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I NOSTRI CD


Banda Olifante - “10.000 Migrants”

Banda Olifante – “10.000 Migrants”

Banda Olifante – “10.000 Migrants” – felmay fy 7034
La formazione ha dodici elementi ed è un originalissimo incrocio tra marching band, orchestra jazz, street band, e fanfara balcanica. I brani, caratterizzati in genere dalla contagiosa ed esplosiva carica ritmica, sono in gran parte del percussionista Massimo Eusebio e del polistrumentista Stefano Bertozzi, leaders della Banda Olifante nonché arrangiatori del repertorio e produttori del Cd registrato tra il gennaio 2010 e l’aprile 2011. Secondo album (il primo è uscito nel 2009) vede la presenza di nove ospiti, alcuni dei quali non solo arricchiscono la già densa trama timbrica della Banda ma caratterizzano i brani con il loro solismo carismatico. E’ il caso del sax alto di Matt Darriau in “African Dandy” e “Spanish Town”, della kora di Mamadou Diabaté in “Le chemin di griot”, di Mauro Ottolini rispettivamente in “African Dandy” (alla tromba bassa) ed in “Elephant Dance” (al trombone manipolato elettronicamente). La formazione ha uno slancio ed una compattezza collettiva ammirabili e comprende Luigi Faggi ed Eusebio Martinelli alle trombe; Federico Tassani e Antonio “Nijen” Coatti ai tromboni; Stefano Bertozzi, Serena Santificetur, Samanta Balzani, Emiliano Rodriguez, Massimo Semprini ed Enrico Benvenuti alle ance; Ivan Macrelli alla chitarra elettrica; Nicolò Fiori e Mauro Mussoni ai contrabbassi; Massimo Eusebio e Giacomo Depaoli alle percussioni. Le varie ed eterogee collaborazioni dei membri della Banda Olifante vanno da Rava-Trovesi-Fresu ai Dirotta su Cuba, da Bruno Tommaso a Vinicio Capossela, da Misha Mengelberg a Carla Bley. E, creativamente, si sente! (LO)

Gianni Cellamere & Taranto 4Tet – “’U popole mije”

Gianni Cellamere & Taranto 4Tet – “’U popole mije”

Gianni Cellamere & Taranto 4Tet – “’U popole mije” – Fonosfere 103
Album ben concepito, altrettanto ben costruito e gradevole all’ascolto questo del sassofonista, chitarrista e vocalist Gianni Cellamare che si presenta alla testa di un quartetto con Ettore Carucci piano e tastiere, Francesco Lomagistro batteria, Roberto Andrisani basso elettrico, Mimmo Gori percussioni cui si aggiungono le voci di Stefania Cornetta e Marta Cellamare e la chitarra classica di Enzo Granella nel “tradizionale” “Canto delle serenate”. Il procedimento scelto dall’artista è rischioso ma stimolante: scegliere alcuni originals scritti per lo più in lingua tarantina, originals che raccontano storie legate al territorio, che vengono arrangiati in chiave jazzistica ma con chiare venature funky. Così in apertura, con “’U popole mije” sembra quasi di riascoltare Tullio De Piscopo, il batterista e arrangiatore partenopeo che per primo lanciò qualcosa di simile molti anni orsono, per poi abbandonare un simile cammino che oggi ripercorre solo saltuariamente. Ma l’album di Cellamare si caratterizza altresì per una bella varietà di atmosfere per cui alle volte il tono funky o acid lascia il posto ad atmosfere più intimiste e meditative: è il caso, ad esempio, del già citato “Canto delle serenate” uno dei pezzi più suggestivi e convincenti dell’album e del successivo “Pizzicaré” che evidenzia al meglio le capacità interpretative vocali di Cellamare: con la sua voce profonda, roca, Gianni fa letteralmente vivere i testi che non si limita a cantare, ma recita con passione e convinzione .
Davvero straordinari,poi, i due brani conclusivi, registrati in esclusiva per questo progetto da Enzo Del Re, tra gli ultimi cantastorie pugliesi; per questo album Del Re è rientrato, per l’ultima volta, in studio dopo 15 anni regalandoci due dei suoi brani storici simbolo della canzone politica; la sua voce è sghemba, non perfettamente intonata ma quanto riesce a commuoverci… con ciò affermando, ancora una volta, (se pur ce ne fosse bisogno) che artista è solo colui che comunica emozioni. Il resto è mestiere!

Max De Aloe - “Björk on the Moon”

Max De Aloe – “Björk on the Moon”

Max De Aloe – “Björk on the Moon” – Abeat Records 105
Non abbiamo alcuna difficoltà ad affermare che questo è uno degli album più interessanti pubblicati negli ultimi mesi per almeno due ordini di motivi: innanzitutto la felice scelta del repertorio e in secondo luogo la grande sensibilità e abilità strumentale dell’armonicista Max De Aloe. Già nel passato avevamo sottolineato le grandi capacità di Max che ha saputo allontanarsi dalle atmosfere tipiche dell’armonica a bocca per esplorare terreni nuovi, anche se infidi. E’ il caso di questo album che, come si accennava, comprende otto brani tratti dal repertorio della cantante islandese Björk , tre composizioni di Max chiaramente ispirate dalla stessa vocalist e una splendida ballad composta nel 1933 dal compositore ungherese Rezso Seress e riportata al successo proprio da Björk. Il perché di questa scelta va ricercata nel fatto che questa artista è stata una delle pochissime a saper davvero innovare il linguaggio della musica pop introducendo sonorità del tutto nuove e quanto mai personali. Di qui l’attenzione con cui è stata ascoltata anche da molti jazzisti con la mente aperta tra cui, per l’appunto, Max De Aloe e Ada Montellanico (del cui ultimo CD riferiamo più avanti). Alle prese con un repertorio oggettivamente difficile, De Aloe se la cava in maniera egregia riuscendo a penetrare nelle pieghe più recondite delle varie composizioni e ad interpretarle con un sound che pur nella sua specificità jazzistica riesce a conservare intatto il fascino dell’originale. In questa impresa un ruolo di fondamentale importanza lo hanno avuto non solo i componenti del suo abituale quartetto (vale a dire il pianista e tastierista Roberto Olzer, il contrabbassista Marco Mistrangelo e il batterista Nicola Stranieri) ma anche la violoncellista brasiliana Marlise Goidanich la cui importanza si avverte sin dal primo brano, un original di Max De Aloe che da il titolo all’intero album, in cui la Goidanich da un saggio di bravura duettando magnificamente con l’armonica del laeder a creare un’atmosfera magicamente toccante. Per il resto scegliere qualche altro brano da segnalare è operazione tanto difficile quanto forse inutile: tutti i pezzi sono dei piccoli gioielli in cui De Aloe evidenzia, tra l’altro, una compiuta statura di arrangiatore.
Una notizia per gli appassionati dell’LP: l’album sarà il primo “33 giri” di 180 grammi HIGH QUALITY (in 500 copie numerate) ad essere pubblicato dall’etichetta Abeat Records mentre, sulle piattaforme digitali, sarà tra i primi dischi in Italia ad essere disponibile in alta definizione HD per audiofili (24 bit 88 kilohertz).

E.S.T. Trio – “301”

E.S.T. Trio – “301”

E.S.T. Trio – “301” – act 9029-2
Il mondo del jazz vive un profondo rimpianto: non sapere cosa sarebbe stato capace di fare l’e.s.t. Trio se nel giugno del 2008 il pianista Esbjörn Svensson non fosse venuto meno nel corso di una immersione subacquea. Fino a quel momento il trio svedese, completato dal batterista Magnus Öström e dal bassista Dan Berglund, si era segnalato all’attenzione del pubblico e della critica come forse l’unica formazione capace di portare avanti la lezione di Bill Evans e quindi una nuova e diversa concezione del classico trio pianoforte, batteria, contrabbasso. Una parziale risposta viene da questo splendido album registrato in Australia nel gennaio del 2007. In realtà il CD contiene solo una parte delle nove ore di musica registrate dal gruppo nell’inverno del 2007, quando, trovandosi in tournée dall’altra parte del mondo, i tre decidono di affittare lo studio “301” di Sidney per suonare e sperimentare; in due giorni, come dicevamo, vengono lasciate ben nove ore di musica: una prima parte è andata a costituire “Leucocyte” (ACT, 2008), un’altra parte è contenuta in questo “301”. L’impressione è notevole: il gruppo si muove evidenziando il solito straordinario interplay, ma questa volta c’è un elemento di novità, un uso più spinto dell’elettronica con effetti vari e di conseguenza una certa riduzione del classico assolo. Tutto ciò rende la musica dell’e.s.t. Trio da un canto più grumosa e scura dall’altro, se possibile, più affascinante. Le atmosfere sono cangianti: da momenti in cui la ricerca sonora sembra prevalere su tutto il resto con il contrabbasso usato addirittura in funzione chitarristica (si ascolti soprattutto “Three Falling Free Part II” ) a momenti in cui il trio mostra la sua veste più suadente e intimista con Svensson che evidenzia il suo stile affatto personale nonostante le indubbie derivazioni da Evans e Jarrett (splendido, ad esempio, “The Childhood Dream” che chiude l’album). Così non è esagerato affermare che questo sia il migliore album del gruppo in quanto compendia assai bene quanto già fatto e traccia chiaramente quali sarebbero state le linee guida su cui incamminarsi se la sorte non avesse deciso diversamente.

Riccardo Fassi – “Sitting in a song”

Riccardo Fassi – “Sitting in a song”

Riccardo Fassi – “Sitting in a song” – Alice Records
Come giustamente evidenziato da Daniela Floris nella bella intervista a Enrico Pieranunzi che potete leggere sullo stesso numero di questa news letter, nel mondo del jazz italiano accadono cose davvero strane: magari si portano alle stelle eventi tutto sommato di non così grande contenuto e poi si tace completamente sul fatto che alcuni nostri musicisti hanno successo anche al di là dell’Atlantico o che altri ancora riescano a portare la propria musica nella Grande Mela per un progetto orchestrale infine realizzato con grandiosi musicisti internazionali. Quest’ultimo è il caso del “nostro” pianista, tastierista, direttore d’orchestra, arrangiatore e compositore Riccardo Fassi che è andato direttamente a New York per registrare nel celebre studio System Two questo prestigioso album alla guida di una band davvero stellare: Alex Sipiagin tromba e flicorno, Dave Binney sax alto, Gary Smulyan sax baritono, Andy Hunter trombone, Essiet Essiet basso e Antonio Sanchez batteria. Il disco rappresenta il coronamento di un’aspirazione che Fassi coltivava già da molto tempo: come confessa lo stesso leader nelle note che accompagnano l’album , “ho sempre avuto l’idea di fare un progetto orchestrale con alcuni grandi musicisti con cui collaboro da anni… Proprio da questa serie di collaborazioni è nata l’idea di allestire direttamente un nuovo ensemble a New York con mie musiche originali e arrangiamenti scritti apposta per questo organico”. Il risultato è più che positivo: in effetti Fassi evidenzia ancora una volta le sue doti migliori vale a dire la grande capacità di allestire formazioni atipiche con cui ricercare particolari effetti timbrici e far dialogare tra loro i vari strumentisti come se costituissero delle vere e proprie sezioni, il tutto non disgiunto da una squisita raffinatezza armonica e da un elegante e raffinato gusto melodico. Così il primo brano, “Random Sequencer” mette in bella evidenza il sassofonista Dave Binney mentre in “Twelve mirrors” l’arrangiamento di Fassi tende a privilegiare il grande baritonista Dave Binney e il trombonista Andy Hunter che si muovono su un tappeto ritmico-armonico di grande efficacia. “The Hawk” si apre con un grandioso assolo di Essiet Essiet dopo di che è soprattutto Alex Sipiagin a mettersi in bella mostra seguito dallo stesso Fassi al Piano Rhodes. E a questo punto l’album ha preso definitivamente quota cosicché fino alla fine abbiamo l’opportunità di ascoltare una serie di brani di grande efficacia comunicatività e creatività eseguiti con maestria tecnica e grande trasporto emotivo a dimostrazione che davvero Fassi ha saputo scrivere partiture che ben si adattavano alla personalità dei singoli artisti.

Gianni Insalata – “Work in progress”

Gianni Insalata – “Work in progress”

Gianni Insalata – “Work in progress” – Dodicilune 294
Questo è a tutti gli effetti il primo disco firmato come leader dal batterista Gianni Insalata che si presenta alla testa del suo abituale quartetto con Antonio Tosques alla chitarra, Danilo Gallo al contrabbasso e Marco Pacassoni al vibrafono. In realtà già nel 2006 era uscito un album per la Philology in cui Gianni Insalata era il leader a tutti gli effetti solo che l’album portava il nome del gruppo “Fòvea jazz project”. “Work in progress” nasce purtroppo in un momento particolarmente difficile per Insalata, la morte della madre: colpito da questo lutto il batterista decide di dedicarle un album e così nel maggio del 2011, in sole sette otto ore, viene completato l’album, grazie sia allo stato di particolare grazia di tutti i musicisti sia al fatto che gli stessi si conoscono piuttosto bene: Insalata, Tosques e Gallo si frequentano praticamente da sempre essendo tutti e tre cresciuti umanamente e musicalmente in quel di Foggia; l’amicizia tra Gianni e Pacassoni data, invece, solo da pochi anni comunque sufficienti ad instaurare un ottimo rapporto. E questa felice intesa si percepisce immediatamente. Appena la musica comincia a scorrere facile, fluida nella sua apparente semplicità, senti che i quattro sono completamente a loro agio, che stanno vivendo in un’atmosfera di totale rilassatezza pur nella consapevolezza di “fare musica”. Musica tutta originale, composta in massima parte da Gianni Insalata, cui si affiancano due pezzi di Tosques, uno cadauno per Gallo e Pacassoni e un brano, “Drilling industry” nato in studio, da una libera improvvisazione dei quattro. E la scaletta trova una sua precisa logica nel titolo dell’album, a significare che la vita, così come la musica è un “Work in progress” che non ammette lunghe soste. Così l’album si apre con “Lucia” in cui il batterista trasfonde il suo dolore per la morte della madre cui si accennava in precedenza, dolore che man mano si trasforma in consapevolezza pur nell’inevitabile dolce malinconia di fondo che pervade tutto l’album. Dal punto di vista squisitamente musicale, il disco si fa apprezzare per il bel sound determinato dall’incontro di chitarra e vibrafono che si esprimono, entrambi, con grande delicatezza quasi timorosi di rubarsi reciprocamente spazio, mentre Insalata e Gallo disegnano un tappeto ritmico – melodico di affascinante fattura.

Lydian Sound Orchestra - “Monk at Town Hall & More”

Lydian Sound Orchestra – “Monk at Town Hall & More”

Lydian Sound Orchestra – “Monk at Town Hall & More”- abeat AB JZ 013
L’orchestra guidata da Riccardo Brazzale è una di quelle “eccellenze sonore” che rendono il jazz italiano – con tutte le sue contraddizioni – uno dei più vivi e creativi del continente. La longeva formazione, un tentetto, affronta ed esegue il repertorio a suo tempo proposto da Thelonious Monk in un celebre concerto alla Town Hall di New York del 1959 (con arrangiamenti di Hall Overton). L’occasione per la rilettura nasce nell’ambito dell’edizione 2002 del festival di Vicenza – dedicato all’arte di “Sphere” – ma già nel 1993 la Lydian Sound Orchestra aveva omaggiato in un Cd (“Melodious Thunk”) l’enigmatico maestro. Nel “Monk at Town Hall & More” gli arrangiamenti raffinati e la direzione impeccabile sono di Brazzale, tutto viene eseguito in presa diretta al teatro comunale di Thiene (presso Vicenza) e la formazione vede J Kyle Gregory (tromba, flicorno), Roberto Rossi (trombone), Pietro Tonolo, Roberto Bonisolo e Rossano Emili (ance), Paolo Birro (piano), Michele Calgaro (chitarra elettrica), Dario Duso (tuba), Marc Abrams (contrabbasso) e Mauro Beggio (batteria). Lo scelto repertorio di sette pezzi (più “Abide with Me” di W.H.Monk e “Additional C.Q. Six” dello stesso leader) offre una summa del pensiero e del magistero sonoro di Monk: condotta delle parti, scansioni ritmiche, dinamiche, assoli (in particolare Gregory, Tonolo, Rossi, Emili e Birro) danno a partiture celebri – da “Thelonious” fino a “Friday the 13th” – il respiro epico della “classicità” ed il brivido spiazzante dell’innovazione. Le linee melodiche tortuose di Monk, le sue ardite armonie, il rendere musica la dissonanza ed il silenzio si proiettano e ritrovano in una dimensione orchestrale che amplifica, senza alterarle, tali caratteristiche, pur creando spazi in cui jazzisti odierni possono esprimere la propria contemporaneità. Magistrale. (LO)

Loredana Melodia – “Sleepless”

Loredana Melodia – “Sleepless”

Loredana Melodia – “Sleepless” – Koiné 013
Un attacco che richiama atmosfere tipiche di Herbie Hancock, una voce suadente si affaccia sulla scena mentre alle sua spalle pianoforte e sezione ritmica svolgono un eccellente lavoro: stiamo parlando di “Something never is” il brano che apre questo album della vocalist Loredana Melodia accompagnata da Giuseppe Vasapolli pianista e arrangiatore, Riccardo Lo Bue contrabbassista, Giampaolo Terranova batterista, Orazio Maugeri altista, con l’aggiunta di Carmelo Salemi trombettista in un brano, e l’ottimo trombettista e flicornista Dino Rubino. Loredana, almeno per noi, è una bella scoperta: vocalist di sicuro spessore, è artista ben consapevole delle proprie possibilità espressive per cui sa bene cosa e come proporla. Non a caso è lei stessa ad aver scritto parole e musica di tutti gli otto brani presentati nel CD; in particolare mentre “Conversation”, dal chiaro sapore boppistico, evidenzia la bravura di Rubino alla tromba e la maturità di Loredana che, nel fare un passo indietro rispetto ai suoi compagni d’avventura, mostra comunque una grande abilità nello scat, in “Ninna nanna per Anthea” la Melodia sfodera un canto intimista e suadente che rende questo brano uno dei migliori dell’album. Dal sapore vagamente funky – latineggiante “Metropolitan mood” ci offre un’altra bella prova della Melodia impegnata nello scat mentre Rubino si fa valere al flicorno; “Sleepless” , così carico di swing, presenta una strutturazione del tutto familiare e sembra scritto apposta per porre in evidenza sia l’interplay tra i musicisti sia il loro modo di intendere lo swing; infine con ”Sincerely” torniamo ad atmosfere più meditative: la calda voce di Loredana accarezza le note, magnificamente coadiuvata dapprima da pianoforte batteria e contrabbasso e quindi da Dino Rubino che evidenzia un raffinato linguaggio assai originale; segue Vasapolli che conclude l’album con uno splendido assolo.

Ada Montellanico – “Suono di donna”

Ada Montellanico – “Suono di donna”

Ada Montellanico – “Suono di donna” – Incipit 138
Ecco un’ Ada che non ti aspetti, un’Ada che ti spinge ad ascoltare il suo ultimo disco almeno un paio di volte ma che alla fine ti gratifica trasportandoti su un terreno diverso rispetto a quelli da lei precedentemente esplorati. In effetti come tutti i veri artisti Ada Montellanico non si è mai riposata sui classici allori, cercando sempre nuove vie espressive per meglio estrinsecare la propria natura, il proprio essere. Non dimentichiamo che la Montellanico è stata tra le prime, se non la prima in senso assoluto, ad adoperare la lingua italiana per cantare jazz, quella lingua italiana prima considerata del tutto inadatta a stilemi jazzistici. Ada ci ha provato ed ha aperto una nuova via. Adesso ci risiamo nel senso che la vocalist romana tenta un altro azzardo centrando ancora una volta l’obiettivo: abbandonare la veste di solo vocalist per andare più a fondo nella musica che si intende proporre. Come? Elaborando un progetto non banale, scegliendo la strumentazione più adatta (presenza contemporanea di clarinetto basso, basso tuba e trombone) e collaborando in prima persona all’arrangiamento la cui responsabilità principale ricade, comunque, su un altro eccellente musicista da lei stessa scelto, il trombettista siciliano Giovanni Falzone. Nasce così “Suono di donna”, un concept album in cui la cantante interpreta brani scritti da donne e provenienti non solo dal jazz: ascoltiamo così, nell’ordine, composizioni di Joni Mitchell, Carmen Consoli, Ani DiFranco, un original firmato Montellanico-Falzone, Carla Bley, Maria Schneider, Bjork, un altro original di Ada, Abbey Lincoln e Carol King. Come si nota un programma quanto mai variegato che avrebbe potuto determinare una certa discontinuità dell’opera. Viceversa Ada è stata tanto brava da ammantare ogni brano della veste giusta dando più rilievo ora alle parole ora alla veste orchestrale. Si ascolti, al riguardo, l’abilità con cui la vocalist da un canto fa risaltare gli splendidi testi della Consoli, dall’altro evidenzia gli arrangiamenti di due brani straordinari come quelli di Carla Bley e Maria Scnheider anche a costo di non mettere in primo piano la voce. Insomma un disco davvero notevole cui vanno i nostri più sinceri complimenti.

Enrico Pieranunzi – “Permutation” – CAMJ7845-2
“Strangest consequences” apre con una vitalità e una propulsione ritmica un cd che ci svela un Pieranunzi in stato di grazia, creativo e in comunicazione totale con Scott Colley ed Antonio Sanchez. Se “Critical Path” ha il dinamismo sottile di una discesa cromatica di accordi, che per quattro battute s’interrompe e poi ricomincia, “Permutation” trova tutto il suo slancio nel contrasto tra un riuscito ostinato (che passa da contrabbasso a pianoforte) e un movimento improvvisativo variegatissimo che a quell’ostinato si appoggia, fino a risolvere in un episodio accordale vigoroso e ritmico. E’ introspettivo “Distance from departure”, e parte con un’introduzione sospesa per poi connotarsi di un tema semplice ma d’intensità notevole, che rimane nell’aria anche quando il brano è terminato. L’improvvisazione è morbida e creativa e fatta di note quasi struggenti, dolcemente malinconiche, quelle che si immaginano quando si pensa alle ballad più intense del jazz. Il solo di contrabbasso di Colley è un piccolo gioiello musicale e jazzistico. “Every smile of yours” esprime l’effetto gioioso e vivificante dei sorrisi e non il potenziale lato musicale zuccheroso: e come potrebbero, con la batteria di Sanchez a disegnarne i tratti, in splendido e continuo dialogo con Pieranunzi e Colley? E’ un Trio che dimostra che la personalità non si disperde nello scambio. Né Pieranunzi, né Colley né Sanchez, proprio perché forti della loro specifica, personalissima musicalità, hanno paura a lasciarsi andare alle suggestioni l’uno dell’altro. La musica, quella bella, è fatta di sottigliezze. E se in questo brano ascoltate la leggerezza e la capacità d’inventiva di Sanchez nei “pianissimo” capirete che le sottigliezze possono fare la differenza, nella musica.
Tre musicisti che hanno colto l’occasione imperdibile di trasformare in vero Jazz un incontro che poteva, per la forte personalità di ognuno, sfociare in una “gara” di inutili virtuosismi a se stanti. Pieranunzi d’altronde è avvezzo agli incontri. Da jazzista di classe sa come condurli a destinazione, con quella dinamica curiosità priva di ritrosie che è tipica di chi è profondamente creativo: il risultato è che la trasformazione -“Permutation”, appunto – non destabilizza, ma anzi “fonda” la musica. E questo altro non è che il Jazz. (DF)

Matthias Schriefl – “Six, Alps & Jazz”

Matthias Schriefl – “Six, Alps & Jazz”

Matthias Schriefl – “Six, Alps & Jazz” – act 9670-2
Album tanto straniante quanto divertente questo di Matthias Schriefl; proveniente da Maria Rain in Allgäu (Baviera), il trombettista (e vocalista) è cresciuto in una famiglia di musicisti: il padre era un musico di chiesa mentre anche il fratello Magnus è un ottimo trombettista. Abituato da sempre ad ascoltare musica, è cresciuto con nelle orecchie e nel cuore la musica tradizionale della sua terra. La stessa musica che Matthias esegue in questo album ove si presenta alla testa di un vasto e mutabile organico, basato su un sestetto di fiati rinforzato da una serie di ospiti. Con questo nuovo CD Matthias conferma appieno le valutazioni di quanti lo considerano una delle più luminose giovani stelle del firmamento jazzistico tedesco. Ciò perché ha saputo trovare una cifra espressiva assolutamente personale che lo colloca in una sfera altra rispetto a tutti gli altri suoi colleghi. La sua musica in effetti sfugge a qualsivoglia definizione a meno che non la si voglia catalogare semplicemente “ironica” o “umoristica” aggettivazioni ad onor del vero troppo semplici per una musica ben più complessa. Certo, i pezzi dei Six Alps & Jazz hanno titoli a dir poco originali e loro stessi spesso amano presentarsi come “Wirtschaftswunder-Krisenorchester” (orchestra di crisi del miracolo economico). Insomma il loro approccio alla materia musicale è totalmente dissacrante: partendo da queste premesse Matthias e compagni prendono a base del loro repertorio la musica popolare alpina che viene rimescolata con reminiscenze provenienti dal dixieland, dallo swing, dal jazz classico. Risultato un marasma sonoro divertente, a tratti travolgente che conserva sempre una sua logica e una sua precisa identità, con un sound tutto nuovo, armonizzazioni spesso ardite e ritmi incalzanti… il tutto condito, l’avrete già capito, da tanta tanta sana ironia… della serie “come fare le cose per bene senza bisogno di prendersi troppo sul serio”.

Fulvio Sigurtà, Claudio Filippini – “Through the jurney”

Fulvio Sigurtà, Claudio Filippini – “Through the jurney”

Fulvio Sigurtà, Claudio Filippini – “Through the jurney” – CamJazz 78-512
Fulvio Sigurtà tromba e flicorno e Claudio Filippini piano e celeste sono due giovani artisti che abbiamo sempre considerato validissime promesse del jazz made in Italy. Per noi è stato, quindi, un vero picare ascoltare questo album in cui, nella difficile formula del duo, si ha la piena, totale conferma di quanto questi artisti siano compiutamente maturati e di come riescano a dire una loro originale parola nel vasto e variegato panorama del jazz internazionale. L’album, nel suo genere, è un vero e proprio esempio di come debba esprimersi un duo: Fulvio e Claudio suonano con grande trasporto emotivo ma allo stesso tempo mai perdono di lucidità riuscendo così a “sentirsi” assai bene sì da rispondere immediatamente agli stimoli che man mano recepiscono. Le atmosfere sono variegate, cangianti sì da eliminare ogni possibilità di statico ascolto ma quel che, a nostro avviso, colpisce maggiormente è la scelta del tutto consapevole e magnificamente attuata di suonare per sottrazione: i due adottano uno stile quasi minimalista; del tutto concentrati sulla pertinenza del fraseggio e sul suono non esitano ad eseguire una nota in meno piuttosto che una in più, senza nulla perdere della linea melodica che si intende disegnare. Non c’è un solo passaggio in cui Fulvio e Claudio possano essere tacciati di vacuo sperimentalismo o di ricerca del fraseggio ad effetto o peggio ancora di voler apparire accademici. Di qui il frequente ma convincente ricorso a pause più o meno lunghe secondo l’accezione che spesso anche il silenzio è musica. E crediamo che proprio per applicare appieno queste concezioni musicali i due abbiano fatto ricorso ad un programma composto tutto da originals eccezion fatta per il bellissimo “Almost Blue” di Elvis Costello riproposto con grande sensibilità. Ma è davvero tutto l’album che si lascia ascoltare con immutato interesse dalla prima all’ultima nota, potendo trovare in ogni traccia qualcosa di interessante, di originale , fino al conclusivo “Into the Sunset” un brano caratterizzato da una dolce malinconia evidenziata sia dalla liricità di Sigurtà sia dal pianismo dolcemente ondulante e coinvolgente di Filippini.

Angelo Valori – “Il caffè dalle Americhe”

Angelo Valori – “Il caffè dalle Americhe”

Angelo Valori – “Il caffè dalle Americhe” – wide sound WD 191
Angelo Valori è musicista di livello che abbiamo già avuto il piacere di conoscere recensendo nel 2009 il suo “Notturno Mediterraneo” (EGEA SCA 154). Questa volta il musicista abruzzese, pur continuando a tener conto della sua “mediterraneità”, incentra l’attenzione sul patrimonio musicale della sua terra che approccia con amore ed estrema delicatezza… a cominciare dal titolo. Perché “Il caffè dalle Americhe”? Perché , spiega lo stesso musicista, negli anni della povertà e dell’emigrazione che hanno caratterizzato anche la storia dell’Abruzzo, il caffè era sicuramente tra i doni più graditi tra le rimesse alimentari degli emigranti oramai affermati nel nuovo mondo; in particolare Valori ricorda un bambino che promette alla mamma preoccupata “Quando divento grande te lo regalo io il caffè”. E già queste parole illustrano bene quale sia l’intendimento di Valori con questo album: parlare dell’importanza, nel bene e nel male, del fenomeno migratorio, riscoprire e valorizzare un patrimonio musicale – e quindi culturale – attraverso due linee direttrici: da un canto attingere direttamente ai brani della tradizione, dall’altro far ricorse a nuove composizioni che, comunque, con le prime si interfacciano quanto a motivi ispiratori. Insomma un’operazione certo non facile che Valori ha affrontato con la giusta concentrazione scegliendo con cura anche i suoi collaboratori. Così accanto a lui figurano i componenti del “M.Edit Ensemble” e in veste di ospiti la vocalist Diana Torto, il chitarrista Mauro De Federicis, il percussionista e batterista Michele Rabbia e soprattutto il sassofonista Javier Girotto. E la scelta di quest’ultimo appare quanto mai “giusta” dal momento che Valori ha deciso di trattare le melodie – sia quelle originali sia quelle tradizionali – oltre che con stilemi jazzistici, con accenti tratti dal tango, dalla milonga e dall’habanera proprio per evidenziare le reciproche influenze della nostra musica con quelle del Nord e del Sud America. E chi meglio di Girotto può oggi rendersi interprete di simili intenti?

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