Ascoltiamo Mario Crispi

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Naturalmente quello di Palermo che nulla aveva a che fare con lo storico Folk Studio romano di Giancarlo Cesaroni…
“Si, infatti: è un'istituzione palermitana, nata autonomamente, che attualmente possiede un formidabile archivio di documenti sonori. In quel periodo collaboravo anche con il “Centro per le iniziative musicali in Sicilia” che aveva invece un nutrito archivio discografico sulle musiche del mondo, e tutto ciò rappresentò per me una grandissima opportunità dal momento che cominciai a conoscere, personalmente, le musiche delle parti più svariate del mondo senza passare dalle rielaborazioni. Attingere direttamente alla fonte è la cosa più importante quando si effettuano ricerche artistiche di questo tipo, ovvero basate su musiche, strumenti e tecniche provenienti dalle culture del mondo. Forti di questo tipo di conoscenze, riportai tutto all'interno del gruppo ed iniziammo a lavorare sulla reinterpretazione di materiale originario. Nacque così “Gnanzù!” il nostro primo CD, album che ci fece conoscere e intensificare le tournee in Germania, Austria, Svizzera e con cui poi riuscimmo a presentarci alla selezione di Arezzo Wave partecipando alla compilation che veniva curata per la manifestazione. Siamo intorno al '93, '94 e grazie anche a questa compilation “entrammo” finalmente in quell'Italia che avevamo saltato a piè pari per andare a suonare all'estero. Successivamente avemmo l'opportunità di entrare in contatto con Anagrumba e la CNI, che si stava sviluppando come casa discografica rivolta alla world music italiana: firmammo un contratto e così uscì “Viaggiari”, dapprima un quattro pezzi, poi Tuareg, l'lp che ci ha praticamente consacrati. In seguito abbiamo inciso altri otto album che hanno ottenuto un eccellente riscontro. Negli ultimi tempi, dopo la rottura del contratto con la CNI, siamo andati in autoproduzione ma emergevano già i segni di un'esperienza conclusa”.

Purtroppo quando un gruppo sta assieme per anti anni, le divisioni diventano inevitabili anche perché si accentuano le divergenze artistiche e stilistiche.
“ Anche il nostro caso ha seguito queste regole. Le nostre esigenze artistiche hanno cominciato a divergere in maniera profonda. Ad esempio, per quanto mi riguarda, io adesso sono concentrato soprattutto sulla musica suonata ovvero concepita come collaborazione creativa con altri musicisti, strutturata su performances, sull' o comunque sull'interscambio tra culture diverse “.

Piuttosto che?
“Con Agricantus, sebbene nel tempo abbiamo avuto tante opportunità di suonare con altri artisti, in realtà il repertorio ha risentito in maniera progressiva dell'uso di basi elettroniche e preregistrate, penalizzando così la componente espressiva dei singoli musicisti e degli strumenti acustici ”.

Mi stai dicendo che era tutto troppo scritto, troppo arrangiato?
“Per un musicista come me, la musica fatta con Agricantus, è divenuta col tempo sempre più strutturata, risultando sempre più spesso troppo limitante. Certo l'idea di utilizzare suoni elettronici elaborati era sempre stato affascinante, in certi momenti diveniva molto evocativo e stimolante. E sarebbe stato interessante riuscire a ricostruire le stesse emozioni suscitate dalle basi mixate, attraverso l'uso di strutture più aperte, anche con l'uso dell'elettronica, ma in chiave più “generativa”, e con suoni “costruiti” dal vivo piuttosto che principalmente campionati. Che poi questo è il percorso che attualmente sto investigando con il mio progetto “Arenaria”. L'idea con Agricantus, era quella di avere un prodotto più “pop”, più leggibile per i grandi spazi, ma in realtà, a parte certi brani, come Carizzi r'amuri, Amatevi, e qualche altro, che sono riusciti a farsi conoscere nella scena internazionale, pop, in realtà, non lo siamo mai stati sino in fondo, andando a sacrificare comunque e troppo spesso l'espressività che eravamo in grado di esprimere“.

Ma veniamo all'oggi; come sei giunto a questo straordinario album- “Insulae”- con un partner che , diversamente da te, è molto più versato sul coté jazzistico?

“Con Enzo Favata si realizza quasi un aspetto speculare: lui ha una componente jazzistica ma rivolta al world, io ho una componente world che ogni tanto va a pescare nella componente jazz, Quest'ultima è intesa da me più come concetto che come forma: preferisco sempre una situazione modale al posto di una strutturazione armonica più complessa “.

Ma anche nel jazz il modale rappresenta una realtà importante.
“ Certo ma, soprattutto nelle sostituzioni armoniche, spesso la modalità si va perdendo in mille rivoli e comunque, nel caso specifico dei miei strumenti, molti risultano limitati nella scala e nella estensione, per cui suonare su armonie complesse non giova, mentre, suonando su un bordone, nell'ambito opportuno, si possono costruire cose notevoli e molto evocative. Comunque, tornando all'album, con Favata ci siamo conosciuti nel '95 quando ho vissuto per un periodo in Sardegna; abbiamo cominciato a frequentarci, a confrontarci, a fare dei concerti assieme sebbene la cosa si interruppe con la fine del mio soggiorno in Sardegna. Poi, dopo anni, ci siamo ritrovati ed è nata l'idea di tornare a fare qualcosa assieme, magari un disco. Così nel 2010 abbiamo avuto l'opportunità di fare una sessione di registrazione, abbiamo fatto varie improvvisazioni e ne sono venuti fuori gli otto brani del disco. Poi ci abbiamo rimesso le mani per renderli in forma compiuta, cercando di far venire fuori l'idea di fondo: far dialogare metaforicamente le nostre due “isole”, intese come due mondi all'apparenza molto lontani ma in realtà molto più vicini di quanto si pensi. Enzo, inoltre, ha un suono molto importante e nella sua maniera di fare jazz c'è una forte dimensione evocativa per cui, nel momento in cui si è deciso di fare qualcosa assieme, ci siamo trovati subito sulla stessa lunghezza d'onda” .

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