è l’assieme di quattro pezzi scritti in precedenza dallo stesso Blaser e messi assieme in forma di suite durante il tour cui si faceva cenno. La musica non è certo per palati facili, tutta giocata sulla figura del leader che è riuscito a fondere il virtuosismo strumentale di un Mangelsdorff con le sonorità classiche dei grandi maestri dello strumento, lanciandosi spesso in ardite improvvisazioni che si innestano nel complesso di una struttura globale disegnata con maestria e sagacia dallo stesso Blaser. Quindi un ottimo equilibrio tra scrittura ed improvvisazione che lascia ad ognuno dei compagni di viaggio uno spazio adeguato per esprimere le proprie potenzialità. In questo senso assai felice la scelta soprattutto di Marc Ducret che da un canto riesce a duettare da pari a pari con il leader, dall’altro si produce egli stesso in spericolate sortite solistiche frutto di una tecnica superiore e di una oramai consolidata frequentazione di simili scenari. Ovviamente non da meno contrabbassista e batterista che soprattutto nella terza parte offrono un saggio eloquente delle proprie capacità con Cleaver che dimostra come si possa raccontare una storia anche con la batteria e Oester che si dimostra ottimo improvvisatore nel dialogare con Marc Ducret.

Luca Cacucciolo – “Evolving”

Luca Cacucciolo – “Evolving”

Luca Cacucciolo – “Evolving” – Radio SNJ 023
Un quartetto di impronta moderna questo guidato dal pianista Luca Cacucciolo e completato da Tullio Ricci ai sassofoni, Giorgio Di Tullio alla batteria e Massimo Ciaccio al basso. Cacucciolo, grazie anche al fatto di aver composto la maggior parte dei brani, guida il gruppo con mano sicura attraverso sentieri assolutamente noti ma non per questo meno interessanti. In effetti, chiarito che in questo album non si ascolta alcunché di particolarmente innovativo, resta il fatto che si tratta di un disco di buon livello grazie alla bravura dei singoli, all’ottimo affiatamento, alla giustezza dei brani e soprattutto al fatto di essere riusciti a fondere diverse influenze in un unicum di buona originalità. Così nella musica di Cacucciolo e compagni è possibile avvertire svariate sonorità provenienti dal jazz più moderno, dal funk, dal drum and bass a comporre un puzzle di assoluta godibilità. Un puzzle in cui ciascuna tessera conserva una propria ben precisa individualità e valenza che cresce in modo esponenziale quando tutte le tessere vanno al loro posto. In effetti un ascoltatore attento può divertirsi a compiere la seguente operazione: dapprima seguire l’album cercando di porre l’attenzione su ciascun musicista; successivamente riascoltare il tutto privilegiando il gruppo nel suo assieme. Insomma quattro musicisti ben preparati a comporre un gruppo che si fa ascoltare con attenzione.

Enzo Favata/Mario Crispi – “Insulae”

Enzo Favata/Mario Crispi – “Insulae”

Enzo Favata/Mario Crispi – “Insulae” – Isola dei Suoni 005
Ecco uno di quei pochissimi album che lasciano davvero il segno. A proporcelo sono due musicisti “isolani”: sardo Enzo Favata, siciliano Mario Crispi. Ad onor del vero i due hanno un vissuto musicale piuttosto diverso. Crispi è più legato alla ricerca etnologica: fortemente attratto prima dalle musiche tradizionali della sua terra e quindi da quelle dei cinque continenti con una predilezione particolare per le terre che in qualche modo gravitano attorno al Mediterraneo, ha fatto dello studio di queste espressioni popolari il senso della sua vita artistica; di qui la ricerca sul campo, di qui la non facile arte di costruirsi tutta una serie di strumenti etnici altrimenti introvabili, di qui una musica dalle caratteristiche assolutamente uniche. Più legato al mondo del jazz, Enzo Favata si è costruito una solida reputazione grazie non solo alle sue qualità strumentali ma anche a quelle compositive, tutte caratterizzate da una elegante ed originale linea melodica; molti i suoi CD tra cui in questa sede mi piace ricordare “Islà” del ’94 anche perché sono stato testimone della sua felice gioiosa produzione. Partendo da queste premesse, i due hanno messo l’uno al servizio dell’altro il proprio patrimonio, con tanta umiltà e soprattutto tanta voglia di scoprire a cosa poteva portare il suonare assieme. Ebbene il risultato è ora a disposizione di tutti: tre quarti d’ora di musica assolutamente imprevedibile, visionaria, che ti trasporta in una terra di nessuno dove i suoni la fanno da padrone, suoni derivanti da un continuo intrecciarsi di timbri, armonie, spunti tematici a disegnare atmosfere ora arcaiche ora di stupefacente modernità grazie anche ad un uso quanto mai contenuto ed intelligente dell’elettronica. Un disco tutto da ascoltare, possibilmente lasciandosi andare al flusso delle emozioni.

Claudio Filippini – “The enchanted garden”

Claudio Filippini – “The enchanted garden”

Claudio Filippini – “The enchanted garden” – CamJazz 7839
Ecco uno di quei non molti album in cui il termine “piacevole” si associa a quelli di classe e bravura. Merito indubbio del leader, il giovane pianista Claudio Filippini ben coadiuvato da Luca Bulgarelli al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria. Perché ho usato i termini “piacevole”, “classe” e “bravura”. Perché oggi, troppo spesso, si confonde l’incomunicabilità, la sperimentazione fine a se stessa come un valore a prescindere… e secondo me non è così. Ma torniamo a “The enchanted garden”; Filippini, sulla scia di quanto già fatto in “Space Trip” evidenzia una notevolissima capacità interpretativa sorretta da un indubbio gusto: molte composizioni sono dello stesso pianista e tutte risultano caratterizzate da una predilezione per linee melodiche aperte, descrittive. Insomma il “musicista” Claudio è allo stesso tempo “piacevole” , “di classe” e “bravo” così come lo sono i compagni d’avventura anche se il peso maggiore del trio ricade sulle capaci spalle del leader.

Giovanni Francesca – “Genesi”

Giovanni Francesca – “Genesi”

Giovanni Francesca – “Genesi” . Auand 9027
Personalità poliedrica questo Giovanni Francesca nel cui curriculum figurano collaborazioni con Albano e Mino Reitano da un canto, con Antonello Salis, Maria Pia De Vito e Javier Girotto dall’altro. Insomma un chitarrista che conosce bene sia il pop sia il jazz e questo album ne è la piena conferma. Alla testa di un quartetto completato da Raffaele Tiseo al violino, Marco Bardoscia al contrabbasso e Gianluca Brugnano alla batteria presenta dieci brani tutti scritti da lui, accomunati da alcune caratteristiche: innanzitutto la ricerca di una linea melodica comunque mai banale, in secondo luogo la capacità di coniugare il rock con il jazz e con gli archi, in terzo luogo una sapiente orchestrazione e una vivida capacità di arrangiamento che consente una perfetta coabitazione di scrittura e improvvisazione. Non è certo un caso che il violino di Raffaele Tiso, più avvezzo a situazioni cameristiche, si sposi tuttavia al meglio con l’atmosfera creata da Francesca contribuendo, anzi, in modo determinante a strutturarne il sound. Così come ben equilibrato appare l’apporto dei multi musicisti ospiti, dal trombettista Luca Aquino (sempre eccellenti i suoi assolo) al trombonista Alessandro Tedesco, dal violoncellista Cristiano Della Corte al pianista Antonello Rapuano, dai due bassisti elettrici Davide Costagliola e Dario Miranda al batterista Stefano Costanzo. Per quanto concerne il repertorio, c’è da sottolineare come l’unica composizione che si stacchi dalle altre sia “Possiamo andare” per un andamento e un sound piuttosto scuri mentre quelle che mi hanno convinto di più sono “Iter” e “Quarto Miglio” sia per la struttura melodica sia per quella ritmica,

Giorgio Gaslini – “Piano solo – Incanti”

Giorgio Gaslini – “Piano solo – Incanti”

Giorgio Gaslini – “Piano solo – Incanti” CamJazz 7846-2
Recensire un album di Giorgio Gaslini è sempre impresa particolarmente complessa e per più di un motivo. Innanzitutto perché Gaslini è uno dei più importanti, significativi personaggi della scena jazzistica internazionale per cui su di lui si è già detto moltissimo; in secondo luogo la sua classe, la sua sapienza pianistica sono talmente cristalline e di livello cha davvero si resta “incantati” dinnanzi ad ogni sua produzione per cui si rischia di ripetere concetti già espressi. E purtroppo (si fa per dire) è il caso anche di questo ultimo lavoro in solo in cui Gaslini riconferma la sua idea di “musica totale” muovendosi con estrema disinvoltura tra jazz, musica contemporanea e musica classica. Le sue mani disegnano melodie eleganti e straordinarie sorrette da una capacità armonica non comune e dalla solita tavolozza timbrica che da sempre costituisce una delle note caratterizzanti lo stile del pianista. Ed ecco quindi disegnato a tinte cangianti ma affascinanti un universo musicale composito: si passa da Gabriel Fauré a Monteverdi, da Barbara Strozzi a Handel, da Tchaikowsky a Bartok, da Elgar a Cole Porter… per chiudere così come si era iniziato, con Gabriel Fauré. Alla fine di questi tre quarti d’ora di musica entusiasmante come non dar ragione alla “nostra” Daniela Floris che nelle acute note di copertina sottolinea come Gaslini sia in grado di mostrarci “quanto universali, al di là di spazio e tempo, siano sentimenti, gioie, dolori inclinazioni dell’uomo e dell’artista… e ci svela, senza pudore, senza reticenze, il proprio sentire più profondo di artista”.

Keith Jarrett – “Rio”

Keith Jarrett – “Rio”

Keith Jarrett – “Rio” – ECM 2198/99 2CD
Keith Jarrett è musicista straordinario, sicuramente uno dei migliori pianisti jazz di tutti i tempi, artista dal carattere difficile ma dal talento sontuoso. Ebbene Jarrett, come tutti, può incappare nei suoi concerti in qualche giornata non particolarmente felice (il vostro cronista ricorda un’ esibizione all’Auditorium la cui prima parte era – per usare un eufemismo – piuttosto noiosa). Viceversa quando entra in sala di incisione ha sempre le idee ben chiare e non c’è alcun disco che non si sia mantenuto su livelli di eccellenza. A questa regola non sfugge il doppio CD “Rio” inciso dal vivo al “Theatro Municipal” di Rio de Janeiro il 9 aprile del 2011. Si tratta di una lunga suite divisa in quindici parti non titolate che si articolano in circa un’ora e mezzo di splendide invenzioni. Ché il pianismo di Jarrett, come sanno bene gli appassionati, mai ripercorre sentieri già battuti, ma reinventa continuamente: è come se Keith, ogni volta, riportasse continuamente alla coscienza tutto il proprio vissuto per interpretarlo alla luce delle continue conoscenze, degli stimoli nel frattempo assorbiti. E per averne conferma basta confrontare questo album con “Testament” del 2008: lì c’era un Jarrett sicuramente profondo come sempre ma sicuramente incupito da contingenze personali non felici; qui, in “Rio” ritroviamo un pianista gioioso, felice di vivere che trova ancora nella musica il mezzo migliore di esprimere questo stato d’animo. L’album inizia in modo atonale tanto da richiamare una di quelle infelici esibizioni cui prima si faceva riferimento; poi, dal secondo brano, l’atmosfera cambia radicalmente e ritroviamo il Jarrett di sempre, il Jarrett che disegna armonie straordinarie a completamento di linee melodiche ora sfuggenti ora più lineari ma sempre dall’incredibile fascino. E così ascoltare il suo concerto diventa quasi un ripasso della storia del jazz. Nel suo pianismo è davvero contenuto quanto di meglio la musica jazz abbia saputo produrre nel corso della sua vicenda, il tutto offerto – caso raro in questo momento per Jarrett – senza alcuna voglia di ermetismo anzi con il preciso scopo di farsi comprendere, senza veli, senza alcuna intermediazione.

Gianluca Salvadori – “Due Passanti”

Gianluca Salvadori – “Due Passanti”

Gianluca Salvadori – “Due Passanti” – pus(H)in 1006.2
La musica di Gianluca Salvadori volta alta (o bassa a seconda dei giudizi): la battuta è fin troppo facile quando si parla di questo album dato che il Salvadori è stato per anni un pilota che “dopo aver appeso le ali al chiodo” – come lui stesso ama affermare – si è dedicato alla musica per continuare a volare questa volta sulle ali della melodia.
Questo album, che fa seguito a “Musica e Sudore del 2009”, è incoraggiante: tredici tracce caratterizzate da una bella linea melodica, la voce calda e suadente di Gianluca ad interpretarle accompagnandosi con la chitarra acustica e attorno un gruppo che alle volte esprime gradevoli venature jazzistiche. Certo, il campo resta quello del “cantautorato” che sembra aver trovato un altro esponente di eccellente livello. Se un appunto si può muovere al Salvadori è di non aver ancora trovato del tutto una propria caratterizzante cifra stilistica sia come compositore sia come interprete; specie sotto il primo profilo le sue composizioni richiamano spesso “colleghi” più illustri la cui influenza, d’altro canto, sarebbe quasi impossibile ignorare. Comunque la strada è quella giusta.. anche perché, merce rara in questo periodo, Gianluca dimostra un rimarchevole senso dell’ironia.

Giovanni Tommaso – “BassoProfilo”

Giovanni Tommaso – “BassoProfilo”

Giovanni Tommaso – “BassoProfilo” – CamJazz 7844
Un trio tanto inedito quanto eccellente questo costituito dal bassista Giovanni Tommaso, dal fisarmonicista Simone Zanchini e dal clarinettista Gabriele Mirabassi. Da tempo vado sostenendo che la fisarmonica, ad onta di un’opinione largamente diffusa, è strumento perfettamente adatto al linguaggio jazzistico, purché, ovviamente, lo si sappia suonare in un certo modo. E non c’è dubbio alcuno che Simone Zanchini sia, oggi, tra gli interpreti più entusiasmanti di questo nuovo modo di intendere la “fisa”; dotato di una prodigiosa tecnica e quindi padrone delle mille possibilità espressive dello strumento, Simone è in grado di condurre un concerto da solo, passando dalla musica colta al folk, così come gli ho visto fare di recente al Festival di Pineto. Non da meno gli altri due componenti il trio: il leader, Giovanni Tommaso, è bassista giustamente considerato tra i migliori a livello internazionale avendo, tra l’altro, scritto alcune delle pagine più belle e significative del jazz made in Italy; per questa occasione Giovanni ha anche scritto tutti i brani presenti nell’album. Infine Mirabassi è clarinettista apprezzato in tutto il mondo per la timbrica affatto personale e per le sue straordinarie capacità interpretative che lo portano ad affrontare, con estrema disinvoltura, le partiture più diverse. Ora non è detto che la somma di tre grandi individualità dia luogo a qualcosa di più grande… ma questa volta è andata proprio come logica vuole e così l’album è sicuramente tra i più interessanti degli ultimi mesi. Il “fascino discreto” della musica si evince già dalle prime note con Tommaso e Zanchini in evidenza a preparare il terreno per la prima sortita solistica di Mirabassi; ma il clima idilliaco viene scompaginato da Zanchini che introduce l’ascoltatore in un’atmosfera assolutamente diversa. E questo mutamento di clima, con improvvise accelerazioni e decelerazioni, resterà uno dei tratti distintivi dell’opera, anche per questo di grande interesse.

Antonio Tosques – “Block Notes”

Antonio Tosques – “Block Notes”

Antonio Tosques – “Block Notes” – Dodicilune 288
Prova di assoluta maturità per il chitarrista foggiano Antonio Tosques in compagnia di Danilo Gallo al contrabbasso, Enzo Carpentieri alla batteria e poi, niente di meno che Mike Melillo al pianoforte. Mike Melillo è personaggio di spicco nel panorama jazzistico internazionale avendo avuto modo di collaborare, nel corso della sua oramai lunga carriera, con personaggi del calibro di Sonny Rollins, Art Farmer e Chet Baker. I due – Melillo e Tosques – avevano già avuto modo di conoscersi e collaborare in occasione di concerti a Padova e a Torino nell’ottobre scorso: di qui l’idea di incidere un disco assieme partendo proprio dalla stima che lega i due artisti. “Mike è un vero signore del jazz “ afferma Tosques mentre Melillo del musicista pugliese dice che si tratta di un “meraviglioso chitarrista jazz, meritevole di più ampi riconoscimenti e proprio per questo sono più che felice di partecipare a questo progetto”. Ed in effetti la gioia di suonare assieme traspare evidente dal modo in cui i due riescono a dialogare sulle note scritte da Tosques anche perché il chitarrista ha preferito, questa volta, muoversi su un terreno hard bop ben noto al pianista. Così la musica scorre fluida e ben articolata anche se, ovviamente, nulla di particolarmente nuovo brilla sotto la luce del sole. Melillo si conferma pianista di classe insigne capace di ottimamente figurare in qualsivoglia contesto mentre Tosques, come si accennava in apertura, evidenzia una raggiunta maturità grazie ad una tecnica ineccepibile e ad un fraseggio sempre pertinente. Dal punto di vista stilistico, da segnalare che, nonostante l’evidente ancoraggio all’hard bop, non mancano espliciti riferimenti a linguaggi più moderni; è il caso del brano che da il titolo all’intero album, uno dei più interessanti dell’intero repertorio.

Vertere String Quartet & Robertinho De Paula – “Vera Cruz”

Vertere String Quartet & Robertinho De Paula – “Vera Cruz”

Vertere String Quartet & Robertinho De Paula – “Vera Cruz” – Dodicilune 291
Dieci splendidi brani brasiliani, un eccellente quartetto d’archi “rinforzato” da un bravo chitarrista, arrangiamenti eleganti e pertinenti: questi, in estrema sintesi, gli elementi che rendono di livello questo album. Purtroppo, rivolgersi alla musica brasiliana è diventato un vezzo di molti musicisti che amano inserire brani del genere in un programma assolutamente “altro”, con effetti non sempre positivi. Questo per dire che anche la musica più valida va maneggiata con cura e perizia. Cura e perizia che non mancano certo al Vertere String Quartet composto dai violinisti Giuseppe Amatulli e Rita Paglionico, da Domenico Mastro alla viola e da Giovanna Buccarella al cello cui, come già detto, si è aggiunto per l’occasione il chitarrista Robertinho De Paula figlio del ben noto Irio. I cinque hanno affrontato un repertorio brasiliano ma non oleografico nel senso che hanno fatto sì ricorso – eccezion fatta per Irio De Paula – a compositori “classici” ma sono andati a pescare brani poco eseguiti. Così, ad esempio, di Antonio Carlos Jobim ascoltiamo “Radamés y Pelé” e “Meu amigo Radamés”, di Milton Nascimento “Vera Cruz” e “Maria trés filhos”…e non manca una sortita nella musica “colta” con “Saudade do Chorinho” di Villa Lobos. Insomma un repertorio da intenditori, fatto apposta per soddisfare anche i palati più sopraffini; ma il solo repertorio, ovviamente, non sarebbe stato sufficiente se non fosse stato eseguito in maniera egregia dai cinque musicisti. Il quartetto dialoga con la chitarra di De Paula disegnando fitte trame sonore in un contesto quanto mai affascinante proprio perché di non facile definizione: gli archi mantengono intatto il fascino del loro suono eppure il risultato è tutt’altro che riconducibile alla musica colta o popolare; il linguaggio è moderno, attuale, con profonde venature jazzistiche in mirabile equilibrio tra modernità e tradizione. A quest’ultimo proposito da sottolineare il mirabile lavoro di arrangiamento compiuto da un altro eccellente musicista pugliese, Gianluigi Giannatempo.

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