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Amira - "Amulette"

Amira - "Amulette"

Amira – “Amulette” – world village 450018
Amira, al secolo Amira Medunjanin, nata a Sarajevo, è considerata una delle migliori interpreti della “sevda” ossia una musica antica, malinconica, da camera, molto differente da come la gente immagina la musica balcanica, uno stile espressivo che in qualche modo si avvicina al blues tanto che la stessa Amira è stata paragonata, non senza ragione, a Billie Holiday. In effetti il canto di Amira è appassionato, capace di penetrare a fondo nello spirito del pezzo sì da dare la giusta importanza a ciascuna singola sillaba. La sua voce proviene dall’anima e , grazie ad una sorta di straordinaria purezza trascendentale, arriva all’anima di chi l’ascolta e non è facile resistere all’ondata di commozione che spesso ti assale. Uno stile, quindi, di rara compostezza, quasi a sottrarre nel senso che Amira bandisce dal suo canto tutto ciò che è inutile, superfluo, ampolloso per giungere all’essenza della musica e comunicarcela così com’è. Di qui una sorta di dolce malinconia che pervade tutto l’album e che è dovuta oltre all’espressività di Amira, anche al pianismo così meditato, ricco di suggestioni, anch’esso quasi minimalista di quel Bojan Z che il pubblico italiano conosce assai bene per le precedenti incisioni con la Label Bleu. I due si trovano magnificamente nel maneggiare una materia delicata come quella rappresentata dalla tradizione: tutti i brani del CD provengono, infatti, da antiche musiche serbe, macedoni, bosniache, kosovare e vengono interpretate sempre alla ricerca di un giusto equilibrio tra rispetto della tradizione e modernità ovvero necessità di rapportarci ai nostri giorni. Il gruppo è completato da altri eccellenti musicisti: Nenad Vasilìc al contrabbasso, e Bachar Khalife alle percussioni cui si aggiungono, in qualche brano, come ospiti Vlatko Stefanovski alla chitarra e lo splendido Kim Burton all’accordion.

Enrico Blatti – “Espresso 443”

Enrico Blatti – “Espresso 443”

Enrico Blatti – “Espresso 443” – Egea
Sono curioso di sapere cosa pensano gli amici e colleghi che, una decina d’anni fa, quando si parlava della fisarmonica nel jazz storcevano il naso. In questo album si ha, infatti, la riprova di come anche questo strumento, se ben usato, possa esprimersi al meglio in un contesto jazzistico, seppure di sapore particolare. Ed in effetti il contesto è quello giusto: il gruppo comprende Pietro Tonolo al sassofono, Gabriele Mirabassi al clarinetto, Ettore Pellegrino al violino, Mario Stefano Pietrodarchi all’accordion, Maurizio Luciani al contrabbasso, Elena Trovato all’arpa e Pietro Pompei alle percussioni. Le composizioni sono tutte scritte ed arrangiate dal compositore romano Enrico Blatti che non a caso è l’intestatario dell’album. Blatti è musicista di solida preparazione: dopo il diploma di Clarinetto ottenuto con il massimo dei voti,si diploma in Composizione e Strumentazione per Banda, Direzione d’Orchestra e Musica Corale e Direzione di Coro. Dopo aver studiato accuratamente anche la musica jazz, nel 1995 fonda l’ensemble di fiati Nuovarmonia di cui è direttore ed arrangiatore. Più volte invitato all’estero ha diretto in moltissimi Paesi anche del Sud America e ha scritto ed arrangiato per Richard Galliano, Marcelo Nisinman, Fernando Suarez Paz, Lee Konitz, Amji Stewart, Cheryl Porter. Questo per dire che probabilmente proprio l’internazionalizzazione, l’essere venuto a diretto contatto con culture le più variegate rappresenta la cifra caratterizzante l’estetica del musicista che si ritrova puntualmente nel CD. Così, attraverso gli otto brani di “Espresso 443” la musica ci invita a compiere un viaggio straordinario nel Mediterraneo con i titoli che in qualche modo ci aiutano a capire dove siamo: si parte con “Taranta” chiaramente ispirata dall’omonima danza popolare salentina mentre in “Ninna nanna” l’accordion di Mario Stefano Pietrodarchi ci culla dolcemente fino a traghettarci in “InterRail” che esplicitamente richiama la corsa del treno…e via di questo passo fino al conclusivo “Radio Tirana” influenzato da ritmi balcanici. Il tutto attraverso una serie di emozioni create dall’incontro tra una musica straordinaria e musicisti straordinari che raramente hanno l’occasione di suonare assieme, emozioni porte con estrema naturalezza, senza forzatura alcuna.

Filippo Cosentino – “Lanes”

Filippo Cosentino – “Lanes”

Filippo Cosentino – “Lanes” –
Eccellente album d’esordio per questo chitarrista piemontese. L’album si fa notare per più di un motivo. Innanzitutto la scelta del repertorio. Nella giusta convinzione di doversi far conoscere sia come compositore sia come esecutore, Filippo ci presenta cinque originali di impianto moderno e dalla linea melodica orecchiabile e quattro standard jazz (“Hassan’s dream” di Benny Golson, “Las Vegas Tango” di Gil Evans, “ Blue Monk” di Thelonius Monk, “, e il conclusivo “Solar” di Miles Davis) riletto con originalità ed intelligenza. Ma con chi interpretare brani così importanti? Anche in questo caso la scelta di Cosentino è stata più che felice del momento che ha chiamato accanto a se un bassista di vaglia come Davide Beatino, già con Samuele Bersani e soprattutto il sempre eccellente Fabrizio Bosso che possiamo ascoltare nel brano d’apertura che da il titolo all’intero album e in “Smokin’ jazz”; gli altri musicisti che collaborano con il chitarrista sono l’altro bassista Giovanni Sanguineti e il batterista Carlo Gaia. Ciò detto, Cosentino appare musicista maturo, ben consapevole dei propri mezzi e soprattutto in grado di esprimere in maniera compiuta la “sua” musica frutto di intense contaminazioni. In effetti sia nel modo di comporre sia nel linguaggio chitarristico si avverte chiaramente come Cosentino abbia frequentato con profitto i territori del jazz, del blues, del rock, della fusion traendone, comunque, input positivi che si sono tradotti in uno stile personale e convincente. Si ascolti, al riguardo, il pezzo che da il titolo all’intero album e in tre pezzi in cui Cosentino suona da solo: “River avon”, “Reloaded”, “Spring mood”: la statura sembra quella di un ottimo musicista…aspetto quindi il prossimo album con ansia ed interesse.

Oscar Del Barba, Francesco Saiu – “Quattro elementi”

Oscar Del Barba, Francesco Saiu – “Quattro elementi”

Oscar Del Barba, Francesco Saiu – “Quattro elementi” –
Ancora un disco in duo ed ancora una prova convincente di come il “jazz da camera” possa costituire una risorsa se correttamente inteso. Questa volta sotto i riflettori il pianista Oscar Del Barba e il chitarrista Francesco Saiu che si misurano su un repertorio di dodici brani di cui otto scritti da Saiu e quattro da Del Barba. Ciò che risalta evidente dall’ascolto dell’album è la continua ricerca che i due si impegnano a condurre sul possibile equilibrio tra forma improvvisata e forma scritta. In effetti, come suggeriscono gli stessi musicisti, tutto nasce da un’idea di improvvisazione a metà, vale a dire una musica che scaturisce non già da una partitura bella e finita ma da un materiale minimo, con dei semplici schemi, affidato all’ inventiva dei due. Ovviamente il procedimento non è nuovo: illustri musicisti statunitensi vi si dedicano oramai da tempo e non sempre con risultati apprezzabili, dato il pericolo, costante, di cadere nella ripetizione di formule vuote ricche di tecnicismo ma povere di contenuti. Pericolo che in “Quattro elementi” mi sembra fugato completamente sia perché tutto si può rimproverare ai due tranne che fare sfoggio di virtuosismo, e in secondo luogo perché la capacità di ascoltarsi rappresenta una delle loro carte vincenti, così come l’evidente affinità. I due sanno perfettamente come fondere le loro idee tanto che alle volte i due strumenti assumono una sonorità affatto particolare. Insomma un bel disco che mi spinge a ben sperare per il futuro di questo duo.

Lisa Manosperti- “Where the West begins: voicing OrnetteColeman”

Lisa Manosperti- “Where the West begins: voicing OrnetteColeman”

Lisa Manosperti- “Where the West begins: voicing OrnetteColeman” – Dodicilune 289
Certo che di coraggio questa vocalist pugliese ne ha davvero tanto: dopo essere andata a scomodare la grande Edith Piaf in un precedente album, questa volta ha deciso di affrontare niente di meno che le musiche di Ornette Coleman. Per questo ardito progetto ha trovato man forte in un gruppo di eccellenti musicisti quali il sassofonista Roberto Ottaviano (che gradirei vedere più spesso sulle scene nazionali…e non solo), Domenico Caliri alla chitarra elettrica, Giovanni Maier al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. Valutare l’album è impresa estremamente difficile in quanto le interpretazioni di Coleman sono troppo impresse nella nostra mente per poterne prescindere, eppure bisogna dare atto alla Manosperti di essersi mossa partendo da un presupposto tutt’altro che banale: la bellezza delle melodie colemaniane che ella paragona a Gershwin, Porter, Ellington e Silver. Di qui l’idea di “arricchire” tali melodie con testi quasi tutti scritti dalla stessa Manosperti. L’effetto è straniante … nel verso senso del termine in quanto alle volte l’operazione sembra riuscita perfettamente (è il caso ad esempio di “Jayne” e soprattutto di “Lorraine” interpretata in duo con un superlativo Ottaviano), altre volte viceversa mi sembra che siamo davvero lontani dal mondo di Coleman (mi riferisco soprattutto a “Fou Amour”). Comunque, nel complesso, un album non banale in cui oltre alla cantante si ascoltano musicisti di spessore: di Ottaviano si è già detto, Caliri offre un supporto melodico-armonico in tutto l’album con una valenza particolare per “Jayne”, Maier conferma di essere uno dei migliori contrabbassisti almeno a livello europeo mentre Zeno De Rossi offre un saggio della sua indiscutibile classe in “Lonely woman” il brano che chiude degnamente l’album.

Giancarlo Maurino – “Untold”

Giancarlo Maurino – “Untold”

Giancarlo Maurino – “Untold” – Djanian
Questo nostro microcosmo jazz è davvero strano: ci sono artisti che già a 35 anni hanno firmato diversi CD, senza per altro avere alcun particolare merito, e ce ne sono altri, di converso eccellenti, che solo a 54 anni licenziano il loro primo album da leader. E’ il caso del sassofonista Giancarlo Maurino che finalmente appare come leader in questo album, per altro splendido, pubblicato come autoproduzione dell’etichetta Djanian. Devo confessare onestamente che, conoscendo ed apprezzando Maurino da tempo, non sapevo che mai fosse uscito sul mercato discografico alla testa di un gruppo per cui è con particolare piacere che vi presento questo CD. Il combo è stellare Rita Marcotulli al pianoforte, Francesco Puglisi al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria rappresentano quanto di meglio il jazz europeo possa oggi offrire. Se a ciò aggiungete un repertorio composto quasi totalmente da brani scritti da Maurino nel corso degli anni, con grande sagacia compositiva, si avrà un’idea abbastanza precisa del livello dell’album. La musica scorre compatta, impreziosita dai continui assolo del sassofonista e della pianista all’insegna di una libertà espressiva che neppure si attenua in presenza dell’unico standard, “Limbo” di Wayne Shorter. Così i quattro affrontano in surplace le atmosfere variabili suggerite dal leader che conduce con sagacia la musica da atmosfere swing e più legate alla tradizione, a situazioni più moderne in cui vengono valorizzate le capacità improvvisative dei singoli.

Giovanni Mazzarino – “In Sicilia una suite”

Giovanni Mazzarino – “In Sicilia una suite”

Giovanni Mazzarino – “In Sicilia una suite” – Jazzy 0004
Ecco uno degli album sicuramente più interessanti usciti negli ultimi mesi. Protagonista è il pianista e compositore siciliano Giovanni Mazzarino che nell’occasione suona con Max Ionata al sax, Rosario Bonaccorso al contrabbasso e Nicola Angelucci alle percussioni. Il CD reca nel titolo la parola “suite” che mai come questa volta viene usata a proposito: i quindici pezzi (di cui ben 14 scritti dallo stesso Mazzarino) sono dedicati ad altrettante località relative alla Sicilia, partendo da Muorica per arrivare a Scoglitti, passando attraverso località ben note come Ibla, Milo, Ganzirri, Noto, Taormina. Come spesso mi capita di dire, recensendo un disco norvegese, che ben difficilmente si capirà quel tipo di musica se non si conosce l’ambiente in cui la stessa viene creata, altrettanto si può dire di questa “In Sicilia una suite”: ben difficilmente si riuscirà a capire quanto Mazzarino sia stato straordinario nel trasporre in musica gli umori, i sapori, i colori della sua terra se non la si conosce bene. Un’operazione in cui Mazzarino è riuscito a trasfondere tutto il suo sapere musicale, frutto di anni di intenso studio e di attento ascolto di quanto nel frattempo accaduto. Comunque, al di là della conoscenza diretta, resta la realtà di una musica raffinata, elegante, di rara espressività che Giovanni dedica con sincero amore alla sua terra, quella terra da cui non riesce a staccarsi nonostante sul Continente possa , probabilmente, trovare migliori occasioni. Ovviamente alla bella riuscita dell’album hanno contribuito, in modo non secondario, i compagni di viaggio: personale come sempre Max Ionata, preciso e trascinante Rosario Bonaccorso (autore, tra l’altro, dell’unico brano non firmato da Mazzarino, “Rosa di Ionia”) del tutto aderente al discorso generale il drumming di Angelucci.

Dan Moretti & Piccola Orchestra La Viola – “The Journey”

Dan Moretti & Piccola Orchestra La Viola – “The Journey”

Dan Moretti & Piccola Orchestra La Viola – “The Journey” – Dodicilune 281
Quest’album è sostanzialmente il frutto dell’amore di un musicista americano di origine italiana per le sue radici. Nato nello Stato del Rode Island, negli Usa , il sassofonista e flautista Dan Moretti sapeva soltanto che il nonno, Tommaso,era italiano e che veniva da Monticelli. Spinto dall’impulso di saperne di più, Dan tra il 2000 e il 2008 venne più volte in Italia riuscendo a scoprire che sì, effettivamente il nonno Tommaso era partito da Monticelli, nel comune di Esperia, nel 1908 alla volta degli States. A seguito di tali frequenti viaggi, Moretti ebbe modo di cominciare a lavorare con le bande di Alatri, Segni e Isola del Liri nonché con alcuni cori gospel italiani fino a quando l’allora vice sindaco di Isola del Liri non ché direttore artistico del Liri Blues Festival, Luciano Duro, gli presentò la Piccola Orchestra La Viola composta da voce, 10 organetti, basso, batteria e percussioni. Fu amore a prima vista e il risultato è quest’ottimo CD che abbiamo l’occasione di ascoltare. L’album è godibilissimo dal primo all’ultimo minuto innanzitutto per l’atmosfera che emana: si nota una straordinaria aderenza di tutti ai temi eseguiti, scritti e arrangiati in massima parte da Dan Moretti . Il musicista americano ha svolto un eccellente lavoro calandosi nell’humus dell’Orchestra, non solo rispettandone le caratteristiche ma ponendone viepiù in luce le capacità di interpretare arrangiamenti che pur di indubbia modernità non si allontanano dall’espressività propria di uno strumento legato alla tradizione come l’organetto. Insomma un esperimento ardito ma perfettamente riuscito. Complimenti!

Giovanna Pessi/Susanna Wallumrød – “If grief could wait”

Giovanna Pessi/Susanna Wallumrød – “If grief could wait”

Giovanna Pessi/Susanna Wallumrød – “If grief could wait” – ECM 2226
Ecco un altro album sicuramente non jazzistico ma che presenta notevoli motivi di interesse che ne consigliano l’ascolto. Protagoniste la specialista d’arpa barocca Giovanna Pessi e la vocalist norvegese Susanna Wallumrød accompagnate, nell’occasione, da Jane Achtman alla viola da gamba e Marco Ambrosini alla nyckelharpa (strumento musicale ad arco della tradizione svedese, appartenente alla stessa famiglia della ghironda e della viella). I quattro affrontato un repertorio tutt’altro che facile comprendente ben otto composizioni di Henry Purcell (1659-1695), due brani di Leonard Cohen, un pezzo di Nick Drake e due originals firmati dalla Wallumrød. Registrato in soli 3 giorni a Lugano, l’album ha una storia piuttosto lunga: Giovanna Pessi aveva già registrato per la ECM con il Rolf Lislevand Ensemble, e anche con il Christian Wallumrød Ensemble, e fu provando con questo gruppo che incontrò per la prima volta la giovane sorella di Christian, Susanna, che proprio in quel periodo muoveva i primi passi nel mondo della musica. Di qui una naturale intesa che ora si è concretizzata in quest’album, come si diceva in apertura assai interessante. In particolare la voce di Susanna si staglia con effetto straniante sul tessuto sonoro intessuto dagli altri strumenti: l’arpista segue magnificamente le intenzioni espressive della vocalist mentre gli altri due strumentisti offrono sonorità particolari, somigliando la viola da gamba ad un violoncello e la nyckelharpa ad una chitarra. L’aderenza allo spirito originario della musica è strabiliante: i quattro fanno di tutto (riuscendovi perfettamente) per mantenere lo spirito originario delle composizioni – pur nella loro diversità – senza alcuna pretesa filologica o, peggio ancora, di creare un qualsivoglia ponte tra antico e moderno. I quattro si muovono all’interno di una naturale e sincera ispirazione che li porta suonare la musica che loro amano, nel modo che loro prediligono. E il pubblico? Potrà apprezzare o meno il risultato finale ma resta la realtà di un gruppo che ha voluto cimentarsi in un’operazione assai difficile con la massima onestà intellettuale, cosa, oggi, non del tutto disprezzabile.

Astor Piazzolla – “Tango distinto”

Astor Piazzolla – “Tango distinto”

Astor Piazzolla – “Tango distinto” – Naxos 8.572596
Come ho già avuto modo di sostenere molte altre volte, Astor Piazzolla è stato assai importante non solo per il tango ma anche per il jazz dal momento che dopo di lui il connubio tra queste due forme espressive ha acquisito nuova vita e diversa valenza. In quest’ambito va collocato “Tango distinto” ovvero una serie di composizioni del celebre argentino adattate per trombone dal solista principale dell’album il greco Achilles Liarmakopoulos. Membro dei “Canadian Brass”, Achilles ha sviluppato un percorso artistico tendente a rivedere un repertorio assai variegato riadattandolo al suo strumento. Questa volta ha posto la sua attenzione su Piazzolla chiamando a collaborare alcuni musicisti di vaglia quali Héctor Del Curto un eccellente bandoneonista che ha già inciso con lo stesso Piazzolla, il pianista Octavio Brunetti, il bassista Pedro Giraudo (tutti argentini), il chitarrista Simon Powis, il percussionista americano Ian Rosenbaum, l’altro pianista Robert Thompson, Samuel Adams ancora al contrabbasso, Edson Scheid e Jiyn Han ai violini, Raul Garcia alla viola e Arnold Choi al violoncello. Un impianto, quindi, che si presta ad atmosfere sia jazzistiche sia cameristiche, atmosfere che si ritrovano entrambe grazie alla bella prova dell’intero gruppo, ben amalgamato, affiatato ed in grado di ben rendere le partiture di Piazzolla. Ma, ovviamente, il merito maggiore va ad Achilles Liarmakopoulos, solista straordinario che con grande umiltà e leggerezza, con un approccio quasi minimalista caratterizzato da un tono di estrema delicatezza, affronta opere quanto mai complesse quali “Histoire du Tango”, tutti e tre i movimenti di “Serie del Angel” per l’arrangiamento di Gabriel Senanes, Michelangelo, Oblivion e Soledad. Insomma un altro modo di sentire ed eseguire la musica di Piazzolla!

Edward Ricart – “Ancòn” – SLAM 529
L’album è stato registrato live al Seizure Palace di Brooklyn da un quartetto americano composto dal chitarrista Edward Ricart , da Jason Ajemian al basso e da Andrew Barker alla batteria mentre alla tromba c´è il musicista forse più conosciuto, Herb Robertson, molto noto in Italia per le sue collaborazioni con Tiziano Tononi. Il CD è di quelli che lasciano il segno, in negativo o in positivo, ma lasciano il segno nel senso che o lo si odia o lo si ama. Ciò perché si tratta di musica improvvisata nell’accezione più completa del termie: i quattro sono entrati in sala di incisione senza la pur minima idea di quel che sarebbe accaduto, avendo ben presente solo l’obiettivo principale: far incontrare due musicisti dell’area creativa pure molto diversi tra di loro, il chitarrista amante di sonorità spesso “sporcate” dall’elettronica e il trombettista la cui voce si caratterizza, viceversa, per la purezza del suono. L’effetto è dirompente: i quattro si incontrano- e a volte si scontrano – facendo prevalere ora l’una, ora l’altra anima del quartetto. Così a brani di chiara impronta free, financo esasperata, si alternano pezzi in cui il chitarrista riscopre la sua discendenza da Hendrix fino ad un “The sun’s in your face” in cui le tensioni si stemperano in un clima di inattesa tranquillità. Insomma un album discutibile ma che trova il suo pregio maggiore nella sincerità di ispirazione dei quattro musicisti.

Randy Weston and his African Rhythms Sextet – “The Storyteller” – Matèma 233279.
La registrazione dal vivo da cui scaturisce l’ultimo album del pianista-compositore afroamericano risale al dicembre 2009, nei locali del Dizzy’s Club Coca Cola. L’album è pubblicato sotto l’egida del Jazz at Lincoln Center – une delle massime autorità istituzionali per il jazz – come evidenziato dal breve intervento scritto di Todd Barkan (coproduttore del Cd). Weston, poco conosciuto in Italia ma molto apprezzato in Francia, è uno dei maestri della black-music che, superati gli ottant’anni, continua a produrre, a generare una musica che mentre racconta ed evidenzia la storia diasporica di un popolo si mantiene viva ed attuale. Il pianista si può paragonare ad altri senatori che sono anagraficamente tra gli ottanta ed i novant’anni eppure sempre attivi in quanto a creatività e, in alcusi casi, docenza: Ornette Coleman, Sonny Rollins, Barry Harris, Jim Hall, Yusef Lateef. La musica di Randy Weston ha da sempre un respiro ampio, uno spessore epico pur essendo antiretorica e molto legata alla fisicità del suono e del corpo. Ha una matrice fortemente ritmica e timbrica: il pianista ha da decenni raggiunto una sintesi pressoché perfetta fra alcuni dei ritmi africani (nel Continente Nero Weston ha viaggiato e vissuto a lungo, a Tangeri) ed una scansione jazzistica. L’album si apre con un solo-piano dedicato al percussionista cubano Chano Pozo (introdusse i ritmi della sua isola nel bebop nei tardi anni ’40) che sfocia naturalmente in “African Sunrise”; qui, su un ritmo afrolatino, l’altista T.K.Blue cità più volte “A Night In Tunisia” ed altri brani gillespiani e parkeriani. Il sestetto comprende anche il trombonista veterano Benny Powell (scomparso dopo la registrazione: l’album gli è dedicato), il contrabbassista virtuoso Alex Blake, il batterista Lewis Nash ed il percussionista Neil Clarke. Il resto dell’esibizione (nove brani) sono riuniti sotto il titolo “The African Cookbook Suite”. Weston cita un suo album omonimo e propone una serie di composizioni che hanno segnato la sua poetica (“Hi Fly” scritto nei primi anni ’60 dopo il primo viaggio in Africa) e nuove partiture.
Nel retro della copertina campeggia una vasta savana con un solo, immenso albero: a questo paesaggio ben si connette il senso quasi di infinito di “The Shrine” mentre la conclusiva “Love, The Mystery Of”, del compositore africano Guy Warren, suggella concerto e registrazione con i suoi colori cangianti ed il ritmo ipnotico. Da ricordare, infine, che nel 2010 il pianista ha pubblicato per la Duke University Press (si può comprare su motema.com) “The Autobiography of Randy weston”, frutto di lunghe conversazioni rielaborate da Willard Jenkins. (Luigi Onori)

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