Intervista a Pieranunzi dopo il successo al Village Vanguard

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Enrico Pieranunzi (foto Daniela Crevena)

Enrico Pieranunzi (foto Daniela Crevena)

Dal 27 marzo al 1 aprile di quest'anno Enrico Pieranunzi si è esibito al Village Vanguard di New York con il suo nuovo trio americano (Scott Colley al contrabbasso e Antonio Sanchez alla batteria), per presentare il suo nuovo lavoro “Permutation”, uscito per la casa discografica CAM Jazz. I concerti hanno registrato ogni sera il tutto esaurito. Un lavoro italiano in tutto e per tutto: italiana l' etichetta di Francesca ed Agostino Campi, italiano il produttore artistico Ermanno Basso, italiano Enrico Pieranunzi. Non c'è bisogno di essere esperti di jazz per sapere che il Village Vanguard è considerato, in tutto il mondo, il tempio del Jazz. Vi hanno suonato e registrato tutti i più grandi artisti, veri e propri miti della musica: Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans, tanto per citarne quattro, ma l' elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Solo un artista italiano per ben due volte, è salito sul palco del Village Vanguard, e per di più come leader: e questo è proprio Enrico Pieranunzi.

Ci è sembrato strano (per essere precisi: come al solito ci è sembrato strano!) che, a parte vari comunicati stampa pre – evento, il dopo sia stato connotato dal quasi totale silenzio, calato su un avvenimento che in realtà dovrebbe inorgoglire il mondo della musica e del Jazz italiano. Sarà forse che qui in Italia ciò che non passa per programmi televisivi “glamour” o potenti apparati mediatici, è come se non esistesse? Sarà che servono questi avalli perché un evento esista? Sarà che sono questi apparati a decidere i nomi di moda e a fare il bello ed il cattivo tempo su ciò da ritenersi più o meno degno di nota? In un' epoca di cavalierati concessi con una certa disinvoltura ed in pompa magna – quando ci sono artisti che da decenni portano in giro per il mondo la musica, il grande Jazz, collezionando titoli a tutta pagina sui giornali (rigorosamente stranieri ) – ci è sembrato quanto meno importante e necessario intervistare Pieranunzi su questa sua strepitosa ed acclamatissima esperienza negli Usa. Puntiamo i piedi e parliamo di musica e cultura italiane nel mondo, perché è un fenomeno che esiste e che paradossalmente proprio alla sorgente spesso viene ignorato. Nemo propheta in patria? Non è esattamente così. Ecco come Pieranunzi ha risposto alle nostre domande.

Enrico, sei tornato da una settimana fortunatissima al Village Vanguard di New York, dove hai presentato il tuo nuovo cd “Permutation” in trio con Scott Colley ed Antonio Sanchez. Sei l' unico jazzista italiano ad aver suonato come leader (ed è già la seconda volta!) nel tempio del Jazz. Ti stai abituando o l'emozione è ancora intatta?
“L'emozione non solo è intatta ma è sempre più grande, e stranamente proprio perché mi sto abituando…Un'espansione d'emozione cui ha contribuito molto l'intensificarsi del rapporto con Lorraine Gordon, la leggendaria “Signora del Vanguard” che è una sorta di “guru” non solo del club ma del jazz newyorchese di ieri e di oggi… La nostra amicizia nel corso di questa bellissima settimana è diventata ancora più forte. Nonostante l'età “diversamente” giovane (ha 87 anni ma ne dimostra più di venti di meno..) la Signora Gordon conserva una grande, meravigliosa energia alimentata da una passione incredibile per il jazz. Una passione tuttora integra, quasi infantile, un entusiasmo che ti contagia. Ogni sera si siede al suo piccolo tavolino in fondo al club, col suo Martini, e ascolta tutto il concerto. Prima che questo inizi o appena scatta l'intervallo tra i due set ti chiama al suo tavolo per parlare e ti trovi così a sfogliare un libro vivente della storia del jazz. Ebbene questa donna speciale, veramente fuori del comune, m'ha mostrato una stima affettuosissima ed io gliene sono davvero grato. La sua accoglienza è stata davvero toccante. E' stata lei, d'altra parte, sia nel 2010 che questa volta, a volermi far suonare nel club. Questo splendido rapporto, oltre naturalmente all'intesa con i miei straordinari compagni d'avventura, Colley e Sanchez, ha contribuito a fare di questa settimana qualcosa di indimenticabile per me”.

La stampa statunitense non è rimasta indifferente ai concerti di New York. Quale è stato il commento che ti ha maggiormente colpito, o che ha più colto nel segno?
“Senz'altro il titolo del bell'articolo che al trio ha dedicato il New York Times “Un trio il cui quarto componente è l'intuizione”. Mi sembra che quest'espressione traduca perfettamente in parole l'altissimo livello di interplay, di complicità, di vitale scambio di idee che c'è all'interno del nostro trio. Ma tutta la stampa, sia nell'annunciare i concerti, che nel recensirli m'ha trattato con estremo rispetto e attenzione soffermandosi su diversi aspetti del mio modo di suonare. Preferisco però non scendere in dettagli autoreferenziali, mi sembrerebbe francamente di cattivo gusto e anche un po' banale. Per giocare un po' potrei comunque citare Erik Satie che pare dicesse scherzosamente di sé: “sono il più grande compositore vivente, ma sono troppo modesto per dirlo…”

Hai parlato di “Permutation” come di un incontro tra personalità musicali così forti e definite che ti ha spinto a trasformare in corso d'opera le idee originarie. Un nuovo punto di partenza dunque. Nel Jazz quanto è importante questo dinamismo creativo?
“Sì, proprio così, questo trio è un nuovo punto di partenza. E' qualcosa di radicalmente diverso dal mio precedente trio americano con Marc Johnson e Joey Baron ed è diversissimo anche da quello con Johnson e Paul Motian (una grande, dolorosa perdita la sua recente scomparsa) con cui m'ero esibito nel 2010 proprio al Vanguard. D'altra parte il suono di un gruppo di jazz è la somma dei suoni prodotti dai suoi singoli componenti e nel trio, in particolare, questo meccanismo è al massimo della sua efficacia ed essenzialità. Le sonorità del contrabbassista e del batterista, il loro modo di interpretare il tempo e di dire le frasi si fondono col suono del pianoforte e determinano un'atmosfera sonora ogni volta diversa perché diversi sono gli attori in campo. Ma mi piace aggiungere che nel trio 1+1+1 fa…quattro, non tre. E che la chiave di questo “quid”, di questo di più che viene magicamente fuori è proprio quello che tu hai chiamato dinamismo creativo: un reciproco ascolto, un continuo “stare con”, che ti porta ad una sensibilizzazione estrema del tuo suonare”.

Enrico Pieranunzi (foto Daniela Crevena)

Enrico Pieranunzi (foto Daniela Crevena)

Sono convinta che al momento di registrare un disco ci sia un grande fermento creativo tra artisti. E' molto diverso da ciò che accade suonando dal vivo?
“Lo studio d'incisione è una situazione molto artificiale che può inibirti o anche aprirti delle porte impensabili. Puoi paragonarlo ad un set cinematografico. Qui gli attori a comando devono entrare, interiormente ed esteriormente, in un certo mood, per girare la scena richiesta. Che verrà girata nonostante intorno a loro ci siano elementi di disturbo come telecamere, assistenti vari, ecc. Ugualmente in uno studio di registrazione, in questo strano luogo pieno di microfoni fili cuffie ecc. ti viene chiesto di suonare al tuo meglio. E quella situazione quasi da laboratorio ti mette addosso un enorme disagio. In più tu sai che tutto quello che stai per fare sarà registrato, per sempre. Con un po' di fantasia possiamo paragonare questa situazione a quella di un uomo che cammina tranquillamente per strada e che improvvisamente deve spogliarsi nudo per farsi fotografare sapendo, per di più, che quelle foto saranno pubblicate. Eppure quest'atmosfera innaturale può generare possibilità ed esiti eccezionali. Lo studio d'incisione ti consente infatti di entrare profondamente in te stesso, nel tuo silenzioso, originario suono interiore e di percepire al meglio, nelle più riposte vibrazioni, i suoni dei tuoi partners. Qualcosa di apparentemente opposto rispetto al concerto live, in cui la presenza del pubblico cambia tutti i parametri della performance. Ma, paradossalmente, le due esperienze hanno in comune una necessità, quella della solitudine, che in entrambe è decisiva per cercarti, cercare gli altri e lasciarti andare all'onda emotiva dei suoni”.

Al Village Vanguard avete riempito il locale per tutte e sei le serate. C'è stata una serata che ti è sembrata diversa dalle altre? Per feeling, o per episodi accaduti, o per incontri avvenuti?
“Non ricordo una serata in particolare perché tutti i concerti sono stati ad altissima intensità, e sempre con tanta voglia di rischiare e cambiare. La cosa interessante è stata che alcuni pezzi replicati ogni sera, come “Permutation”, quello che dà il titolo al cd, li abbiamo letteralmente trasformati ogni volta del tutto nella forma, nella costruzione, nello svolgimento improvvisativo. Per quanto riguarda gli incontri, i più emozionanti sono stati quelli con i tanti musicisti venuti a sentirci. Primo fra tutti quello con Lee Konitz, geniale musicista e grande amico che nonostante gli anni e qualche recente problema di salute ho trovato in buona forma e sempre pronto alle sue battute piene di spirito alla Woody Allen. E anche quelli con magnifici colleghi come Chris Potter e Kenny Werner, che son venuti più di una volta, sul tardi, dopo il concerto che davano al Blue Note. E' stato bellissimo anche incontrare semplici persone del pubblico provenienti da ogni parte del mondo, fans venuti apposta da altri luoghi degli Stati Uniti o dalla Corea o dal Brasile. Una dimensione così ampia e planetaria da far girar la testa”.

Suoni regolarmente (e con strepitoso successo) in Francia, Germania, sei andato con il tuo Trio Italiano in Argentina, hai suonato in Brasile, in America, appunto, nel Nord Europa. Ogni volta che suoni in Italia registri il tutto esaurito, vieni richiamato sul palco anche sei volte, hai un tuo pubblico che più che essere affezionato ti ama. Eppure spesso hai sottolineato che in Italia è tutto più difficile. A cosa attribuisci queste difficoltà?
“Mi ritengo privilegiato per tutte le belle cose che hai elencato. E soprattutto felice perché, come hai sottolineato tu, ho un mio pubblico affezionatissimo, trasversale dal punto di vista generazionale, appassionatamente attento a tutto quello che faccio, alla musica che scrivo. Quando dico che in Italia è tutto più difficile alludo alla anestetizzante deriva televisivo-mediatica che ci avvolge ed alle strane conseguenze, ai condizionamenti e mutamenti del gusto che essa provoca. Chiarisco: sono molto attento alla comunicazione, ai suoi meccanismi, informo su quello che faccio ecc., non vivo fuori del mondo. Ma lo guardo con un certo distacco, e non mi piace proprio tutto. Proprio l'esperienza americana m'ha confermato per esempio che un musicista è “vincente” o forse – perdona il gioco di parole – “vivente” quando rispetta il pubblico e sé stesso, il che significa che ce la mette tutta per suonar bene, per esprimere quello che non ha mai espresso prima, per non cadere nel bluff strappa-applauso ecc. Ebbene, la difficoltà di cui parlo è l'offuscarsi da noi – spero temporaneo – di questa semplice verità”.

La stasi culturale che in effetti si percepisce nel nostro paese provoca anche una stasi creativa? Intendo dire, sia in te che in generale, nel livello delle produzioni artistiche?
“La stasi culturale, come tu la chiami, è la cornice più generale di un grande smarrimento che stiamo attraversando e che riguarda naturalmente anche il ruolo dell'artista. Secondo alcuni studiosi di estetica siamo in una fase in cui l'arte non può essere altro che “anti-arte”, vale a dire negazione della possibilità dell'arte. Chissà…A livello personale posso dirti che questa stasi culturale mi spinge a reagire in direzione opposta. Mi stimola a cercare, a non smettere mai di farlo, a non accontentarmi. In tutti i settori dell'arte ti vogliono far credere che tutto è stato detto e che non vale più la pena di cercare nulla, che il valore non è nel contenuto ma in come lo vendi.. Sembra non esserci più tensione verso la bellezza. Io penso invece che la musica e le altre espressioni artistiche siano universi dalle potenzialità infinite, ancora tutte da esplorare e da scoprire….Non è facile, ma vale la pena provarci”.

Quanto c'è da lavorare perché la buona musica torni ad essere protagonista in Italia? Quali le dinamiche da aggirare?
“E' un problema culturale e sociale enorme – e quindi anche politico – che avrebbe bisogno in primo luogo di una presa di coscienza profonda dello stato delle cose. Il settore con più problemi, quello su cui più bisognerebbe lavorare veramente in profondità è secondo me quello educativo, con particolare riguardo al “come”, oltre al “che cosa” insegnare. Parlo, in altri termini delle metodologie di insegnamento. riguardo alle quali nel nostro paese c'è una ricerca insufficiente . Gli educatori vanno educati ad educare. Si investe troppo poco su questa zona della cultura e siamo molto indietro in questo settore rispetto ai principali paesi europei e agli Stati Uniti”.

Se ti proponessero di scegliere un paese dove vivere (e scrivere naturalmente e suonare) fuori dall' Italia, a quale penseresti, e perché?
“Direi subito Parigi anche se la “ville lumière” m'è parsa un po' stanca recentemente, come tutta l'Europa del resto. Ma in realtà proprio dopo questa incredibile, stupenda settimana newyorchese il mio pensiero di trasferirmi nella Grande Mela s'è fatto molto più forte. Il perché l'ho detto sopra ed è un paradosso: il paese che più di ogni altro ha valorizzato l'idea di “show” e di “intrattenimento” è nel contempo il più rigoroso ed esigente nel richiedere agli artisti una grande onestà e preparazione nelle loro esibizioni. E' tutto il contrario di quello che si pensa qui, dove l'immagine degli USA è piuttosto cinematografica, e di un cinema non certo aggiornato. Là c'è un livello medio di musicisti elevatissimo e una sana competitività che stimola a cercare la proprio strada. A New York in particolare c'è oggi una nuova generazione di jazzmen che sta dando un volto interessantissimo a questa musica e alle sue possibilità”.

Che feedback hai avuto al tuo rientro dopo la tourneè americana? Esportare Jazz italiano negli Usa non è poi una cosa così usuale. Se ne è parlato?
“Non mi pare se ne sia parlato molto…. Ma l'importante è che ne stiamo parlando noi qui, ora. Non credi?…”.

A quali progetti (conoscendoti non c'è mai una vera stasi né molti attimi di riposo) stai lavorando ora?
“In generale voglio riprendere a comporre molto, e non solo jazz. Quando si viaggia spesso per concerti come m'è accaduto con particolare frequenza nei mesi scorsi comporre diventa più complicato. Oltre agli ulteriori, prossimi sviluppi del lavoro col trio americano, ci sono due nuove importanti collaborazioni da poco iniziate che penso abbiano prospettive interessanti: quella con Paolo Silvestri, magnifico arrangiatore genovese che ha allestito per grande orchestra parecchi miei brani (il progetto si intitola “Perpianoeorchestra”e ha debuttato qualche settimana fa ). E il duo con la bravissima milanese Simona Severini. Con lei stiamo dando vita a un lavoro incentrato sul mio songbook. E qui c'è una piccola sorpresa perché oltre alla musica anche i testi di molti miei brani in programma sono stati scritti da me…”.

Per concludere vi alleghiamo il link dell'articolo apparso sul New York Times riguardo ai concerti del Trio americano di Enrico Pieranunzi.
http://www.nytimes.com/2012/03/29/arts/music/enrico-pieranunzi-trio-at-village-vanguard.html

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