A Proposito di Jazz – Di e con Gerlando Gatto

I nostri CD. IN DUE SI SUONA MEGLIO

Tempo di lettura stimato: 9 minuti

In campo musicale la formula del duo è particolarmente rischiosa in quanto se è vero che esalta ogni potenzialità dell’artista, è altrettanto vero che nulla perdona: ogni minimo sbaglio, ogni incertezza viene evidenziato e denunciato senza scampo. Per fortuna, negli album che vi presento in questa sede di incertezze non ne ho sentite in quanto si tratta di artisti davvero di grande statura.

Ralph Alessi, Fred Hersch – “Only Man” – Cam Jazz 7864-2

Questo è il secondo album del trombettista Ralph Alessi per la Cam dopo il debutto con “Cognitive Dissonance”. Questa volta Ralph si presenta in duo con Fred Hersch , un pianista che in questi ultimissimi tempi sta raccogliendo i favori del pubblico e della critica anche italiani avendo firmato un altro eccellente album in duo, con il clarinettista Nico Gori (“DaVinci” Bee Jazz, 2012) . Questo “Only Man” non è certo di facile ascolto data anche la particolarità dell’organico; eppure, se si supera lo scoglio dei primi due, tre minuti d’ascolto, poi il CD presenta come una sorta di forza ipnotica che ti porta alla fine dei sessanta minuti di musica. Tuttavia, per una piena comprensione, il disco necessita almeno di due, tre ascolti. In effetti il percorso disegnato dai due si svolge attraverso un sentiero stretto, difficile, composto da brani originali con l’eccezione di due composizioni altrui: “San Francisco Holiday” di Thelonious Monk e “Blue Midnight” di Paul Motian. Ciò detto va rilevata la forza espressiva dei due musicisti che si muovono con grande musicalità e sensibilità sia che improvvisino sia che eseguano parti totalmente scritte. In particolare il pianista evidenzia un eccellente controllo della propria energia oscillando tra romanticismo e astrattismo mentre il trombettista si muove su uno spettro sonoro molto ampio ,utilizzando anche la sordina, con un fraseggio stretto, asciutto, breve, caratterizzato da un costante controllo della dinamica. Di qui una musica in costante equilibrio creativo e sonoro in cui mai, neppure per un momento, si ha la sensazione che il tecnicismo prevalga sulla sincerità dell’ispirazione; anzi, in alcuni momenti si ha la sensazione che i due procedano per sottrazione, lasciando respirare le note, lasciando all’ascoltare il tempo di assorbirle, di comprenderne la portata.

Stefano Bollani, Hamilton de Holanda – “O que serà” – ECM2332

Quanti seguono “A proposito di jazz” sanno perfettamente che mai sono stato tenero nei confronti di Bollani, per cui sono particolarmente lieto di poter affermare che questo album è superlativo. Il pianista è in uno dei suoi momenti migliori grazie anche agli stimoli forniti da Hamilton de Holanda, magnifico interprete del bandolim , un mandolino a 10 corde. L’album è tratto da un concerto al “Jazz Middelheim” di Anversa dell’agosto 2012 e si sostanzia in uno straordinario viaggio attraverso le musiche del Sud America, da Jobim a Piazzolla, da Edu Lobo a Chico Buarque, da Baden Powell a Pixinguinha, da Vinicius de Moraes a Ernesto Nazareth, con una puntatina anche in casa nostra e due composizioni originali, “Il barbone di Siviglia” di Bollani e “Caprichos de Espanha” di Hamilton. Stefano non è certo nuovo alle frequentazioni con la musica brasiliana: basti ricordare “Falando do Amor” (Venus Jazz, 2003) tutto incentrato sulla musica di Antonio Carlos Jobim, “Carioca” (EmArcy, 2008) e le collaborazioni con Caetano Veloso. Dal canto suo Hamilton conosce bene ogni sfumatura della musica sudamericana avendo lavorato, tra gli altri, con Hermeto Pascoal, l’arpista Edmar Castaneda, il suonatore di banjo Bela Fleck e Richard Galliano. Quindi due musicisti in grado di ottimamente interpretare un repertorio variegato, complesso, sicuramente di estremo interesse. L’apertura è affidata ad un brano ben conosciuto anche dal pubblico italiano, “Beatriz” di Edu Lobo e Chico Buarque, interpretato con grande delicatezza; e già da questo primo brano si ha un valido esempio di ciò che si ascolterà in seguito: i due hanno evidentemente sviluppato una straordinaria intesa per cui sia che suonino all’unisono, sia che si alternino l’uno nella veste di solista l’altro in quella di accompagnatore, la musica scorre sempre con estrema naturalezza. Il tutto non disgiunto da un’evidente gioia di “donare” suonando e da quella carica di ironia che sempre caratterizza le esecuzioni di Bollani. Così, all’improvviso, ecco affiorare la parodia di Conte in “Guarda che luna” che strappa un sorriso anche agli spettatori olandesi. Ma quando c’è da fare sul serio i due non si risparmiano ed ecco allora una toccante interpretazione di “Oblivion” forse uno dei momenti migliori dell’intero album.

Maurizio Brunod – “Duets” – Caligola 2170

Maurizio Brunod è chitarrista talentuoso che si è messo in luce anche grazie ad alcuni album molto ben riusciti quali “Northern Lights” in splendida solitudine e “Svartisen” in cui si è avvalso anche della collaborazione di John Surman. In effetti Maurizio è artista oramai maturo, in grado di esprimersi ai massimi livelli in situazioni affatto differenziate: il gruppo “Enten Eller” con Massimo Barbiero, il latin jazz, le atmosfere più rarefatte e intimistiche del Nord Europa. Ed è proprio tale complessa e variegata personalità che si evidenzia in questo album in cui il chitarrista si esprime in duo con una serie di musicisti anch’essi molto diversi. I tre brani con Daniele Di Bonaventura al bandoneon sono tutti giocati sul filo dell’emozione, con una carica di lirismo che contraddistingue le esecuzioni; atmosfere differenziate negli altri tre brani con Achille Succi al sax alto e flauto: in “Carousel” il clima si fa più incandescente con Succi a menare le danze mentre ”Nora” e “La foresta di bambù” sono due splendide ballad finemente cesellate. Il celebre contrabbassista Miroslav Vitous risulta presente in ben cinque brani e la cosa non stupisce ove si tenga conto che il progetto è nato proprio dall’intesa tra questi due musicisti: ascoltando le loro interpretazioni si avverte immediatamente l’empatia che regna tra i due, un’empatia che consente loro di produrre una musica senza tempo, senza confini, caratterizzata da un grande pathos; particolarmente gustoso “Charlie Chaplin in India” condito da una giusta dose di ironia che nulla toglie alla valenza del brano, impreziosito dalla ben nota eccellenza di Miroslav all’archetto. In un album del genere non poteva mancare Massimo Barbiero compagno di tante avventure: ecco quindi altri tre brani registrati con il percussionista impegnato alla marimba; e si tratta dei pezzi forse più eterei dell’album, com’è nello stile del percussionista, tanto è vero che tutte e tre le composizioni sono firmate Bruno-Barbiero. Chiude la galleria degli invitati il bassista Danilo Gallo che con Brunod da vita a tre deliziosi bozzetti caratterizzati da una bella linea melodica.

Claudio Cojaniz, Franco Ferruglio – “Blu Africa” – Caligola 2177

Ecco un altro di quegli album che non ti aspetti: conoscevamo Claudio Cojaniz come pianista eccellente, solitamente interprete di un jazz piuttosto ”duro” e sicuramente scevro da qualsivoglia compromesso. In questa occasione sfodera un altro lato della sua variegata personalità e, pur restando fedele alla lezione di Monk, si lascia sedurre dalla melodia e dalla cantabilità che sgorgano fresche e spontanee dal suo talento. Così l’album si compone in massima parte di brani dolci ma allo stesso tempo ritmicamente complessi che sembrano in qualche modo rifarsi alla cultura africana, brani composti dal pianista friulano che li esegue con grande partecipazione, raffinato gusto e rara sensibilità. Ovviamente l’ottima riuscita dell’album è dovuta anche all’apporto di Franco Ferruglio, prezioso contrabbassista, particolarmente abile nell’uso dell’archetto, e non a caso è proprio lui ad aprire l’album con una intro deliziosa eseguita in tal modo . I due si completano con grande maestria per cui non si avverte la mancanza della batteria: il discorso risulta così pieno, conchiuso che la presenza di un ulteriore elemento sembrerebbe ottundere l’equilibrio raggiunto. Ma, si badi bene, non stiamo parlando di musica “facile” ché le soluzioni armonico-ritmiche trovate dai due si fanno ascoltare per la loro linearità e bellezza mai da confondere con la banalità. E queste caratteristiche si ascoltano per tutta la durata dell’album, a partire dalla prima nota di “Shining Kilimanjaro” per chiudere con l’ultima nota di “Gerson ‘the dog’ rumba”. E quel fascino discreto della melodia, della cantabilità, sempre lì, presente a sottolineare il lavoro dei due musicisti. Così ad un’ elegante e raffinata “Blue Africa” caratterizzata anche da un incedere ritmico ben marcato, fa seguito un’incalzante “Lion’s trip” mentre Ya-Hamba si fa apprezzare per il particolare lavoro di Ferruglio; “Gerson ‘the dog’ rumba” è il brano ritmicamente più trascinante a chiudere un immaginifico viaggio in terre lontane che ha avuto in Cojaniz e Ferruglio due guide di lusso.

Gary Peacock, Marilyn Crispell – “Azure” – ECM 2292

Il contrabbassista dell’Idaho e la pianista di Filadelfia possono vantare una lunga serie di collaborazioni sia in trio con Paul Motian (“Amaryllis” ECM 2000), sia in quartetto con l’aggiunta di Annette Peacock (“Nothing ever was, anyway” ECM 1997). Questa volta si presentano in duo ad affrontare un repertorio di undici brani, tutti originali, equamente distribuiti: quattro scritti dalla Crispell, quattro da Peacock e tre a due mani. L’album, registrato nel gennaio-febbraio del 2011, si iscrive di diritto tra le cose migliori incise dalla Crispell: perfetta l’intesa, i due sviluppano una musica di grande raffinatezza, sempre imprevedibile e caratterizzata da un non comune senso architettonico. Gary e Marilyn, ad eccezione di due brani in cui si ascolta un “Bass solo” e un “Piano solo”, per il resto dialogano da pari a pari, senza alcuno sfoggio di virtuosismo e soprattutto senza alcuna volontà di prevaricare ma sempre alla ricerca di uno spunto nuovo che possa servire da stimolo per se stesso e per il compagno di viaggio. Così i due artisti possono lasciarsi andare, possono lasciarsi portare dall’ispirazione del momento, dando libero sfogo alle proprie potenzialità improvvisative. E il risultato è straordinario laddove ogni pezzo racchiude un motivo di interesse. Il brano iniziale “Patterns è piuttosto spigoloso, nervoso ma l’atmosfera si distende già a partire dal secondo brano, “Goodbye” grazie ad una lunga e preziosa introduzione di Peacock. Delicata e suadente la cantabilità di “Waltz After David M” mentre “Blue”, a firma doppia, con il basso che martella un ritmo ben riconoscibile, ci conduce su terreni più prettamente jazzistici e quindi forse più usuali per quanti non siano avvezzi alla musica improvvisata. “Puppets” evidenzia tutta la maestria di Peacock nell’uso dell’archetto. L’album si chiude con il brano che da il titolo all’intero album, anch’esso scritto dai due: si tratta della degna conclusione di un percorso straordinario in cui le sensibilità artistiche della Crispell e di Peacock si fondono in unicum di rara suggestione per una musica senza tempo.

Stefania Tallini – “Viceversa” – Alfa Music AFMCD164

Stefania Tallini è una delle artiste più sottovalutate del nostro panorama jazzistico. Pianista dotata di una solida preparazione di base ha tutte le qualità per eccellere: tocco sempre pertinente rispetto alle esigenze espressive, squisita sensibilità, solido senso ritmico e grande propensione per la scrittura. Dato, quest’ultimo, che risalta evidente ascoltando questo splendido album (è il settimo da leader) tutto giocato sul filo della ricerca melodica grazie anche alla preziosa collaborazione di Corrado Giuffredi, clarinettista acclamato al di là di ogni genere musicale, ma soprattutto di Guinga, compositore chitarrista e cantante non a caso considerato una delle personalità di maggior spicco della nuova musica brasiliana. Si ascolti come la voce di Guinga risulti straordinariamente “giusta” (non trovo un aggettivo migliore) in “Duke” e “Mãe Do Mar” gli unici due brani cantanti dall’artista brasiliano. In particolare il secondo brano è eseguito in portoghese, con il testo di un grande poeta dell’avanguardia brasiliana: Thiago Amud. Per il resto l’album è quanto mai variegato. La Tallini si riserva uno spazio in solitario nel brano d’apertura, che da il titolo all’album, in cui Stefania si esibisce in un “piano duo” suonando con se stessa, e in ”Pesarobajao” dedicato a Hermeto Pascoal. Gli altri sono tutti duetti: quattro con la chitarra di Guinga e sei con il clarinetto di Giuffredi. Ma in tutti i brani l’empatia tra i musicisti è perfetta, completa, a conferma del titolo “Viceversa” che, come spiega la stessa Tallini, “ha il senso della reciprocità, dello scambio, del rapporto tra diversità” . “Viceversa”, quindi, per raccontare di un amore forte verso il jazz, la musica brasiliana, la musica classica. Una trasversalità che si traduce in grande ricchezza d’ispirazione, con un Brasile ben lontano da quello oleografico che tutti immaginano e con un sapore cameristico che si avverte immediato quando entra in scena Giuffredi. Il tutto condotto ad unità dalla sapienza pianistica di Stefania che si conferma, come si accennava in apertura, artista moderna, matura, in grado di affrontare qualsiasi prova senza perdere alcunché della propria ricchissima individualità.

Antonio Zambrini, Rita Marcotulli – “La conversazione” – abeat ABJZ 126

Raramente ho riscontrato una totale rispondenza tra il titolo di un album e il suo contenuto, rispondenza che, viceversa, in questo caso è assoluta. “La conversazione” è in effetti un fitto dialogare tra due grandi artisti, due pianisti seppure di estrazione e formazione diversa: Antonio Zambrini e Rita Marcotulli.
Rita Marcotulli è senza dubbio alcuno una delle migliori pianisti jazz a livello internazionale e può già vantare una vastissima esperienza ai più alti livelli avendo collaborato con musicisti quali Chet Baker, Jon Christensen, Palle Danielsson, Peter Erskine, Steve Grossman, Joe Henderson, Joe Lovano, Charlie Mariano, Pat Metheny, Sal Nistico… Ma non basta ché la sua personalità si è affermata pienamente anche come compositrice: tra le tante partiture scaturite dalla sua fervida inventiva c’è pure la colonna sonora del film “Basilicata coast to coast” che le è valso il Ciak d’oro nel 2010, sempre nello stesso anno il Nastro d’argento per la migliore colonna sonora nonché il David di Donatello per il miglior musicista nel 2011 (prima donna in assoluto a ricevere questo riconoscimento).
Ugualmente prestigioso il curriculum di Antonio Zambini; anch’egli, oltre a fruttuose collaborazioni con artisti quali Lee Konitz, Ben Allison, Hamid Drake… si è fatto apprezzare come compositore. Alcuni suoi brani sono stati eseguiti da musicisti di assoluto spessore come Lee Konitz, Ron Horton e Stefano Bollani il quale ha aperto il suo disco “Piano solo” (ECM/Ducale) con il brano “Antonia” proprio di Antonio Zambrini. Date queste premesse c’era da attendersi grande musica, e grande musica è stata. I due mostrano di trovarsi a loro agio in un repertorio variegato composto da sei composizioni di Zambrini, una di Rita (“La strada” presentata dalla sola Marcotulli) e tre standard come “Beatriz” di Edu Lobo e Chico Buarque de Hollanda, “Canto triste” di Edu Lobo e Vinicius De Moraes, e Here’s that rainy day” di Jimmy Van Heusen mentre “Giant steps” di Coltrane è eseguita dal solo Zambrini. A cospetto l’uno dell’altra, i due pianisti si esaltano, dando il meglio di sé, ma senza alcuna spettacolarizzazione della loro arte. La musica scorre, così, fluida, sempre coerente pur se non mancano i momenti in cui l’ascoltatore rimane stupito dalle soluzioni trovate. Insomma un disco che vi consiglio caldamente.

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  1. Ralph Alessi, Fred Hersch – “Only Man”
  2. Stefano Bollani, Hamilton de Holanda – “O que serà”
  3. Maurizio Brunod – “Duets”
  4. Claudio Cojaniz, Franco Ferruglio – “Blu Africa”
  5. Gary Peacock, Marilyn Crispell – “Azure”
  6. Stefania Tallini – “Viceversa”
  7. Antonio Zambrini, Rita Marcotulli – “La conversazione”
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