Jacky Terrasson è sempre un grande

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Davvero atipica la parabola artistica – e fors’anche umana – di Jacques-Laurent Terrasson, ovvero Jacky Terrasson. Nato a Berlino nel 1965 da padre francese e da madre afroamericana, Jacky cresce a Parigi e comincia a studiare pianoforte all’età di cinque anni. Trasferitosi negli USA, studia al Berklee College of Music di Boston e successivamente ritorna a Parigi, dove lavora tra gli altri con Dee Dee Bridgewater, Barney Wilen e Ray Brown. Tornato negli States si esibisce nei locali di Chicago e di New York, quindi si fa apprezzare come accompagnatore di Betty Carter e nel 1993 ottiene il primo importante riconoscimento, il premio Thelonious Monk come miglior pianista. Nel 1994 firma un contratto discografico per la Blue Note Records e incide l’album che porta come titolo semplicemente il suo nome; all’album, che esce nel gennaio 1995, faranno seguito altri nove produzioni per la Blue Note. Poi firma per Concord Music e quindi per EmArcy, etichetta sotto cui è appena stato pubblicato il nuovo album “Gouache”.

Insomma negli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90 Terrasson si presenta sulla scena jazzistica internazionale, assieme a Brad Mehldau, come uno dei talenti più puri, proprio per questo, naturale erede di Keith Jarrett.

Poi inspiegabilmente perde terreno, i suoi dischi sempre eccellenti non riescono più a trovare un grandissimo successo almeno di pubblico e la sua notorietà scema. Prova ne sia che il concerto cui abbiamo assistito, il 20 maggio scorso, si è svolto al “Teatro Studio” dell’Auditorium Parco della Musica, ovvero nella sala più piccola che per giunta presentava posti vacanti.

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Questo pazzo, pazzo mondo.. del jazz

Cari amici,

oggi sento proprio il bisogno di sfogarmi perché, come si dice, “ogni pazienza ha un limite”. Che il mondo del jazz non fosse un circolo per orsoline l’ho sempre saputo, ma che si fosse incattivito fino a tal punto francamente no, non ci ero ancora arrivato!

Ma veniamo al punto!

Come ho detto tante altre volte, io da “A proposto di jazz” non ricavo un euro che sia uno e sfido chiunque a dimostrare il contrario. Allora perché lo fai? Mi si potrebbe obiettare. La risposta è semplice: dopo circa quarant’anni di giornalismo economico, essendo andato in pensione ho deciso di dedicarmi alla mia pristina passione – il jazz – per altro mai del tutto abbandonata durante tutti questi anni. Quanto al guadagno per fortuna non tutto si fa per i soldi…esiste ancora la passione ed è una molla potentissima.

Ciò detto, non nascondo che se il blog mi desse anche qualche soddisfazione di carattere economico ne sarei ben lieto; proprio per questo, dopo che l’iniziativa si era già ben rodata ed aveva raggiunto una certa credibilità, mi sono rivolto alle case discografiche che mi inviano il loro materiale (quindi, sostanzialmente, tutte le etichette italiane che si occupano di jazz) per avere un po’ di pubblicità sul sito. La risposta è stato tanto unanime quanto scoraggiante: dato il momento di crisi pesantissima, con i dischi che non si vendono, non abbiamo alcun budget per la pubblicità di questo tipo.

Ho incassato il colpo e ho proseguito come se nulla fosse accaduto, cioè continuando a recensire gli album. Unica eccezione: non recensisco i CD che bisogna ascoltare o scaricare dalla rete. Sono ancora padrone di adoperare il mio tempo come voglio oppure no?

 

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I nostri CD. Italiani in primo piano

I NOSTRI CD

3 Of Visions – abeat AB.JZ 129

I tre di “Of Visions” sono questa volta Bebo Ferra alle chitarre (acustica, classica ed elettrica), Fabrizio Sferra alla batteria e Paolino Dalla Porta al contrabbasso al posto di Rosario Bonaccorso. Come nella precedente esperienza, il disco è caratterizzato da un continuo mutamento di atmosfere disegnate da una musica estremamente raffinata. In effetti il trio rappresenta quanto di meglio il jazz italiano possa offrire nei rispettivi strumenti. In particolare Bebo Ferra è chitarrista stimato non solo dal pubblico ma anche – e forse soprattutto – dai suoi colleghi grazie ad uno stile che pur basto su una tecnica sopraffina mai tende a prevalere. Su Fabrizio Sferra non mi dilungo ulteriormente dato che, come ho sempre detto, lo considero uno dei migliori batteristi non solo italiani. Dalla Porta è bassista solido, eccellente sia quando suona in modo più convenzionale sia quando frequenta territori sperimentali. In questo album ancora una volta prevale lo spirito lirico che si evidenzia fin dal primo, bellissimo brano – “Children of Africa” – scritto da Paolino Dalla Porta impegnato anche alla kalimba. In coerenza con il titolo “First Vision” ci trasporta in una dimensione onirica in cui i tre evidenziano un particolare controllo della dinamica. Altro pezzo in assoluta consonanza con il titolo, “Country”, in cui i tre richiamano atmosfere d’altri tempi e d’altri luoghi. Non mancano, ovviamente, brani più vicini al jazz come “Segment” di Charlie Parker arrangiato ancora da paolino Dalla Porta: ottimo il fraseggio di Ferra con batteria e contrabbasso impegnati sia in un sostegno ritmico-armonico di straordinaria efficacia sia in assolo quanto mai pertinenti (al riguardo vi pregherei di ascoltare con la massima attenzione di quante sfumature sappia colorarsi la batteria di Sferra). Nel conclusivo “Fourth Vision” il suono della chitarra diventa più aspro e il brano assume un andamento dapprima swingante e poi decisamente più aggressivo. Insomma un album di notevole spessore caratterizzato dalla grande versatilità del chitarrista e dalle straordinarie doti di Dalla Porta e Sferra a proprio agio nei contesti più diversi.

Ambrose Akinmusire: la tromba del futuro

Ambrose Akimusire

Arrivo che il concerto è già iniziato, ma ancor prima di entrare in sala sento una tromba del tutto particolare, con un fraseggio allo stesso tempo liquido e spigoloso, una sonorità nuova, una tecnica superlativa: insomma, quando mi siedo al mio posto ho la netta percezione che quanto letto e ascoltato su disco circa Ambrose Akinmusire sarà del tutto confermato dall’ascolto live.

Ambrose si conferma, infatti, eccellente musicista, oramai perfettamente padrone dei propri mezzi espressivi, e proprio per questo in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur variegato e popolato universo dei trombettisti jazz.

La sua è una musica che necessita di un ascolto attento abbondantemente ripagato da una messe di emozioni, di sensazioni che toccano nel profondo; una musica spesso iterativa, a tratti onirica, fortemente evocativa e suggestiva, sempre porta con grande semplicità. I suoi assolo in splendida solitudine sono straordinari per come lo strumento mai denota un attimo di defaiance, sempre pronto ad assecondare le volontà espressive del leader in qualunque tonalità lo stesso ami suonare in quel preciso momento; particolari la purezza e limpidezza del suono e gli armonici che ogni tanto trae dal suo bagaglio, senza esagerare proprio per non dare troppo spazio a virtuosismi che non gli sono congeniali. E poi quel suonare quasi per sottrazione, quel ruolo importante dato alle pause, al silenzio.

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Stefano Petucco: preferisco gli anni ’60 e ‘70. In giro non vedo nulla di particolarmente interessante

Stefano Petucco bianco e nero

Chitarrista classico ed elettrico, compositore, nonché suonatore di strumenti etnici tra cui il didjeridoo, Stefano Petucco ha da poco firmato il suo quarto album – “Disillusione” – in cui si presenta con la cantante Annalisa Marra in un repertorio di musiche originali in qualche modo influenzate dai ritmi brasiliani.
Ma qual è stata la sua formazione musicale? Da cosa è stato originato questo amore per la musica brasiliana? Su questi e tanti altri argomenti lo abbiamo lungamente intervistato.

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