A Proposito di Jazz – Di e con Gerlando Gatto

I nostri CD

Tempo di lettura stimato: 15 minuti

Elisabetta Antonini, Marcella Carboni – “Nuance” – Blue Serge 042

E’ davvero con colpevole ritardo che vi segnaliamo questo notevole album: la prima copia giunta in redazione non funzionava bene; dietro nostra richiesta ne è arrivata una seconda che fatalmente è andata a finire sotto il mucchio dei nuovi CD ricevuti nel frattempo. Ma, data la valenza del compact, ci sembrava giusto portarlo in ogni caso alla vostra attenzione. In effetti si tratta, nel suo genere, di un vero e proprio gioiellino, curato in ogni particolare e degno della massima attenzione. Certo, non è musica da grandi numeri ma in questa sede ciò poco o nulla importa. Quel che, viceversa, è interessante sottolineare è la straordinaria intesa raggiunta da queste due artiste, un’intesa che consente loro di riempire lo spazio sonoro come se si trattasse di una formazione numerosa mentre si tratta di un duo. Marcella Carboni la conoscevamo personalmente: avevamo lavorato assieme ed era stata un’esperienza straordinaria che ci aveva fatto scoprire l’ esistenza, anche nel nostro Paese, di una musicista capace di rendere l’arpa del tutto pertinente al mondo del jazz. Di Elisabetta Antonini avevamo ascoltato parecchio ma crediamo che fino ad oggi questa rappresenti la sua migliore fatica discografica. In coerenza con il titolo, “Nuance”, l’album esplora ogni minima possibilità del connubio tra arpa e voce servendosi di un repertorio tanto variegato quanto complesso e difficile. Così l’apertura è dedicata alla musica brasiliana, ma non quella da cartolina che troppo spesso vediamo inserita in album di jazz come se si trattasse di prezzemolino buono per ogni occasione: qui le due artiste si sono rivolte ad uno dei più sensibili autori brasiliani di oggi vale a dire Guinga, interpretandone con grande sensibilità lo splendido “Choro pro Ze’”. E basta già l’ascolto di questo brano per definire la cifra stilistica del duo e quindi dell’intero album che prende immediatamente quota. Seguono una serie di brani uno più convincenti dell’altro tra cui segnaliamo il celebre “Lazy Afternoon”, “Luiza” di Antonio Carlos Jobim, “Parole e ali incerte” e “On the Rope” con musica di Antonini e testi, splendidi, di Paola Massero che forse qualcuno ricorderà accanto a Gerardo Iacoucci in un bel CD dedicato alla canzone francese. Chiudono l’album il celebre “Summer samba” di Valle-Gimbel e “Sea Lady” di Winstone-Wheeler. (GG)

Umberto De Marchi – “Domino” – Dodicilune 296

Pianista e compositore torinese trentaduenne, Umberto De Marchi è personaggio dalle molteplici attività dal momento che ai concerti alterna il lavoro di docente e tecnico musicista presso i laboratori creativi per soggetti diversamente abili; proprio quest’ultimo ventaglio di attività ha permesso a De Marchi di studiare con estrema attenzione le possibilità terapeutiche connesse al linguaggio improvvisato. Insomma De Marchi è non solo un musicista, un artista ma anche uno studioso di ciò che può rappresentare la musica nelle sue più svariate applicazioni. Da un punto di vista squisitamente musicale, De Marchi ritorna a distanza di quattro anni da “Pachuco”, CD pubblicato online su youtube e lo fa con un album in piano solo. Ora, probabilmente ci sbagliamo, ma a noi sembra che questa forma espressiva sia una sorta di traguardo, un obiettivo da raggiungere dopo aver affrontato molteplici altre prove. Il fatto, viceversa, di arrivare presto al piano-solo non sempre è buona pratica dal momento che si presta il fianco ad accuse di non completa maturità. Certo, i responsabili dell’edizione informano che “Domino” è il risultato di due anni di riflessione attorno alla musica avvenuta in contesti paralleli rispetto a quelli concertistici ma, se ci si astrae da tali considerazioni e si ascolta l’album senza sapere alcunché, la musica, a nostro avviso, riflette proprio quella non completa maturità cui prima si faceva riferimento. La tecnica c’è sicuramente, la sincerità d’ispirazione altrettanto ma il materiale tematico non ci sembra all’altezza della situazione. Troppo spesso il pianismo di De Marchi ci ha richiamato alla mente due pianisti che vanno per la maggiore ma che non incontrano i nostri favori e che non citiamo per non incrementare ulteriori e sterili polemiche. Insomma una prova dignitosa ma sicuramente da De Marchi è lecito attendersi molto di più. (GG)

De Mattia – Maier – Kaučič- “The Jazz Hram Suite-” (Palomar, palomar records 33).

L’album è stato realizzato per la Palomar, l’etichetta indipendente del contrabbassista Giovanni Maier che è co-protagonista della registrazione con il flautista Massimo De Mattia ed il percussionista Zlatko Kaučič. Siamo nella culturalmente fertile area che comprende il Friuli Venezia-Giulia e gli stati confinanti nati dall’ex-Jugoslavia, una zona in cui – oltre alle lingue ed alle merci – circolano i musicisti e le loro idee. Il percussionista-batterista Kaučič è spesso ospite di artisti come Daniele D’Agaro ma a sua volta invita i jazzisti italiani nei locali e nelle rassegne che animano la scena slovena. L’incisione è stata, infatti, realizzata nel gennaio 2011 dal vivo in un locale di Divača (in Slovenia), lo Jazz Hram, da cui il titolo dell’album.
Per quasi ottanta minuti i tre jazzisti hanno improvvisato, costruendo la musica attraverso una composizione istantanea che si articola in tre parti, un intermezzo ed altre due parti. Tutto nasce dall’incontro fra tre forti personalità che ben si conoscono e che hanno in comune la frequentazione dell’avanguardia e dello sperimentalismo sonoro, a cavallo tra il jazz e la musica contemporanea. Il ruolo degli strumenti, il loro spazio fisico e timbrico, cambia continuamente: si possono ascoltare suoni metallici di campane intrecciati agli armonici del flauto e alla cavata del contrabbasso oppure la voce che si unisce alle corde percosse e a tamburi rullanti, il tutto in una gamma di combinazioni vastissima. Pur senza la possibilità di vedere i tre musicisti, il Cd restituisce il senso della performance, la sua dimensione anche teatrale, quasi di drammaturgia sonora. (LO)

Francesco D’Errico – “A Glance” – (Itinera ITN018).

Francesco D’Errico – A Glance

Vicino al jazz quanto alla musica contemporanea, D’Errico è pianista e compositore non appariscente ma profondo, sempre alla ricerca del “senso” del proprio fare musica. La vena introspettiva e l’assenza di spettacolarità lo penalizzano, forse, nel panorama contemporaneo ma basta udirlo in concerto o su disco per apprezzarne il valore. Ascoltate, per esempio, il suo rado – quasi ermetico – fraseggio in “A Bend”: quanto pesano quelle poche note sul bordone degli accordi! Nel suo ultimo Cd Francesco D’Errico suona in trio con Marco de Tilla al contrabbasso e Dario Guidobaldi alla batteria, in un repertorio che vede sette composizioni originali del pianista partenopeo, un pezzo del trio (“Free Landscape”) e tre interpretazioni: un brano di Sergio Endrigo, uno di Chaplin (il romantico “Smile” che viene eseguito ‘centellinato’, quasi al rallentatore) e la ballad “I Fall In Love Too Easily”. Conferma della personalità di D’Errico si ha nella sua lettura asciutta, antiretorica e meditata di “Via Broletto 34”, una versione che sarebbe piaciuta al suo schivo autore. In “A Glance” (non a caso scelto come titolo) il trio riesce a dar sostanza sonora all’esperienza fuggevole di “uno sguardo” che, però, può essere simbolo o spaccato di una vita intera, di un sentimento importante, di un’esperienza da cui non si può tornare indietro. (LO)

Paolo Di Sabatino – “Paolo Di Sabatino” – Irma Records IRM 929

Proprio presentando qui sopra un altro disco, abbiamo evidenziato tutte le pericolosità insite in un album per piano solo, prova che deve, quindi, essere affrontata con grande impegno e ben consci delle difficoltà che si incontrano. Ecco, Paolo Di Sabatino esce a fronte alta dalla prova evidenziando una serie di caratteristiche che ne fanno uno dei migliori pianisti oggi in attività nel nostro Paese: grande abilità tecnica frutto evidente di tanti anni di studio, un tocco di rara sensibilità, grande facilità improvvisativa declinata sull’onda di un fraseggio fluido che trova sempre il bandolo della matassa. In effetti il musicista abruzzese sta vivendo un momento della sua carriera particolarmente felice, avendo raggiunto una piena maturità espressiva e, quel che forse più conta, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi. Di qui un artista che sa perfettamente fino a dove spingersi, che sa calibrare assai bene scrittura e improvvisazione, che sa disegnare atmosfere cangianti ma egualmente coinvolgenti. Dal punto di vista del repertorio, l’album si basa sia su originals scritti dallo stesso pianista, sia su brani celeberrimi. Anzi Di Sabatino effettua un’operazione rischiosa ma del tutto riuscita, vale a dire unire assieme due brani, anche tra loro assai lontani, in una sorta di mini-suite a dimostrazione di una profonda e completa conoscenza della letteratura pianistica non solo jazz. Così, ad esempio, il disco si apre con due pezzi che più diversi non potrebbero essere, “Te quiero” dell’argentino Canaro, autore molto legato alle atmosfere “tanghere” e “Sweet Goergia Brown” eseguito da un numero imprecisabile di jazzisti: ebbene Di Sabatino affronta il primo pezzo con pertinenza per passare al secondo con estrema naturalezza come se in realtà si trattasse di una sola composizione. E questa sensazione di compattezza la si avverte in ogni momento del CD: splendida, ad esempio, la maniera in cui Paolo coniuga la sua composizione “Spiragli di luce” con “I love you Porgy” tratto dal “Porgy and Bess” di Gershwin o il modo in cui lega addirittura tre brani: “A piece of the night”, “Waltz for my mother” da lui stesso composti e “Par ver as meninas” di Da Viola. (GG)

El gallo rojo – The Humans, “It’s Nine O’ Clock” (El Gallo Rojo 314-45) / Falsopiano, “8888” (El Gallo Rojo 314-46) / Gallo & The Roosters, “Everything Is Whatever” (El Gallo Rojo 314-52) / Junkfood, “transience” (Parade TRB P 05).

All’incrocio tra musiche, letteratura, grafica splatter i quindici brani di “It’s Nine O’Clock”. Silvia Donati, Simone Massaron, Enrico Terragnoli, Danilo Gallo e Massimiliano Sorrentini (The Humans) guidano l’ascoltatore in un viaggio tra luoghi, liriche, dimensioni sonore, continenti, in una sorta di particolarissimo atlante. L’operazione ricorda John Zorn ma i cinque musicisti (Donati e Sorrentini sono autori di molti testi) vanno ben oltre l’imitazione di un modello.
Aria di musica contemporanea – in senso ampio e lato – si respira in “8888”. I pianisti Alfonso Santimone e Giorgio Pacorig (registrati su due canali separati) con il contrabbasso di Danilo Gallo e la batteria di Aljoša Jerič danno vita ad una serie di improvvisazioni collettive, di durata variabile tra uno e cinque minuti. Oltre ad un brano ciascuno dei pianisti e del bassista, c’è spazio per esecuzioni di Ligeti, Schoemberg ed Ornette Coleman. Con rigore il quartetto esplicita un legame (tra avanguardie a cavallo dell’Atlantico) su cui si è fondata una parte della poetica dell’AACM.
L’album di Gallo & The Roosters (Achille Succi al clarinetto basso; Gerhard Gschliessl, trombone; Zeno De Rossi, batteria) è largamente connotato dalle composizioni del bassista Danilo Gallo, presenza caratterizzante nell’etichetta. Musica porosa, aperta a tante influenze, libera da pregiudizi di genere e stile, spazia dall’assorta rarefazione di “Leon Trotsky” al funky straniato di “Pluto Platter”, unendo in modo fertile ed intelligente riferimenti politici e mediatici, ironia corrosiva (“Kaput Kravatta”) e contributi di altri autori (Bigoni, Succi, Sorrentino).
Non appartengono materialmente alla scuderia de El Gallo Rojo i Junkfood ma la loro poetica gli è piuttosto vicina. Il quartetto vede Paolo Raineri (tromba e flicorno), Michelangelo Vanni (chitarra elettrica), Simone Calderoni (basso elettrico) e Simone Cavina (batteria). Junkfood nasce dal corso sperimentale di jazz del conservatorio di Bologna ma considera il jazz solo un punto di partenza, lavorando ad una musica che ha sonorità rock e psichedeliche e genera suggestioni cinematografiche. L’acusticità della tromba si lega alla dimensione elettrica di basso e chitarra e l’album “Transience” è costituito da brani che non si rifanno a strutture tradizionali. (LO)

Raf Ferrari – “Venere e Marte” – Dodicilune 295

Prima ancora di entrare nel merito dell’album, permetteteci di indirizzare una nota di merito al clarinettista Gabriele Mirabassi il quale, figurando come ospite d’onore, riesce ancora una volta a risultare decisivo per la riuscita di una registrazione, grazie alla sua maestria che gli consente di mettersi al servizio del leader conservando integra la sua autonomia stilistica. Questa volta lo ascoltiamo inserito in un gruppo con cui aveva già avuto modo di collaborare sin dal 2009, effettuando, tra l’altro, un applaudito concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Successivamente la registrazione di “Venere e Marte” in cui il pianista Raf Ferrari guida un gruppo comprendente Vito Stano (cello), Guerino Rondolone (doublebass), Claudio Sbrolli (drums) e il già citato Gabriele Mirabassi . Il loro è un jazz da camera nel senso più vero del termine nel senso che gli stilemi jazzistici ci sono tutti seppur racchiusi all’interno di una ricerca che predilige due fondamentali elementi: il sound e la ricchezza della linea melodica. Per quanto concerne il primo elemento – il sound – a determinarlo sono soprattutto il clarinetto di Mirabassi e il violoncello di Vito Stano, mirabilmente orchestrati dal leader. Il secondo elemento – la ricchezza della linea melodica – è quasi interamene frutto di Raf Ferrari che firma tutti i brani presenti nel CD eccezion fatta per “Fou De Love” di Angelo Branduardi. E occorre sottolineare che Ferrari scrive bene, avendo del tutto metabolizzato i vari input attraverso cui si è formato un proprio stile affatto personale: così, a parte il gusto per la linea melodica, cui prima si faceva riferimento, Raf evidenzia una buona padronanza della materia equilibrando al meglio parti scritte e improvvisazione con una notevole abilità anche nelle armonizzazioni; il tutto condito da arrangiamenti curati in ogni minimo particolare che offrono, tra l’altro, ai vari musicisti la possibilità di esprimere appieno le proprie potenzialità. Si ascolti al riguardo il violoncello di Stano che spesso è messo nelle migliori condizioni per spiegare la propria bellissima voce (“Capelli Di Sagoma” ) mentre gli interventi di Mirabassi sono tutti superlativi con una menzione particolare, forse, per “Fou De Love”. Ottimo anche il lavoro della sezione ritmica con Guerino Rondolone al contrabbasso e Claudio Sbrolli alla batteria in grande spolvero, sempre pronti a fornire all’ensemble il necessario supporto ritmico-armonico. (GG)

Gaetano Liguori – “Noi credevamo (e crediamo ancora)- (Bull Records, BULL 060)

Un modo inconsueto, “militante” ed “apocalittico” per festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia. Il pianista e compositore Gaetano Liguori ha pensato bene di autoprodurre un album in cui riaffermare attraverso la musica i propri ideali maturati negli anni ’60 e soprattutto ’70, ideali che furono di gran parte di una generazione che, tra l’altro, scoprì il jazz come musica politica, di protesta, identitaria di una minoranza oppressa e se ne innamorò (con tanti errori, ingenuità, falsificazioni e cantonate). La parte 1 “… e crediamo ancora” è stata registrata nel gennaio 2011 a Milano da Liguori, Roberto Del Piano (basso elettrico) e Filippo Monico (batteria). Sono una quarantina di minuti divisi in otto episodi, cui segue la parte 2 “Noi credevamo”, registrata dallo stesso organico ma nel maggio 1972 (articolata in cinque episodi, circa venticinque minuti).
I brani sono tutti di Gaetano Liguori e spesso partono o includono citazioni dalla canzone partigiana “Bella Ciao”, dall’inno di Unidad Popular di Sergio Ortega “El pueblo unido jamas sera vencido”, dal canto della guerra civile spagnola “El quinto regimiento” e dalla canzone cubana dedicata a Che Guevara “Hasta siempre comandante” di Carlos Puebla. Liguori, Del Piano e Monico legano tutto in un intenso flusso di coscienza sonora, erede del free di Cecil Taylor e di quello di Albert Ayler, originale nella sua miscela di tempo libero e frammenti melodici, evocazioni di un repertorio canoro rivoluzionario e sua ricreazione attraverso l’improvvisazione. La parte 2, quella del 1972, è significativamente posta in coda all’album: rappresenta la premessa della musica odierna di Liguori e compagni ma l’intimo legame poetico la può far collocare anche a prescindere dalle date. La lunga lista di “Noi credevamo…” all’interno del Cd va da Marx a Mani Pulite, dai Beatles ad Ornette Coleman; tra i ringraziamenti un ricordo del compianto critico Pierpaolo Faggiano. (LO)

Stefano Pastor – “Songs” – Slam 538

Ecco un nuovo album di colui che a ben ragione viene oggi considerato uno dei migliori violinisti jazz del Vecchio Continente. Questa volta Stefano si presenta in splendida solitudine affrontando un repertorio assolutamente classico nel senso che comprende brani di Gershwin, Lobo-Buarque, Mays-Avellar, Gillespie-Coots, Hendrix, Charles Mingus. La peculiarità dell’album consiste da un lato nel fatto che, come accennato, Pastor si produce da solo per cui “ogni suono che si ascolta nel disco è esclusivamente prodotto dal suo violino, senza l’ausilio di sintetizzatori o apparecchiature Midi”, dall’altro nell’ascoltare Stefano in veste di vocalist. “Torno al canto – scrive lo stesso artista nelle note che accompagnano il CD – come ulteriore mezzo per indagare la forma canzone, per appropriarmi della melodia, e tanto più il mio canto risulta non sovrastrutturato tecnicamente, tanto più desidererei che l’espressione ne fosse restituita intima e autentica, la mia emozione non mascherata né esaltata, la mia anima denudata”. Fin qui le enunciazioni di principio, ma il risultato? Francamente non esaltante. Conosciamo da tempo Stefano Pastor e ne abbiamo sempre apprezzato il suono spesso straniante del suo strumento, la sua particolare capacità di affrontare il materiale tematico stravolgendolo con lucida follia… questo per dire che Pastor oramai non deve dimostrare alcunché per cui basta e avanza quel che fa, senza bisogno di cercare strade altre rispetto a quelle già percorse che indubbiamente non hanno ancora espresso tutto il loro potenziale. Tanto per essere più chiari, gli stridii che spesso, questa volta, caratterizzano il suono del violino non sempre risultano pertinenti mentre alle performances vocali preferiamo nettamente quelle strumentali. (GG)

Stefania Paterniani – “Pentagocce” – Koinè per Dodicilune 014

La pianista e cantante marchigiana Stefania Paterniani incide il suo primo disco per l’etichetta leccese Dodicilune; “Pentagocce” è il risultato di un legame profondo tra la maternità di Stefania e la musica: in effetti l’ idea del disco nasce nell’agosto del 2010 quando l’artista si rende conto di aspettare un bambino. Di qui l’idea di dedicare un disco alla vita che sarebbe venuta alla luce nove mesi dopo, di qui l’estrema delicatezza che caratterizza tutto l’album. Delicatezza che interessa sia i testi sia la musica in un connubio spesso pertinente, declinato lungo una scala di valori immutati e immutabili nel tempo quali , acqua, nascita, silenzio, sogni, musica … Certo, per chi ama il jazz nel senso canonico del termine, l’album presenta poco o nessun interesse. Per chi, viceversa, è abituato ad ascoltare musica senza alcun pregiudizio, allora l’album presenta motivi di interesse proprio nella disarmante semplicità con cui Stefania affronta il materiale tematico composto in massima parte da lei stessa: sui nove brani presentati, sette sono scritti –parole e musica – dalla Paterniani cui si aggiunge un brano della Faithfull e un brano etnico riarrangiato sempre con la solita non facile semplicità. A completare il tutto un organico inusuale per il mondo del jazz: il trombone di Massimo Morganti, la tromba di Samuele Garofoli, la chitarra di Marco Di Meo, le campane tibetane di Mauro Lorusso e la viola di Michele Vagnini, quindi niente batteria e contrabbasso e aggiunta della viola. E questo tipo di scelta appare del tutto felice in quanto si adatta perfettamente al clima voluto e ricercato dalla Paterniani, un clima in cui la raffinatezza armonica si sposa con momenti improvvisativi in cui, comunque, il linguaggio rimane legato alla melodia. In questo senso tutti i brani si fanno ascoltare con grande interesse; personalmente ci ha particolarmente colpiti il brano che dà il titolo all’intero album. (GG)

Renzo Ruggieri – “Opera?” – Voglia d’Arte Production (VAP 105) 30

Ecco un album di indubbia valenza ma di assai complessa decriptazione. In effetti il fisarmonicista, compositore e arrangiatore Renzo Ruggieri è riuscito nel difficilissimo intento di coniugare stilemi prettamente jazzistici con un materiale tematico che in qualche modo fa riferimento al nostro grande patrimonio lirico. Il tutto adottando una chiave teatral-descrittiva assolutamente originale: un attore, recitando, introduce ogni scena (in totale 5) mentre la fisarmonica, in chiave solistica, sottolinea il racconto improvvisando sulle famose arie e preparando l’arrivo del successivo brano orchestrale interamente originale. La storia è ottenuta prelevando episodi dal Barbiere di Siviglia, La Traviata e Tosca, con tre personaggi (rispettivamente Figaro, Alfredo e Tosca) che ne costruiscono un’altra con diverse dinamiche e altri sensi rispetto agli originali. Le premesse sono assolutamente intriganti se si pensa anche al fatto che Ruggieri conclude il racconto con due finali paralleli e contrapposti a sottolineare quanto la civiltà moderna produca una sovrastimolazione di eventi che conducono l’uomo contemporaneo a vivere una quotidianità fatta di risposte già date, di scelte non fatte. Ciò detto, l’album si apre alla grande con l’Ouverture che miscela le 5 arie d’opera selezionate con 5 brani originali (uno per scena), eseguiti dalla sola orchestra d’archi, senza improvvisazione. Si parte con la recitazione e quindi con la narrazione che viene sottolineata dalla fisarmonica solista che improvvisa sulle melodie scelte. Ed è proprio la fisarmonica di Ruggieri la protagonista del progetto: ad essa vengono affidate tutte le esposizioni melodiche e gli assoli principali; e Ruggieri dimostra ancora una volta di meritare la stima di quanti lo considerano uno dei migliori fisarmonicisti in assoluto: la sua tecnica è ineccepibile ma quel che maggiormente caratterizza l’ artista è la straordinaria capacità di esprimere tutto un proprio mondo di emozioni attraverso uno strumento non straordinariamente flessibile quale la fisarmonica. La sonorità generale risulta molto europea sia per l’assenza di strumenti a fiato sia per l’eccellente prova dell’orchestra del Teatro di Stato di Rostov sul Don tra cui segnaliamo Andrey Manchev, (conductor, sax soprano), Grigory Deratsuev (drums), Vitaly Perov (double-bass), Aram Rustamyants (piano) e la String Section del Rostov State Music Theatre. E al riguardo permettetemi di sottolineare ancora una volta un dato paradossale del nostro “Sistema” (si fa per dire): ma è mai possibile che i nostri artisti debbano realizzare i loro progetti (italianissimi come questo) all’estero senza che si possa offrire loro un qualche aiuto da parte delle autorità preposte o dagli stessi festival che continuano a prediligere sempre gli stessi personaggi o ospiti stranieri allestendo cartelloni senza alcun senso? È mai possibile che compito dei direttori artistici sia diventato solo quello di scegliere nomi che fanno audience, senza il minimo rischio? (GG)

Skinshout & Xavier Iriondo – “Altai”- (Improvvisatore Involontario, II 0024).

Colonna sonora di un libro? Visione acustica di vibrazioni letterarie? Difficile definire le dieci tracce di “Altai” che sono in stretta relazione con il volume omonimo. Uscito nel 2009 per Einaudi, il testo è un romanzo storico scritto dal collettivo Wu Ming, redatto dieci anni dopo “Q” con cui c’è una forte relazione: l’azione inizia quindici anni dopo l’epilogo del primo romanzo ed alcuni personaggi sono comuni ai due libri. Il legame con la musica è evidenziato dalle note di copertina proprio di Wu Ming in cui si dice che <>.
La voce di Gaia Mattiuzzi, le percussioni e l’elettronica di Francesco Cusa, gli strumenti a corde (taisho koto, mahai metak) di Xabier Iriondo ripercorrono-alludono a dieci episodi del romanzo passando da Venezia a Salonicco, da Costantinopoli a Famagosta sino alla battaglia di Lepanto (1569-1571). Come in un surreale sceneggiato radiofonico, i suoni non hanno un potere descrittivo quanto evocativo, non intendono sintetizzare un testo peraltro molto complesso ma renderne suono alcune atmosfere e dimensioni. Per chi ha dimestichezza con la narrativa del collettivo Wu Ming l’operazione appare piuttosto riuscita. (LO)

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  1. I nostri CD
  2. Elisabetta Antonini, Marcella Carboni – “Nuance”
  3. Umberto De Marchi – “Domino”
  4. De Mattia – Maier – Kaučič- “The Jazz Hram Suite-”
  5. Francesco D’Errico - “A Glance”
  6. Paolo Di Sabatino – “Paolo Di Sabatino”
  7. El gallo rojo
  8. Raf Ferrari – “Venere e Marte”
  9. Gaetano Liguori - “Noi credevamo (e crediamo ancora)
  10. Stefano Pastor – “Songs”
  11. Stefania Paterniani – “Pentagocce”
  12. Renzo Ruggieri – “Opera?”
  13. Skinshout & Xavier Iriondo - “Altai”
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