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Acquaphonica – “Private Enemy” – Buma Stemra

Acquaphonica – “Private Enemy”E’ una sorta di multinazionale del jazz quella che si esibisce sotto l’insegna di “Acquaphonica”: vi fanno parte la pianista e leader Federica Colangelo, il sassofonista e clarinettista americano Jon Bittman, il chitarrista olandese Matthijs Tuijn, il batterista lettone Kaspars Kurdeko, e il bassista bulgaro Mihail Ivanov. Motore del gruppo è senza dubbio Federica Colangelo: forte di una solida preparazione di base (ha studiato sia pianoforte classico sia jazz) dal 2004 risiede all’estero affinando gli studi di Composizione Contemporanea ed è nella duplice veste di compositrice ed esecutrice che si presenta al pubblico del jazz con questo suo album d’esordio. Nove i brani eseguiti, tutti di sua composizione, nove brani che offrono uno spettro abbastanza ampio di come la Colangelo intenda e senta la musica. I suoi pezzi sono caratterizzati da una bella ricerca melodica, da un forte senso descrittivo e dalla capacità di trasmettere emozioni, il tutto impreziosito da un eccellente senso della costruzione e da un mirabile equilibrio tra parti scritte ed improvvisate. Dal punto di vista esecutivo, nessun inutile virtuosismo ma uno stile ed un linguaggio assolutamente coerenti con le idee che si vogliono esprimere. Si parlava di senso della costruzione; si ascolti il brano che dà il titolo all’intero album: dopo una bella introduzione a tre (pianoforte, batteria, contrabbasso), un serrato scambio tra Colangelo, Bittman e Kurdeko determina una crescente tensione che viene sciolta dalla stessa pianista e chiusa da Bittman; ancora, “Mare aperto” si apre sulle note del basso su cui si innesta un sognante bellissimo assolo di Bittman dopo di che entra la batteria seguita in ultimo dal pianoforte; a seguire il quintetto si esprime nella sua interezza. Interessante per la dolce linea melodica “Violet, Blue, Light Blue, Orange”. In ultimo da sottolineare l’eccellente lavoro svolto dai compagni d’avventura, tutti artisti più volte premiati in concorsi internazionali: di Bittman si è già detto, la sezione ritmica è precisa e pulsante mentre per quanto concerne il chitarrista lo si ascolti soprattutto in “Away” dialogare splendidamente con Kurdeko e Ivanov.

Atlas Trio – “Sources” – ECM 2282 2799532

Il clarinettista e compositore francese Louis Sclavis (nato nel 1953) ha la notevole capacità, alla soglia dei sessant’anni, di sapersi sintonizzare con le musiche del mondo e con le giovani generazioni, addirittura di pilotare questo Atlas Trio con proprie composizioni in ben otto brani su dieci. Fanno parte dell’organico il trentanovenne pianista (tastiere e Fender rhodes) Benjamin Moussay ed il giovane chitarrista Gilles Coronado, entrambi francesi. Moussay ha un’eclettica formazione: jazz, classica, musica contemporanea ed elettronica, rock e pop; Coronado ha alle sue spalle modelli quali la fusion anni ’70, i chitarrismi di John McLaughlin e Robert Fripp. L’incontro dei due artisti transalpini con la forte personalità di Sclavis (uno dei giganti della musica improvvisata europea) genera brani che per struttura, sviluppo ed atmosfere sonore sfidano definizioni ed abbattono barriere di genere e stile. “Outside of Maps” è il titolo di un pezzo – improvvisato integralmente dai tre – che potrebbe tracciarne l’identikit musicale. Che dire della convulsa carica ritmica di “Près d’Hagondance”, brano che non scioglie mai la sua altissima tensione; opposto appare l’orizzonte sognante, e un po’ misterioso, di “Dresser de nuages” con il suo tema criptico disegnato da piano e clarinetto. Brano dopo brano l’Atlas Trio è sempre inafferrabile e “liquido”, come la nostra società secondo la definizione ormai celebre del filosofo Zygmunt Bauman. (LO)

Jan Garbarek – “Dansere” – ECM 2146-48

In questo cofanetto della ECM sono inclusi tre ottimi CD del sassofonista norvegese già pubblicati dalla stessa ECM nel periodo 1971/1975: “Sart”, “Witchi-Tai-To” e “Dansere”. In particolare “Sart” venne inciso nel ’71 da una formazione stellare comprendente, oltre il leader, Bobo Stenson al piano, Terje Rypdal alla chitarra, Arild Andersen al basso e Jon Christensen alla batteria. Quasi gli stessi musicisti si ritrovano due anni dopo per incidere “Witchi-Tai-To” solo che questa volta manca Rypdal e Palle Danielsson sostituisce al basso Arild Andersen. Passano ancora due anni e Garbarek ritorna in sala di incisione con la stessa formazione per realizzare “Dansere”. Insomma si ha qui la possibilità di ascoltare ed apprezzare, in rapida successione, i primi significativi passi di artisti che sarebbero stati determinanti per lo sviluppo del jazz europeo; in quest’ambito da sottolineare i grandi progressi soprattutto di Garbarek che proprio in quegli anni veniva affinando il proprio stile staccandosi completamente dai modelli statunitensi per approdare ad un jazz compiutamente “nordico”. Non bisogna, infatti, dimenticare che questi musicisti avevano collaborato con George Russell e Don Cherry che in quegli anni dimoravano spesso in Scandinavia; in particolare Garbarek e Christensen erano stati per alcuni anni membri importanti sia della big band sia dei piccoli gruppi che George Russell organizzava in Scandinavia e fin dalla primavera del 1967 avevano suonato con Don Cherry ad Oslo e Stoccolma. Non v’è dubbio, quindi, che soprattutto Garbarek aveva assimilato alcuni stilemi di questi straordinari musicisti la cui eco – specie di George Russell – si riscontra nel primo dei tre album citati. Così come non v’è dubbio che l’album rappresenti una tappa importante nella crescita complessiva dei cinque musicisti norvegesi che hanno modo sia di migliorare la loro intesa sia di sperimentare la loro creatività. In “Witchi-Tai-To” è invece lo spirito di Don Cherry che aleggia prepotente: l’album contiene cinque tracce e se si esclude “Hasta Siempre” e “Kukka” gli altri tre brani sono strettamente collegati alla poetica di Don Cherry (straordinaria l’interpretazione di “Desireless” scritta da Cherry).
Infine “Dansere” rappresenta forse il primo tentativo di quell’affrancamento cui prima si faceva riferimento: emblematica la presentazione di “Lokk”, un brano della tradizione norvegese sviluppato dal musicista folk Thorvald Tronsgard e arrangiato in chiave jazzistica.

Keith Jarrett – “Sleeper” – ECM 2290-9

Questo doppio CD documenta un concerto svolto a Tokyo il 16 aprile del 1979 da parte del cosiddetto quartetto europeo di Jarrett, in cui il pianista di Allentown suonava con Jan Garbarek ai sassofoni, Palle Danielsson al contrabbasso e Jon Christensen alla batteria. Alcuni di questi brani, per la precisione “Personal Mountains”, “Prism”, “Oasis”, “Innocence” erano già stati pubblicati su “Personal Mountains”: In questo doppio album vengono aggiunti “So tender”, “Chant of the soil” e “New dance”. Quali, dunque, i motivi di interesse di questo doppio album rispetto a quanto già si conosceva? Innanzitutto una documentazione più completa su un evento importante come quel concerto di Tokyo che testimonia al meglio l’eccezionale grado di interplay del quartetto che così tanta influenza ebbe sullo sviluppo del jazz negli anni a seguire. In secondo luogo la qualità del materiale aggiunto: “So tender” è un brano all’inizio piuttosto dolce in cui i quattro sembrano voler stemperare le asprezze dei prezzi precedenti con Jarrett e Garbarek che dialogano senza il supporto della sezione ritmica; quando entrano in gioco batteria e contrabbasso il clima cambia si fa sempre più concitato e il pianismo di Jarrett fa risaltare, in modo perfetto, il gran lavoro di Christensen alla batteria; il brano si chiude con la stessa linea melodica con cui era iniziato, magistralmente disegnata da Garbarek sopra un sognante ostinato di Jarrett. Questo stesso pezzo sarebbe stato rivisitato dal celeberrimo Standard Trio dello stesso Jarrett con Gary Peacock e Jack DeJohnette, ma la freschezza, l’inventiva, la gioia di suonare che si riscontrano in questa esecuzione sono uniche. “Chant of the soil” è giocato su un ritmo quasi “funkeggiante” su cui si stagliano dapprima il pianismo fortemente ritmico di Jarrett e quindi le ardite volute disegnate dal sax di Garbarek. “New Dance” è il brano più breve dell’intero doppio album, poco più di sette minuti in cui ancora una volta il quartetto fornisce una prova esemplare di cosa voglia dire l’idem sentire in musica. Comunque, al di là di ogni altra considerazione, questa produzione ECM rappresenta un dovuto e sentito omaggio ad uno dei gruppi più importanti della storia del jazz.

Jacob Karlzon 3 – “More” – ACT 9533-2

Jacob Karlzon è uno dei personaggi più in vista dell’attuale panorama jazzistico svedese. Nominato, in patria, pianista dell’anno nel 2010, dopo aver raggiunto una notorietà internazionale grazie alla lunga collaborazione con la vocalist Viktoria Tolstoy, oramai da qualche tempo si è affermato come immaginifico solista. La sua carta vincente? La capacità di creare ed eseguire musica assolutamente originale, caratterizzata da un sound particolare, grazie ad un uso quanto mai sobrio e sapiente dell’elettronica, da una forte carica ritmica e da una rimarchevole complessità armonica. Il primo album a suo nome risale al 1992 e da allora Jacob ha proseguito lungo la sua strada coniugando composizione ed esecuzione. Questo CD ne è l’ennesima conferma: Jacob è alla testa del suo abituale trio completato da Hans Andersson al basso e Jonas Holgersson alla batteria trio con cui ha registrato un altro album, “The Big Picture” (Stunt Records / Sundance Music), nel 2010; in programma dieci brani di cui otto originals e due scritti rispettivamente da Nik Kershaw e dal gruppo rock americano dei KoRn. Karlzon è musicista moderno, figlio dei tempi in cui viviamo per cui la sua arte risente di molteplici influenze, dai grandi pianisti svedesi quali Esbjörn Svensson e soprattutto Jan Johansson (si ascolti soprattutto “Between Us”) ai maestri della tastiera quali Bill Evans, Keith Jarrett e Keith Jarrett, dalla musica classica a quella folk, il tutto filtrato attraverso la sensibilità di un musicista che per sua stessa ammissione scrive ed esegue musica come una sorta di colonna sonora in modo da catturare e descrivere atmosfere e stati d’animo. I brani sono tutti interessanti ma una menzione particolare la meritano “Running”, il brano d’apertura, caratterizzato da una bella melodia tratteggiata dal piano e armonizzata dal sint sopra un veloce tappeto ritmico intessuto da Jonas Holgersson, e “Rhododendron Rites” una magnifica ballata che Jacob affronta in piano solo evidenziando una completa maturità stilistica.

Luca Luciano – “Partenope” – Self Production

Condurre un blog,credetemi, non è impresa da poco: impegno tantissimo, soldi neanche a parlarne, soddisfazioni…ecco, quelle per fortuna non mancano, come la possibilità di aver conosciuto questo straordinario artista grazie ad una e-mail giunta in redazione da Londra. Ci si chiedeva se eravamo interessati a fare la conoscenza di questo clarinettista di cui si allegava un curriculum; così, dopo la risposta affermativa, ci è giunto questo CD che non esito a definire di grande spessore. Il clarinetto, lo sapete benissimo, è strumento di enorme difficoltà e specie al giorno d’oggi trovare qualcuno che lo maneggi con grande padronanza non è impresa facile. Luca Luciano, da questo punto di vista, è un vero e proprio maestro: conosce lo strumento come pochi, in ogni sua parte, in ogni suo registro. D’altro canto si è diplomato al Conservatorio di Salerno dopo di che si è trasferito in Inghilterra dove ancora oggi risiede e lavora. Questo è il suo quarto lavoro discografico e illustra assai bene quel che oggi Luca rappresenta nel panorama della musica contemporanea al di là delle etichette. Un artista-compositore capace di coniugare tutte le maggiori influenze che hanno attraversato il secolo scorso, dalla musica popolare del Sud Italia a quella colta, fino al jazz esplicitamente evocato in “Jazz impromptu”, una libera improvvisazione dedicata a Charlie Parker in cui sono comprese alcune citazioni del vasto repertorio “parkeriano”. Ovviamente eseguire un repertorio siffatto postula la necessità di una tecnica magistrale e Luciano questa tecnica la possiede appieno: non a caso nelle note che accompagnano l’album, probabilmente scritte dallo stesso artista, si afferma che le composizioni fanno parte di una ricerca accademica focalizzata sull’estensione delle tecniche per “clarinetto solo” in relazione al repertorio contemporaneo e alla nuova musica. Così è un piacere sentire il suo clarinetto che vola con inaudita facilità tra le mille pieghe delle composizioni originali, padroneggiando il fraseggio, la dinamica (dal pianissimo al sovracuto) e sfruttando appieno ogni possibilità offerta dallo strumento (growl, glissato, trilli…).

Sabir Mateen, Silvia Bolognesi – “Holidays in Siena” (Rudi Records RRJ 1002).

Età, sesso e nazionalità non impediscono al polistrumentista afroamericano Mateen (sax alto e tenore, piccolo, flauto, clarinetto in Sib) ed alla contrabbassista senese Bolognesi di tessere un fitto dialogo, basato su composizioni di ciascuno dei due e (in “2 with 3” e “Double S”) su brani ideati a quattro mani. L’album – prodotto dall’etichetta di Massimo Iudicone – riprende un concerto tenuto nel dicembre 2010 al teatro dei Varii di Colle Val d’Elsa, mantenendo intatti il fascino e la dimensione di colloquiale intensità della performance. Del resto Silvia Bolognesi fu selezionata già nel 2003 per far parte dell’orchestra diretta da Butch Morris a Roccella Ionica ed ha seguito nel tempo laboratori di improvvisazione e composizione con Muhal Richard Abrams, Roscoe Mitchell ed Anthony Braxton, studiato contrabbasso con William Parker prima di arrivare ai vertici del nuovo jazz italiano (è stata peraltro allieva dei laboratori senesi di Stefano Battaglia) ed europeo. Sabir Mateen, oggi sessantunenne, ha suonato con la Pan-Afrikan Peoples Arkestra di Horace Tapscott, con Cecil Taylor e William Parker (in particolare nella visionaria Little Huey Creative Music Orchestra). Strutture aperte e libere, improvvisazioni strutturanti, ricerca timbrica, continua interazione tra gli strumenti, creatività impiantata su una solida base comune di riferimenti e modelli rendono “Holiday in Siena” un saggio esemplare di jazz che dà seguito, nella contemporaneità, a quanto si è costruito nei decenni del post-free. (LO)

Terje Rypdal – “Odyssey in studio & in concert” – ECM 2136-38

Per gli amanti della musica di Terje Rypdal (e più in generale del buon jazz) un cofanetto della ECM assolutamente imperdibile: vi sono contenuti la ristampa del doppio “Odissey”, completato da quel “Rolling Stone” che non compariva nella vecchia edizione in un solo CD, e “Unfinished Highballs” una registrazione radiofonica del 1976 effettuata dallo stesso gruppo del chitarrista norvegese con lo “Swedish Radio Jazz Group”, il tutto sotto la direzione congiunta di Georg Riedl e Terje Rypdal. A metà degli anni ’70 Rypdal era già considerato una delle più fulgide realtà del jazz norvegese: dal ’71 incideva per la ECM e nel ’75 raggiunse uno dei punti più alti della sua arte. Fino a quel momento “Odyssey” era un trio che si componeva soprattutto in occasione dei concerti e dei tour; dovendo incidere questo album, Rypdal dapprima pensò a Jon Christensen che però era impegnato con Jarrett; quindi come tastierista si rivolse a Pete Knudsen ma anch’egli era impegnato. Da questa serie di difficoltà nacque un inusuale organico che definì la fortuna del disco: Rypdal chitarra acustica ed elettrica, sintetizzatore e sax soprano, Torbjørn Sunde trombone, Brynjulf Blix organo, Sveinung Hovensjø basso elettrico e Svein Christiansen batteria. La band sarebbe rimasta assieme fino al 1977 e, come affermato dallo stesso Rypdal, si è trattato della migliore formazione che egli abbia diretto, una formazione con cui il chitarrista affrontò e vinse la sfida di coniugare scrittura e improvvisazione e di armonizzare le sue due facce di compositore ed esecutore. E tali elementi si riscontrano facilmente ascoltando l’album; a circa 30 anni di distanza la musica, nella sua concezione orchestrale, conserva intatta una sua freschezza ed originalità evidenziando tutti gli input che erano confluiti nello stile compositivo del chitarrista: da Coltrane all’ultimo Davis, da Albert Ayler a Jimy Hendrix…fino alla musica colta e contemporanea. Poi Rypdal avrebbe cambiato strada abbracciando una fusion molto spinta, al limite della sperimentazione. Di particolare interesse, come accennato, la pubblicazione di “Rolling Stones” una sorta di hit del periodo, un brano che- ricorda Rypdal – bisognava assolutamente eseguire specie se ci si trovava in Germania o in Italia: in questo caso il pezzo, basato su un pulsante 4/4, si avvicina nettamente alla fusion. Di tutt’altra natura “Unfinished Highballs” che occupa il terzo CD: si tratta di una suite in 7 parti in cui Rypdal evidenzia di aver ben appreso a lezione di Gerge Russell. La sua è una scrittura quasi sinfonica che trova un’interprete ideale sia nel gruppo “Odyssey” sia nello “Swedish Radio Jazz Group”: Particolarmente significativo, in apertura dell’album, il dialogo tra la chitarra di Rypdal e la celeste di Bengt Hallberg , uno dei più importanti pianisti svedesi di tutti i tempi, dialogo che crea un effetto di tensione e distensione di grande efficacia.

Edward Simon, Scott Colley, Clarence Penn, “A Master’s Diary” CamJazz CAMJ 7843-2

L’etichetta Cam nasce storicamente legata alla produzione di musica da film; nel 2007 apre una collana jazzistica che ha in breve tempo acquisito prestigio ed altre etichette (Black Saint, Soul Note, Dischi della Quercia), senza dimenticare del tutto la propria matrice cinematografica. In questo senso tre importanti jazzisti contemporanei – il pianista Edward Simon, il contrabbassista Scott Colley ed il batterista Clarence Penn – sono stati invitati a confrontarsi con le musiche scritte da Fiorenzo Carpi per film come “Mio Dio come sono caduta in basso”, “Incompreso”, “Le avventure di Pinocchio”, “Maggio musicale”, “Diario di un maestro” e “La baraonda – Passioni popolari”. E’ Simon il più rapito e convinto dell’operazione – come dimostrano due intensi piano-solo – anche se tutto il trio (quartetto con la tromba di Diego Urcola in “Eugenia’s Theme”) si muove scavando nelle belle melodie di Carpi che si dimostrano valide ed aperte a sviluppi improvvisativi al di là dell’originaria funzione di colonna sonora. Del resto, come ricorda Federico Scoppio nelle note di copertina, Wayne Shorter ha più volte affermato di essere stato influenzato nella sua musica dal cinema, addirittura “dal modo in cui certi attori si muovono sullo schermo”. Cinema e jazz (ci starebbe anche il fumetto) – a loro modo arti popolari – sono peraltro nati in contemporanea ed ancora sanno dialogare come dimostra “A Master’s Diary”. (LO)

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  1. Acquaphonica – “Private Enemy”
  2. Atlas Trio - “Sources”
  3. Jan Garbarek – “Dansere”
  4. Keith Jarrett – “Sleeper”
  5. Jacob Karlzon 3 – “More”
  6. Luca Luciano – “Partenope”
  7. Sabir Mateen, Silvia Bolognesi - “Holidays in Siena”
  8. Terje Rypdal – “Odyssey in studio & in concert”
  9. Edward Simon, Scott Colley, Clarence Penn, “A Master’s Diary”
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