Ascoltiamo Mario Crispi

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Mario Crispi

Mario Crispi

Siciliano di Palermo, Mario Crispi è senza dubbio uno dei musicisti più originali che calchino le scene internazionali. Dopo aver dato vita al celebre gruppo “Agricantus”, oramai da alcuni anni persegue una carriera solistica basata soprattutto sullo studio e la riproposizione di musiche etniche. Di recente ha firmato, assieme al sassofonista Enzo Favata, uno splendido album significativamente intitolato “Insulae”. Lo abbiamo lungamente intervistato e questo è il succo della nostra interessante chiacchierata.

Mario, oramai da diversi anni, tu ti dedichi con particolare amore e devozione ad una approfondita ricerca sul campo che ha prodotto, tra l'altro, quel bellissimo album realizzato con Enzo Favata e intitolato “Insulae” a voler omaggiare le vostre due isole, la Sicilia e la Sardegna. Come è nata in te questa voglia di ricerca e sperimentazione?
“ Viene direttamente dalla mia adolescenza; in effetti, quando ho cominciato a suonare l'ho fatto adoperando immediatamente strumenti particolari”.

Come mai?
“ Oggi non saprei spiegarlo esattamente. Era un'attrazione strana, quasi magica, soprattutto verso i materiali naturali. Quando avevo all'incirca tredici anni, venni a conoscenza che c'era in Italia un gruppo di esuli cileni, gli “Intillimani”, che utilizzava per l'appunto strumenti particolari fatti di canna, di legno, di pelle animale. E mi innamorai immediatamente per il loro particolare suono. Così, anche se comunque attratto dagli strumenti classici, chitarra, flauto etc., cominciai a costruire questi per me nuovi strumenti. La passione mi colse fin dall'inizio, spingendomi ad informarmi e studiare in maniera più approfondita: mi sono così specializzato sia nella costruzione di tali strumenti sia nell'esecuzione di una musica ispirata ad una parte del mondo così lontana dalla nostra “.

All'epoca di questi fatti tu, se non sbaglio, vivevi a Palermo. Ma lì era possibile reperire notizie di questo tipo?
“Stiamo parlando del '78, '79 e la tua domanda calza perfettamente: non era possibile infatti avere informazioni di prima mano, eravamo in fondo allo Stivale molto più di quanto lo siamo adesso. All'epoca, raramente musicisti come gli Intillimani venivano a Palermo. Comunque io ebbi la fortuna di entrare in contatto con un gruppo che si occupava di questo genere musicale e, addirittura aveva tra i musicisti una cilena rifugiata che viveva a Palermo. Diventammo subito amici e grazie a loro ho cominciato ad inoltrarmi nei meandri di questa musica. Tra l'altro, Gigi Garofalo, all'epoca uno dei componenti di questa formazione, è divenuto col tempo uno dei più preparati etno-musicologi italiani: egli mi ha aperto tante porte circa la conoscenza della musica di tradizione orale. Con questo tipo di approccio mi sono perciò facilmente avvicinato col giusto rispetto anche ad altre culture “.

Si può dunque dire che sei un autodidatta…
“ Sì, nel senso che non ho studiato in maniera accademica. Tieni presente che quando ho cominciato a suonare non si aveva a disposizione quel cumulo di informazioni che si hanno adesso, non c'era Internet, non era facile entrare in possesso di registrazioni originali… c'era solo qualche traccia che ti passava qualche amico contenuta in qualche cassetta. Per esempio, ancora alla fine degli anni '80, il ney persiano non era conosciuto come strumento (a parte il fatto che la musica era vietata dal regime iraniano, per cui raramente uscivano fuori produzioni musicali); c'era qualche registrazione di qualche casa discografica italiana o francese, che si avventurava in queste musiche extraeuropee con la produzione di qualche disco. Mentre oggi c'è youtube, dove trovi di tutto, a quei tempi, appena avevi la possibilità di entrare in contatto con qualche musica “diversa”, cercavi di assorbirne tutti i segreti, ben consapevole che trovare nuove informazioni sarebbe stato molto difficile. Ecco, io mi sono formato in questo tipo di situazioni: gli strumenti che oggi fanno parte del mio armamentario sono tutti studiati “percettivamente”, ovvero in relazione al materiale sonoro con cui di volta in volta sono entrato in contatto” .

Hai approfondito queste ricerche anche andando nei luoghi in cui queste musiche e questi strumenti sono stati creati?
“ Sì; a partire dalla metà degli anni '90, sia attraverso i concerti con Agricantus – il gruppo che ho formato nel '79 – sia con viaggi personali dove ho approfondito tutta una serie di elementi proprio in loco ed è stata sempre un'esperienza esaltante. Per esempio, qualche anno fa sono stato tre settimane in Iran. Lì, a Teheran, ho suonato con un amico artista/musicista, Reza Derakshani che vi è tornato a vivere, mentre a Isfahan, in Iran Centrale, ho suonato con musicisti di strada (dal momento che mi ero portato appresso gli strumenti): in entrambe le esperienze ho capito alcune cose della musica persiana che prima mi erano sfuggite, essendomi mancato il contatto diretto. Nel 2006 invece sono stato invitato in Pakistan a partecipare al Festival “World Performing Art” a Laore. È stata una settimana davvero speciale in quanto sono rimasto immerso full time in una atmosfera straordinaria creata dai 500-600 artisti che partecipavano alla manifestazione, provenienti da tutto il mondo anche se in maggioranza da quelle aree. Il Festival era strutturato in modo tale che gli artisti avessero l'opportunità di conoscersi e frequentarsi e quindi, successivamente, di interagire tra loro. Tutto ciò diviene fondamentale, ad esempio, nell'apprendimento di uno strumento o di modalità esecutive poiché si ha l'opportunità di ascoltarle proprio nel “proprio” ambiente. Sono stato in Kenia con Giovanni Lo Cascio per partecipare al suo progetto “Juakali Drummers”, ovvero un gruppo di ragazzi provenienti dagli slams che hanno elaborato negli anni delle tecniche particolari nella costruzione di strumenti etnici soprattutto a percussione. Nel caso di questo progetto io ho tenuto invece un laboratorio di strumenti a fiato costruiti con materiali di riciclo. E anche questa è stata un'esperienza molto importante in quanto, parallelamente alla costruzione di tali strumenti, andavamo elaborando, con i ragazzi, tecniche di apprendimento sperimentali”.

Immagino che frequentando tali contesti tu pratichi la respirazione circolare.
“ Sì, l'ho imparata stranamente in Sicilia alla fine degli anni '80. In quel periodo c'era un Festival particolare, organizzato da una Associazione, l'Associazione Antonino Uccello, di cui facevano parte, tra gli altri, Ignazio Buttitta, Rosa Balestrieri, Ciccio Busacca…”.

I grandi, insomma…

“Sì, c'erano anche i Rakali, la Taberna Mylaensis e c'eravamo anche noi – giovanissimi Agricantus – come soci fondatori di questa benemerita associazione che cercava di salvaguardare e propagandare la musica popolare di tradizione orale siciliana. In quella occasione venne invitato anche Luigi Lai, uno dei più grandi maestri viventi di launeddas: straordinario strumento della tradizione sarda all'epoca conosciuto solo dagli studiosi. Acquistai da lui tre strumenti, mi fece vedere più o meno come andavano suonati e poi mi lasciò al mio destino. Comunque in un po' di tempo imparai la respirazione circolare e imparai anche qualche frase da sviluppare sulle launeddas”.

Ma tu non suoni spesso questo strumento…
“Oggi le suono meno, ma prima le suonavo molto più spesso. Ma non perché non mi piacciono: il fatto è che si tratta di uno strumento molto difficile! Pensa che in questo ambito la respirazione circolare è forse la parte più semplice: la cosa veramente complicata è suonare secondo la concezione sarda dello sviluppo delle nodas, ovvero l'apprendimento di numerose piccole frasi con cui costruire un brano e che vanno memorizzate per miscelarle successivamente tra loro in maniera creativa e che, dato l'aspetto polifonico e poliritmico, richiedono l'indipendenza totale delle dita di ciascuna mano. A mio avviso i maestri di launeddas, proprio per la complessità delle strutture musicali e delle tecniche esecutive utilizzate, sono assimilabili ai concertisti classici dato che, per esprimersi compiutamente in questo campo, devono esercitarsi ore ed ore al giorno “.

Tu poco facevi riferimento ad Agricantus, senza dubbio uno dei gruppi più importanti in questo specifico segmento musicale. Come nacque e perché si è sciolto?
“Gli Agricantus nacquero nel 1979 come collettivo musicale che trattava originariamente la musica del Sud America, delle Ande, collegandola anche ad un impegno politico dato che quei popoli erano allora per buona parte sotto dittatura. Abbiamo portato avanti questo tipo di impegno per due tre anni e poi ci siamo avvicinati alla musica siciliana, in particolare ad un poeta sindacalista, Vito Mercadante, vissuto agli inizi del ‘900, di cui musicammo varie poesie con tematiche che spaziavano dalla cultura popolare all'amore ma con una particolare predilezione per la solidarietà verso la classe contadina, gli operai, i lavoratori “.

Di qui il nome Agricantus?
“ No, in realtà il nome – campo di grano – esisteva da prima in quanto si tratta di una
translitterazione di questo concetto in latino dando però una dimensione atemporale in quanto partiva dal latino per giungere fino ai giorni d'oggi”.

In realtà io ho sempre inteso Agricantus in senso più letterale come canto del campo…
“Sì, canto del campo, campo di grano sono per me concetti coincidenti. Questa mistura tra musica popolare, rock, jazz ce la siamo trascinata sino ai primi anni '90 quando cominciarono a prendere piede gli strumenti elettronici con la possibilità di campionare suoni ed elaborarli in forma digitale. In quella fase abbiamo cominciato ad approfondire un nostro linguaggio. Quel periodo coincise anche con la mia collaborazione con l'Università di Palermo finalizzata alla ricerca etno-musicologica: cominciai ad andare in giro con il registratore, a fare ricerche sul campo e svolgere lavori di archiviazione all'interno del Folk Studio”.

Naturalmente quello di Palermo che nulla aveva a che fare con lo storico Folk Studio romano di Giancarlo Cesaroni…
“Si, infatti: è un'istituzione palermitana, nata autonomamente, che attualmente possiede un formidabile archivio di documenti sonori. In quel periodo collaboravo anche con il “Centro per le iniziative musicali in Sicilia” che aveva invece un nutrito archivio discografico sulle musiche del mondo, e tutto ciò rappresentò per me una grandissima opportunità dal momento che cominciai a conoscere, personalmente, le musiche delle parti più svariate del mondo senza passare dalle rielaborazioni. Attingere direttamente alla fonte è la cosa più importante quando si effettuano ricerche artistiche di questo tipo, ovvero basate su musiche, strumenti e tecniche provenienti dalle culture del mondo. Forti di questo tipo di conoscenze, riportai tutto all'interno del gruppo ed iniziammo a lavorare sulla reinterpretazione di materiale originario. Nacque così “Gnanzù!” il nostro primo CD, album che ci fece conoscere e intensificare le tournee in Germania, Austria, Svizzera e con cui poi riuscimmo a presentarci alla selezione di Arezzo Wave partecipando alla compilation che veniva curata per la manifestazione. Siamo intorno al '93, '94 e grazie anche a questa compilation “entrammo” finalmente in quell'Italia che avevamo saltato a piè pari per andare a suonare all'estero. Successivamente avemmo l'opportunità di entrare in contatto con Anagrumba e la CNI, che si stava sviluppando come casa discografica rivolta alla world music italiana: firmammo un contratto e così uscì “Viaggiari”, dapprima un quattro pezzi, poi Tuareg, l'lp che ci ha praticamente consacrati. In seguito abbiamo inciso altri otto album che hanno ottenuto un eccellente riscontro. Negli ultimi tempi, dopo la rottura del contratto con la CNI, siamo andati in autoproduzione ma emergevano già i segni di un'esperienza conclusa”.

Purtroppo quando un gruppo sta assieme per anti anni, le divisioni diventano inevitabili anche perché si accentuano le divergenze artistiche e stilistiche.
“ Anche il nostro caso ha seguito queste regole. Le nostre esigenze artistiche hanno cominciato a divergere in maniera profonda. Ad esempio, per quanto mi riguarda, io adesso sono concentrato soprattutto sulla musica suonata ovvero concepita come collaborazione creativa con altri musicisti, strutturata su performances, sull'improvvisazione o comunque sull'interscambio tra culture diverse “.

Piuttosto che?
“Con Agricantus, sebbene nel tempo abbiamo avuto tante opportunità di suonare con altri artisti, in realtà il repertorio ha risentito in maniera progressiva dell'uso di basi elettroniche e preregistrate, penalizzando così la componente espressiva dei singoli musicisti e degli strumenti acustici ”.

Mi stai dicendo che era tutto troppo scritto, troppo arrangiato?
“Per un musicista come me, la musica fatta con Agricantus, è divenuta col tempo sempre più strutturata, risultando sempre più spesso troppo limitante. Certo l'idea di utilizzare suoni elettronici elaborati era sempre stato affascinante, in certi momenti diveniva molto evocativo e stimolante. E sarebbe stato interessante riuscire a ricostruire le stesse emozioni suscitate dalle basi mixate, attraverso l'uso di strutture più aperte, anche con l'uso dell'elettronica, ma in chiave più “generativa”, e con suoni “costruiti” dal vivo piuttosto che principalmente campionati. Che poi questo è il percorso che attualmente sto investigando con il mio progetto “Arenaria”. L'idea con Agricantus, era quella di avere un prodotto più “pop”, più leggibile per i grandi spazi, ma in realtà, a parte certi brani, come Carizzi r'amuri, Amatevi, e qualche altro, che sono riusciti a farsi conoscere nella scena internazionale, pop, in realtà, non lo siamo mai stati sino in fondo, andando a sacrificare comunque e troppo spesso l'espressività che eravamo in grado di esprimere“.

Ma veniamo all'oggi; come sei giunto a questo straordinario album- “Insulae”- con un partner che , diversamente da te, è molto più versato sul coté jazzistico?

“Con Enzo Favata si realizza quasi un aspetto speculare: lui ha una componente jazzistica ma rivolta al world, io ho una componente world che ogni tanto va a pescare nella componente jazz, Quest'ultima è intesa da me più come concetto che come forma: preferisco sempre una situazione modale al posto di una strutturazione armonica più complessa “.

Ma anche nel jazz il modale rappresenta una realtà importante.
“ Certo ma, soprattutto nelle sostituzioni armoniche, spesso la modalità si va perdendo in mille rivoli e comunque, nel caso specifico dei miei strumenti, molti risultano limitati nella scala e nella estensione, per cui suonare su armonie complesse non giova, mentre, suonando su un bordone, nell'ambito opportuno, si possono costruire cose notevoli e molto evocative. Comunque, tornando all'album, con Favata ci siamo conosciuti nel '95 quando ho vissuto per un periodo in Sardegna; abbiamo cominciato a frequentarci, a confrontarci, a fare dei concerti assieme sebbene la cosa si interruppe con la fine del mio soggiorno in Sardegna. Poi, dopo anni, ci siamo ritrovati ed è nata l'idea di tornare a fare qualcosa assieme, magari un disco. Così nel 2010 abbiamo avuto l'opportunità di fare una sessione di registrazione, abbiamo fatto varie improvvisazioni e ne sono venuti fuori gli otto brani del disco. Poi ci abbiamo rimesso le mani per renderli in forma compiuta, cercando di far venire fuori l'idea di fondo: far dialogare metaforicamente le nostre due “isole”, intese come due mondi all'apparenza molto lontani ma in realtà molto più vicini di quanto si pensi. Enzo, inoltre, ha un suono molto importante e nella sua maniera di fare jazz c'è una forte dimensione evocativa per cui, nel momento in cui si è deciso di fare qualcosa assieme, ci siamo trovati subito sulla stessa lunghezza d'onda” .

Partendo da queste basi, programmi futuri?
“Certamente il progetto con Enzo Favata, partito con questo primo lavoro “Insulae”, ci impegnerà molto in Italia ed all'estero, anche perché, naturalmente, vorremmo farlo ascoltare il più possibile e maturarlo ulteriormente con concerti e performance. Ciò non mi impedirà comunque di proseguire nella mia attività di ricerca, di investigazione di quelle che sono le sonorità che attraversano l'arco mediterraneo. Di tutto ciò fanno parte anche una serie di riflessioni che sto portando avanti su campi paralleli come quello dell'ecologia acustica; ad esempio quando ho pensato “Arenaria”, il mio precedente album, ho voluto registrare all'interno di particolari luoghi siciliani come alcune grotte dotate di per sé di un particolare sound. In quell'ambito ho approfondito, per l'appunto, un discorso sull'ecologia acustica che avevo già affrontato in altre sedi. Ed oggi questo discorso assume a mio avviso un'importanza particolare: così come è vero che non bisogna escludere nulla, è altrettanto vero che nulla occorre enfatizzare. Mi spiego: è vero che le moderne tecnologie ci consentono opportunità eccezionali dal punto di vista tecnico, prima difficili da immaginare, ma si tratta pur sempre di una dimensione limitata in quanto bidimensionale. In buona sostanza ti manca sempre la dimensione spaziale e una “reale” maniera di ascoltare poiché una persona inserita in uno spazio ha una percezione diversa rispetto a chi ascolta musica da un impianto stereo o da cuffie. Fare riflessioni su questi aspetti può aiutarmi a capire meglio sia le forme espressive da adottare, sia il percorso da seguire unitamente ad un pubblico. Il che significa costruire delle performences inserite in certi ambienti, elaborare anche dei progetti musicali che abbiano una componente importante su alcune forme che vengono suonate. Un'altro fruttuoso progetto è quello con “GliArchiEnsemble” di Palermo: il fatto di integrare partiture per un'orchestra d'archi in mie composizioni riesce ad esprimere meglio un concetto che ho in testa da tanto tempo, quello della transculturalità, sì da superare ogni steccato nell'ambito musicale. Certo, so benissimo di non avere scoperto alcunché di nuovo, ma il fatto di avere l'opportunità di poterlo sperimentare direttamente è già per me molto importante… e constatare la soddisfazione dei musicisti con cui suono diviene un ulteriore conferma dell'importanza dell'esperienza. Comunque un'altra direzione su cui sto lavorando molto è quella di utilizzare al meglio la percezione multisensoriale, cioè riuscire a coniugare quanto più possibile i vari sensi, che sono non solo i cinque classici, ma altri tipi di sensi legati all'ambiente, alla temperatura, a determinate condizioni dell'essere del corpo nello spazio. Ecco riuscire a coniugare tutti questi elementi comporta la necessità di trovarsi insieme all'artista nello stesso momento e nello stesso spazio. Si tratta di una dimensione importante che dovremmo perseguire tutti poiché la condizione di trovarsi a vivere un'esperienza irripetibile è fondamentale; noi abbiamo una tecnologia che ci porta sempre più lontano da questa forma, che ci da una parzialità dell'esistenza. Ma l'esperienza diretta è un'altra cosa. E portare avanti questi concetti potrebbe significare la rinascita delle performences dal vivo, prima fra tutte la musica “suonata” perché, se da un lato è vero che anche il dj fa “concerti”, in realtà il concetto di suonare subisce tanti passaggi mediati dalla tecnologia e, a volte, anche in maniera estrema, che se ne perde facilmente il senso primario.

Facendo un salto in avanti, parliamo, infine, di musica contemporanea:ancora oggi questa forma espressiva viene recepita con difficoltà dal pubblico: di chi le maggiori responsabilità, dei compositori o del pubblico?

“Ci sono varie possibilità di concepire la dimensione attuale del fare musica contemporanea e senza dubbio certe musiche di oggi sono elaborazioni molto sofisticate. Esse presuppongono l'applicazione di forme di astrazione che rimandano a segni in maniera generativa ed esponenziale e quindi, in ultima analisi, leggibile solo da chi s'immerge in questo oceano semiologico, il cui numero di persone può rivelarsi esiguo. A volte la proposizione di un enigma musicale rappresenta un obiettivo voluto dal compositore, nel senso che lui vuole stimolare l'ascoltatore verso una ricerca molto articolata, la cui attivazione è direttamente proporzionale alla sua disponibilità alla ricerca della decodifica. E' come se il compositore dicesse all'ascoltatore: “se non ci arrivi personalmente, il problema è e rimane solo tuo. Io, compositore, fornisco il risultato a cui sono arrivato ed è congegnato come un “rebus acustico”, sta a te decodificarlo, interpretarlo e farlo tuo”. E' chiaro che nel processo compositivo esiste anche una via meno ortodossa, ovvero dove l'elaborazione della forma musicale tiene conto anche dell'aspetto psico-fisico, culturale ed emozionale di chi dovrà poi ascoltare. I compositori che si pongono questo problema producono perciò forme musicali più mediate ovvero che possono, rispetto a quelle più criptiche, essere ascoltate e capite da un maggior numero di persone”.

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