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I NOSTRI CD

3 Of Visions – abeat AB.JZ 129

I tre di “Of Visions” sono questa volta Bebo Ferra alle chitarre (acustica, classica ed elettrica), Fabrizio Sferra alla batteria e Paolino Dalla Porta al contrabbasso al posto di Rosario Bonaccorso. Come nella precedente esperienza, il disco è caratterizzato da un continuo mutamento di atmosfere disegnate da una musica estremamente raffinata. In effetti il trio rappresenta quanto di meglio il jazz italiano possa offrire nei rispettivi strumenti. In particolare Bebo Ferra è chitarrista stimato non solo dal pubblico ma anche – e forse soprattutto – dai suoi colleghi grazie ad uno stile che pur basto su una tecnica sopraffina mai tende a prevalere. Su Fabrizio Sferra non mi dilungo ulteriormente dato che, come ho sempre detto, lo considero uno dei migliori batteristi non solo italiani. Dalla Porta è bassista solido, eccellente sia quando suona in modo più convenzionale sia quando frequenta territori sperimentali. In questo album ancora una volta prevale lo spirito lirico che si evidenzia fin dal primo, bellissimo brano – “Children of Africa” – scritto da Paolino Dalla Porta impegnato anche alla kalimba. In coerenza con il titolo “First Vision” ci trasporta in una dimensione onirica in cui i tre evidenziano un particolare controllo della dinamica. Altro pezzo in assoluta consonanza con il titolo, “Country”, in cui i tre richiamano atmosfere d’altri tempi e d’altri luoghi. Non mancano, ovviamente, brani più vicini al jazz come “Segment” di Charlie Parker arrangiato ancora da paolino Dalla Porta: ottimo il fraseggio di Ferra con batteria e contrabbasso impegnati sia in un sostegno ritmico-armonico di straordinaria efficacia sia in assolo quanto mai pertinenti (al riguardo vi pregherei di ascoltare con la massima attenzione di quante sfumature sappia colorarsi la batteria di Sferra). Nel conclusivo “Fourth Vision” il suono della chitarra diventa più aspro e il brano assume un andamento dapprima swingante e poi decisamente più aggressivo. Insomma un album di notevole spessore caratterizzato dalla grande versatilità del chitarrista e dalle straordinarie doti di Dalla Porta e Sferra a proprio agio nei contesti più diversi.

Nicola Alesini – “Maria’s Call” – helikonia 1311

Oramai da tempo l’elettronica ha fatto il suo ingresso nella musica, jazz compreso, con esiti altalenanti; in effetti quando aiuta a meglio modulare l’espressività dell’artista, sicuramente assolve un compito positivo; viceversa, quando rimane fine a sé stessa, le cose cambiano e di sicuro non in meglio. In questo album l’elettronica ha un peso determinante in quanto costituisce, assieme al sax tenore, lo strumento di cui si serve Nicola Alesini per esprimersi in bella solitudine. E devo dire che da musicista intelligente e sensibile qual è Alesini ha fatto un ottimo uso della strumentazione a sua disposizione che risulta quanto mai pertinente e funzionale a quella essenzialità espressiva cui prima si faceva riferimento. L’album contiene 21 sue composizioni, per solo sassofono e loops elettronici, definite dallo stesso autore “colonna sonora di un film mai girato, amore, tenerezza, rabbia, nostalgia. Flusso di coscienza senza parole”. Ed in effetti ascoltando il disco con attenzione, tutte queste sensazioni queste emozioni balzano evidenti, ferma restando l’asemanticità della musica. Grazie ad un linguaggio scarno, essenziale, perfettamente lucido, l’artista si è costruito uno stile del tutto personale in cui confluiscono elementi propri del jazz nordico (si ascolti l’intro della “title track” che apre l’album), del jazz canonico, del folk, della world music, del minimalismo, il tutto, come si diceva, condito da un uso intelligente e ponderato dell’elettronica. In buona sostanza Alesini ti prende per mano e ti conduce in un viaggio visionario, immaginifico, in cui brani totalmente improvvisati si alternano a composizioni che rimandano a precedenti concerti o a collaborazioni che gli sono rimaste particolarmente impresse. Né mancano partiture con riferimenti più espliciti come “Lisa” e “Tore, Il Partigiano” dedicati rispettivamente alla madre e al padre o ancora “Viadamelio” composta per Rita Borsellino in memoria del fratello Paolo. In conclusione un album non facile, spesso straniante ma che vale la pena ascoltare per i molti momenti di intense emozioni che sa offrire. Ultima notazione: l’album è impreziosito da una bella copertina disegnata da Barnaba Fornasetti dell’omonimo studio di Milano.

Francesco Bearzatti – “Monk’n’roll” – CAMJAZZ 7859-2

Più passa il tempo e più Thelonious Monk si conferma uno degli artisti più importanti nella storia del jazz, un musicista cui tutti guardano come un preciso punto di riferimento. Di qui una serie di omaggi che pur nella diversità degli stili e delle proposte musicali sono tutti uniti da una profonda devozione nei confronti del “Maestro”. Il discorso vale ovviamente anche per questa intelligente fatica discografica che vede impegnato l’ormai celebre “Tinissima Quartet” ovvero Francesco Bearzatti al sax e clarinetto, Giovanni Falzone alla tromba, Danilo Gallo al basso e Zeno De Rossi alla batteria. Il repertorio consta di ben sedici composizioni monkiane affrontate, però, in modo del tutto anomalo. L’originale sassofonista ha, infatti, pensato bene di mescolare le note di Monk con schegge, input, ricordi provenienti dalla musica rock. Così ogni pagina monkiana viene mescolata, shakerata, con brani “altri” ben elencati nei titoli: ad esempio “Misterioso” e “Round about midnight” dialogano con i Pink Floyd rispettivamente di “Shine on you crazy diamond” e “Walking on the moon” mentre “Brillant corners” si scioglie in “Under pressure” dei Queen e David Bowie. Insomma un gioco ad incastro ben congegnato: in effetti la trovata appare stimolante e originale e trova una compiuta attuazione grazie alla freschezza e omogeneità del gruppo che oramai da tempo si è affermato come una delle più solide realtà del jazz nazionale. L’intesa è perfetta, la voglia di suonare assieme evidente, la maestria strumentale indiscutibile. Ciò detto, nessuno si offenda ma la musica di Monk la preferisco sempre così com’è.

Fabio Giachino Trio – “Jumble Up” – abeat AB.JZ 527

“Questo album vuole rappresentare una svolta rispetto al nostro primo disco. Si avverte maggiormente l’identità di gruppo ed il lavoro di arrangiamento che insieme abbiamo operato sulle mie composizioni, confrontandoci profondamente sul suono di ogni singolo brano, affinché potesse coesistere insieme alle altre tracce”. Queste parole dello stesso Giachino evidenziano, con estrema chiarezza e obiettività, i contenuti di questo eccellente album. Di Fabio, giovane pianista nato ad Alba ventisette anni fa, ci eravamo già occupati quando nel 2012 uscì l’album “Introducing myself”; in quella occasione sottolineavamo, tra l’altro, le qualità di Giachino nella triplice veste di pianista, leader e compositore. Qualità che Giachino conferma anche in questo album: come pianista Giachino sfoggia una tecnica sopraffina che gli consente di esprimersi con un linguaggio sciolto, fantasioso, all’occorrenza tanto veloce da sfiorare il virtuosismo, capace di ben padroneggiare la dinamica dello strumento. Come compositore/arrangiatore anche questa volta, Giachino mostra una bella facilità di scrittura: ad eccezione di due celebri brani dovuti rispettivamente a Charles Mingus e a Cahn/Tyner, in tutti gli altri dodici pezzi c’è la sua penna sia in solitaria sia assieme ai compagni di viaggio. E si tratta di composizioni ben strutturate, vale a dire ben sorrette da uno studio teorico che si materializza con lucidità nella pagina scritta. Ma al riguardo vi invito ad ascoltare con quale sagacia ed originalità Giachino abbia arrangiato il celeberrimo “Goodbye pork pie hat” di Mingus. Infine come leader Fabio ha oramai gioco facile nel guidare gli ottimi Davide Liberti al basso e Ruben Bellavia alla batteria in quanto – è ancora lo stesso Giachino a parlare – “il trio è legato da una profonda amicizia e stima, che non si ferma sul palcoscenico; in tre anni abbiamo realizzato circa 100 concerti, ed alcuni brani sono nati da idee venute proprio mentre eravamo in viaggio insieme.” Insomma un gruppo caratterizzato anche da una profonda empatia che si coglie facilmente per tutta la durata dell’album.

Francesco Giannico, Theo Allegretti – “Flow signs” – Oak editions 003

Questo album è uscito lo scorso 29 novembre in una co-produzione di Monkey Records e Oak Editions, nuovissima etichetta di Francesco Giannico e Alessio Ballerini fondatori dell’Archivio Italiano Paesaggi Sonori. Le sette tracce del CD sono il frutto della collaborazione tra lo stesso Giannico, (elettronica, field recording e chitarra) e Theo Allegretti pianista e compositore. L’incontro avviene sul terreno della comunicazione più intuitiva e spontanea possibile nel senso che i due musicisti tendono ad esprimere le proprie intuizioni momentanee confidando nel fatto che il compagno di strada sia in condizione di seguire gli input lanciati dall’altro. Il tutto teso al raggiungimento di un preciso obiettivo: riuscire ad esprimere attraverso la musica l’essenza e la bellezza della natura. E ai suoni della natura i due si rifanno spesso: così ad esempio in “Lazy Afternoon” ascoltiamo il rumore dell’acqua che accompagna il pianoforte dapprima in timido sottofondo e verso il finale assurgendo in primo piano, con un parco uso dell’elettronica. In “At Sunset” il fattore rumoristico assume maggiore rilevanza anche se non riconducibile ad un’unica e precisa fonte. In “Recall” è il piano di Allegretti a prendere decisamente la scena mentre in “Angustia” e soprattutto in “Where is the Oracle?” i fattori rumoristici concorrono a determinare un’atmosfera piuttosto cupa. Il brano conclusivo, “The Riddle of the Mood” torna ad un’atmosfera più rilassata anche se verso il finale registra un crescendo di tensione che si stempera solo negli ultimi secondi Insomma un procedimento che coniuga musica e rumori, per di più sul terreno- almeno in parte – dell’improvvisazione, è pratica di per sé assai rischiosa che necessita di due condizioni per essere condotta a buon fine: innanzitutto una perfetta conoscenza tra i due protagonisti e in secondo luogo una ottima padronanza strumentale che consenta di far suonare lo strumento esattamente nel modo e con l’inflessione che in quel preciso momento si vuole. Ebbene devo dire che almeno al 90 per cento la sfida viene vinta nel senso che il pianismo di Allegretti ben si cala nelle atmosfere suggerite dal compagno di strada per un album sicuramente interessante anche se non di facilissima comprensione.

Lithium J Quartet – “Psychedelic Light” – Caligola 2183

Devo dire che la veneta Caligola sotto la sapiente regia di Claudio Donà, si va sempre più affermando, come una delle più originali e innovative etichette del panorama jazzistico nazionale. Le sue produzioni mai risultano banali e ovviamente anche quest’ album non sfugge alla regola…anzi! Il progetto originario può farsi risalire alla collaborazione tra il chitarrista Antonio Tosques e il batterista Pietro Iodice cui si sono aggiunti due altri talenti nostrani quali il trombonista Mario Corvini e il contrabbassista Jacopo Ferrazza . I quattro si misurano con un repertorio originale composto da tre brani di Mario Corvini, tre di Antonio Tosques e due di Ferrazza. E sicuramente la validità delle composizioni è uno dei maggiori punti di forza del CD. I brani appaiono tutti ben studiati, sorretti da una solida architettura e arrangiati in modo tale da mettere in luce le grandi capacità solistiche dei quattro musicisti. I quali suonano in perfetta armonia, evidenziando un’intesa notevole e soprattutto esprimendosi sempre su un piano di perfetta parità cosicché nessuno sembra prevalere sull’altro. Insomma una musica collettiva ma allo stesso tempo segnata profondamente dalle individualità di cadauno. Così, ad esempio, il brano d’apertura – “Aforismi” di Corvini – dopo alcune battute d’assieme lancia in assolo lo stesso Corvini sorretto da un eccellente lavoro propulsivo di contrabbasso e batteria con la chitarra a contrappuntare in sottofondo; poi il pallino passa nelle mani di Tosques che evidenzia ancora una volta il suo originale e fluido fraseggio a note singole nonché una bella capacità improvvisativa; segue un assolo, anch’esso del tuto pertinente, di Jacopo Ferrazza che doppia il suono del contrabbasso con la voce e dopo una serie di botta e risposta tra batteria e gli altri tre strumenti, il brano si chiude ancora con il collettivo. E analizzando tutti gli altri brani si vedrà come sempre ad ognuno venga lasciato il giusto spazio per esprimersi compiutamente. Quanto alla sottolineatura di qualche pezzo in particolare, mi piace indicare “Boh!” di Mario Corvini caratterizzato da linee ampie, ariose e la “title track” impreziosita da un significativo e sentito assolo dell’autore, Antonio Tosques.

Antonello Monni – “Porpora” – Music Center BA 346

Dopo sei anni, il quarantanovenne sassofonista toscano torna in sala di incisione per registrare questo suo terzo album; con lui Roberto Cipelli (piano), Giampiero Spina (chitarra), Marco Confalonieri (piano), Daniele Petrosillo (basso), Tony Arco (batteria) a cui si aggiungono in ‘Porpora” e “Carnevale in Venice” Mauro Sironi al flauto, Silvano Scanziani all’ oboe, Stefano Sala al clarinetto, Carla De Vito al fagotto, Cristina Pini al corno, Claudia Lissoni 2°corno, Federico Mauri 1° corno, Alessandro Castelli trombone, Fabio Prina tuba; il tutto completato dalla partecipazione speciale di Bob Mintzer al sassofono nel brano che dà il titolo all’album. Come si nota un organico piuttosto vasto che viene ben sfruttato soprattutto dal punto di vista timbrico; Monni è infatti, oltre che eccellente strumentista, anche ottimo compositore-arrangiatore come dimostrano le nove tracce dell’album. In tale contesto il sassofonista sembra privilegiare un eloquio in cui la conoscenza dell’hard bop si coniuga felicemente con la frequentazione di territori più prossimi ad una certa espressione cameristica di tipo europeo. Di qui un arrangiamento in cui poco spazio viene lasciato all’ improvvisazione a tutto vantaggio di una scrittura che valorizzi al massimo il dialogo tra gli strumenti; non a caso lo stesso leader mai tende a sovrastare i compagni d’avventura ponendosi completamente al servizio di un progetto collettivo. Progetto che comunque evidenzia alcune spiccate individualità come quelle, oltre al leader, di Roberto Cipelli sempre impeccabile con il suo pianismo così essenziale e pure così espressivo e il batterista Tony Arco mentre assai centrato appare l’apporto di Bob Minzer cha ha sovrainciso il suo sax nel pezzo che dà il titolo all’album, pezzo, unitamente a “Carnevale in Venice” sicuramente tra i più interessanti per l’ottimo arrangiamento dei fiati.

Similado – “Capriccio a Milano” – Caligola 2166

A conferma di quanto affermato più sopra, ecco un altro album targato Caligola veramente degno d’attenzione… anche perché si tratta dell’intelligente ripescaggio di un LP inciso a Milano dal 22 al 26 gennaio del 1988. Protagonista un nonetto costituito da musicisti provenienti da quattro Paesi – Roberto Ottaviano, Franco D’Andrea, Riccardo Bianchi, Roberto Zorzi, Paolo Damiani, Alberto Olivieri (Italia); Albert Mangelsdorff (Germania); Ernst Reijseger (Olanda), Trilok Gurtu (India) – accomunati dall’amore per la sperimentazione e il superamento dei generi quale chiave per accedere ad un futuro non solo del jazz. L’album consta di cinque brani, piuttosto lunghi, dovuti a Franco D’Andrea, Paolo Damiani (due), Albert Mangelsdorff e Roberto Ottaviano: le composizioni si sviluppano lungo direttrici che prevedono sostanziali interventi solistici senza trascurare le parti d’assieme per altro sempre assai ben curate e precise. E’ interessante sottolineare come, nonostante i nove musicisti abbiano dato alla musica un’impronta personale piuttosto forte, l’album possa vantare una sua intrinseca omogeneità dovuta proprio alla maturità stilistica degli artisti in grado di elaborare un canovaccio in ogni momento riconoscibile come sostanziale punto di unificazione. Ciò detto, resta comunque il fatto che, almeno a mio avviso, il musicista più significativo di queste registrazioni è il celeberrimo trombonista tedesco Albert Mangelsdorff scomparso nel 2005. Il suo contributo è notevolissimo sin dal primo brano “Andirivieni” di Franco D’Andrea e raggiunge il culmine nella sua composizione , “Capriccio a Milano” , in cui è possibile riascoltare quegli armonici straordinari che solo lui sapeva trarre dallo strumento e che costituivano parte integrante della sua cifra stilistica. Un’ultima notazione: quando uscì l’LP alcuni sottolinearono una ipotetica difficoltà nella fruizione di questa musica; oggi a più di sedici anni di distanza, una simile considerazione appare del tutto errata: l’album è godibilissimo dal primo all’ultimo minuto… sempre che, ben inteso, vi piaccia la buona musica!

Giuliana Soscia & Pino Jodice Duet – “Sonata per luna crescente” – BV1301

Ascoltarli sia live sia su disco è sempre un grande piacere e una profonda emozione: sto parlando del duo Giuliana Soscia & Pino Jodice che recentemente hanno inciso questo splendido album. Compagni d’arte, oltre che di vita, i due hanno sviluppato un così profondo grado di empatia che possono affrontare qualsivoglia terreno ben consci che il compagno d’avventura sarà sempre lì, presente, pronto a raccogliere ogni stimolo e a svilupparlo per poi a sua volta ricedere la palla. Insomma un gioco di rimando assolutamente straordinario con una pienezza di suono che alle volte ci si dimentica di ascoltare solo due musicisti. Il fatto è che, a prescindere dall’intesa, Giuliana Soscia è un’ottima fisarmonicista così come Pino Jodice è un grande pianista ed ambedue sono prolifici e brillanti compositori nonché originali arrangiatori. Così anche questo album si basa su loro composizioni che risultano non solo assai gradevoli da ascoltare ma anche, ad un esame più attento, ben costruite, ben equilibrate in cui la scrittura lascia il giusto spazio all’improvvisazione senza che venga meno una precisa logica. Ma questo album rappresenta anche una precisa tappa nella carriera del duo ché questa volta Soscia e Jodice suonano da soli evidenziando vieppiù quelle che sono le caratteristiche timbriche e dinamiche dei rispettivi strumenti. Come si accennava tutto il repertorio è ben scritto tuttavia ci sono tre brani che hanno particolarmente catturato l’attenzione dello scrivente: “Contemporary Tango” di Giuliana, un affresco su un modo diverso e moderno di concepire questo genere musicale, “Shadows” di Jodice dalla bella e malinconica cantabilità e la conclusiva “Giuly” un dolcissimo e breve bozzetto in cui pianoforte e fisarmonica si alternano nel disegnare una suadente linea melodica. Insomma un disco che rappresenta l’apice artistico toccato dalla coppia e che merita di essere ascoltato con grande attenzione.

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