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Gerlando Gatto e Dubi Lenz

Uno dei paesi più interessanti ed effervescenti dal punto di vista musicale degli ultimi anni è Israele che specie nel campo del jazz ha saputo sfornare una serie di talenti assolutamente straordinari quali, tanto per fare qualche nome, John Zorn, Avishai e Anat Cohen, Anat Fort, Omer Avital, Omer Kelin…

Così oggi davvero molti sono gli artisti capaci di rappresentare lo Stato ebraico e la sua straordinaria varietà di influenze musicali e culturali, con repertori che mischiano folklore yiddish, jazz e tradizioni sefardite

Proprio per analizzare più da vicino lo stato di salute del jazz in Israele abbiamo avvicinato un personaggio di primissimo piano del mondo musicale israeliano e lo abbiamo intervistato durante una sua recente visita nel nostro Paese, Dubi Lenz. Giornalista radiofonico, da oltre 40 anni Lenz conduce trasmissioni musicali incentrate sulla World Music e il Jazz per una delle principali radio israeliane e dal 2012 è direttore artistico del Festival Jazz di Eilat, la cittadina del Mar Morto che ospita la più importante rassegna di jazz in Israele. Dubi Lenz ha pubblicato numerosi scritti sulla World Music e il Jazz in Israele e in Medio Oriente e tiene conferenze in tutto il mondo su questi temi.

-In questo periodo si sentono spesso espressioni del tipo “il jazz è morto”, “il jazz sta morendo”. Qual è la sua opinione al riguardo?

Io credo che il jazz né stia morendo, né tanto meno sia morto. Innanzitutto penso sia sbagliato riferirsi al termine jazz così come ad altre parole che identifichino generi musicali perché i confini oramai sono veramente assai labili e ogni genere vive grazie agli input che riceve dall’esterno. Certo, poi bisogna intendersi sul significato che noi attribuiamo alla parola JAZZ. Se ci si riferisce a quel tipo di musica americana suonata negli anni ’20 e ’30 certamente quel jazz non è più in grado di dire qualcosa di nuovo anche se ancora oggi viene suonato e apprezzato da molti appassionati. Diverso, completamente diverso il discorso per quanto concerne ciò che oggi chiamiamo JAZZ e spesso la gente cade in errore perché, come ho già detto, i confini tra il jazz e le altre musiche sono oramai molto, molto labili”.

-Prendendo le mosse da queste considerazioni, qual è oggi la situazione del jazz in Israele?

E’ una situazione straordinariamente positiva. Nello scorso mese di novembre, per iniziativa del ministero degli esteri, si è svolta una manifestazione – una sorta di fiera-esposizione – in cui erano presenti tutte le varie componenti del mondo jazzistico: case discografiche, organizzatori, responsabili di festival, giornalisti… provenienti da ogni parte del mondo, Giappone, Sud Corea… dall’Europa, dagli Stati Uniti, dal Sud Africa ed è davvero stupefacente che un Paese di circa sette milioni di abitanti possa produrre un così elevato numero di talenti e di musicisti professionalmente ben preparati”.

-Il fenomeno cui lei fa riferimento interessa solo il jazz o in genere le arti musicali?

No, riguarda tutta la musica… anzi il fenomeno ha riguardato dapprima la musica classica che ha sempre potuto vantare dei formidabili talenti. Ora, accanto a questi musicisti classici, abbiamo anche dei grandissimi musicisti di jazz”.

-A cosa attribuisce questa straordinaria crescita?

E’ difficile risponderle… comunque credo che il merito maggiore vada al sistema educativo, formativo. Adesso puoi cominciare a studiare jazz quando hai sei anni, quando vai alla prima elementare: se vai nel “dipartimento musica” puoi scegliere jazz e veramente cominci ad imparare i fondamentali di questo genere. A quindici anni puoi andare in un “college” musicale per studiare jazz dove avrai i migliori insegnanti che sono andati negli USA a studiare, a suonare e poi sono tornati. Così quando finisci questo ciclo di studi, puoi frequentare quelle che consideriamo una sorta di Università del jazz come la “Rimon School of Jazz” collegata con la Berklee o il Conservatorio di Tel Aviv connesso con la New School of Music di New York. Dopo due anni di frequenza in questi istituti puoi andare alla Berklee o alla New School of Music di New York per altri due anni”.

-Quando cominciò a prendere piede il jazz in Israele?

Io ricordo che il jazz cominciò ad espandersi nel mio Paese quando avevo quindici, sedici anni… agli inizi degli anni ’60, c’erano alcuni club a Tel Aviv dove c’erano musicisti che suonavano ogni domenica jazz”.

-Qual era il tipo di jazz che si ascoltava in quel periodo?

Era il jazz americano per definizione, dal dixieland al be-bop. Un salto determinante si è avuto nel 1987 quando è stata organizzata la prima edizione del Red Sea Jazz Festival in Eilat. Un’altra tappa fondamentale si è avuta nei primi anni ’90 quando tre talentuosi jazzisti israeliani decisero di andare a studiare e suonare negli States: il bassista Avishai Cohen, Omer Avital anch’egli bassista e Avi Lebovich trombonista . Tutto ciò è stato particolarmente importante per la crescita del jazz israeliano: questi musicisti hanno cominciato a suonare, a farsi conoscere, a far conoscere il jazz israeliano. Io sono stato a Boston lo scorso mese e c’era un gruppo di musicisti israeliani che ha ottenuto un grande successo. Uno dei responsabili di quella scuola mi ha chiesto: “Ma cosa mettete nell’acqua da bere per far crescere un numero così straordinario di talenti?” Naturalmente ho risposto che mai avrei svelato il nostro segreto. Comunque, scherzi a parte, io credo che fondamentale sia l’atmosfera che si registra nel nostro Paese. Intendo dire che i nostri artisti non hanno paura di misurarsi con gli altri, di affrontare le critiche. Inoltre abbiamo sempre cercato di valorizzare al massimo i nostri artisti. Così nei nostri festival abbiamo riservato il 50% ai musicisti israeliani… ovviamente anche a coloro che vivono al di fuori del nostro Paese e che vengono, ad esempio, da Parigi, da Londra, da New York”.

-Così come oggi nessuno dubita sul fatto che si possa parlare di un jazz europeo, si può parlare anche di un jazz israeliano?

Certamente sì; io, quando ascolto un musicista, un jazzista, riesco a capire se si tratta di un israeliano o meno. Il perché è molto difficile da spiegare così com’è difficile da spiegare la riconoscibilità del jazz italiano o quella del jazz scandinavo. Comunque un tratto caratterizzante è sicuramente dato da quel certo sound mediorientale che si avverte come in sottofondo; c’è poi da considerare il forte legame che nel tempo si è instaurato tra il jazz di New York e il nostro jazz dovuto al fatto che molti musicisti israeliani hanno soggiornato per tanto tempo nella “Grande Mela”. E così oggi i nostri artisti suonano alla pari con i più grandi jazzisti del mondo; ad esempio Avishai Cohen collabora con Chick Corea… per non parlare dei musicisti che hanno un proprio gruppo”.

-Al riguardo cosa pensa di John Zorn?

John è un “crazy gay” ma è uno di quelli che ha fatto conoscere la nostra musica in tutto il mondo. Al riguardo è un piacere sapere che anche in Italia conoscete la nostra musica: uno dei più interessanti concerti che ho ascoltato in questi ultimi anni è stato quello che ha visto impegnato Stefano Bollani con Nico Gori su un repertorio interamente firmato da Sacha Argov, uno dei più importanti compositori israeliani di canzoni. Spero che sempre più musicisti italiani vengano in Israele anche se i jazzisti italiani sembrano pigri nel propagandare sé stessi: ogni volta devo fare una fatica enorme per trovare materiale, per farmi mandare qualche CD… è pazzesco: non vogliono diventare famosi? Mi è accaduta una cosa del genere, ad esempio, con Pino Minafra. In Israele non è così; i musicisti si aiutano tra di loro e vi sono organizzazioni che li aiutano”

Questo è vero ma è altrettanto vero che parecchi musicisti, ancora oggi, tentano di boicottare le vostre iniziative, i vostri festival…

Il perché è da ricercare in motivazioni politiche: in particolare c’è una organizzazione, la BDS, che cerca in tutti i modi di non far venire i musicisti in Israele e quindi di boicottare i nostri festival, le nostre iniziative. C’è un grande musicista americano, che è stato ospite del nostro ultimo festival, il quale ha scritto sulla sua pagina Facebook che se devo boicottare Israele prima di tutto devo boicottare gli Stati Uniti perché tutte le ragioni che abbiamo per boicottare Israele le abbiamo per boicottare gli USA, il nostro Paese. In linea di massima il problema si presenta in questi termini: quando avvicino un artista e lo invito a venire ad uno dei nostri festival, ovviamente metto il suo nome sul sito; bene, da questo momento il musicista è sottoposto ad ogni sorta di pressioni provenienti da svariate parti attraverso Facebook e Twitter. Ci sono artisti che mi dicono, sì veniamo, e poi una settimana prima si ritirano perché non sono in grado di reggere la pressione e hanno paura. Ovviamente ognuno ha il diritto di avere le proprie opinioni politiche e quindi ha il diritto di scegliere se venire o meno in Israele ma basta dirlo all’inizio, quando si è contattati, no una settimana prima che cominci la manifestazione. Un episodio assai sgradevole mi è capitato, ad esempio, con Cassandra Wilson: aveva già intascato il cachet e mi dice “non vengo” due giorni prima del concerto: non si agisce in questo modo. Così dallo scorso anno ho adottato una metodologia diversa: quando invito un artista gli espongo la situazione, le pressioni cui andrà incontro e lo prego di darmi una risposta solo dopo averci pensato bene, ad evitare che poi torni sulle proprie decisioni. Ciò non toglie che attraverso la musica si possa lanciare dei messaggi precisi: la musica è un linguaggio universale che tutti possono comprendere. Una volta ho organizzato un concerto ai confini tra Israele ed Egitto i cui protagonisti erano due fratelli egiziani, stabilitisi da tempo in Australia, che hanno suonato con due fratelli israeliani. Il concerto ha fatto molto rumore: il fatto è che se voi mettete cinque uomini politici provenienti da mondi diversi in una stanza e aprite la porta dopo cinque-sei ore probabilmente troverete questi uomini che si sono accapigliati, che hanno lottato; viceversa se mettete assieme cinque sei musicisti di diversissima estrazione nella solita stanza e aprite le porte dopo cinque ore probabilmente potrete ascoltare una nuova creazione… questo è il potere della musica e questa è una delle argomentazioni che si può utilizzare contro il boicottaggio. Venite a suonare nei nostri festival, venite a suonare con musicisti israeliani… o con altri. Ma se vogliono boicottare non posso fare alcunché: non posso boicottare il boicottaggio”.

-Se non sbaglio la più potente organizzazione che boicotta i vostri festival è all’interno di Israele stesso?

Sì, la già citata BDS (boycotts, divestment and sanctions) è un’organizzazione israeliana. E questa è l’ultima cosa che posso capire. Odio verso se stessi? Non hai certo bisogno di avere nemici con questa sorta di amici. E veramente questo mondo è pieno di rancore…”

E con queste parole, nella speranza che invece la musica si ponga sempre più come messaggera di pace, salutiamo Dubi Lenz.

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