In ricordo di Horace Silver e Gian Mario Maletto

Horace Silver

E’ capitato più volte – su questo sito – di scrivere di musicisti o critici (o operatori, amici del jazz) scomparsi, da Ravi Shankar a Roberto Capasso, da “Butch” Morris ad Aldo Sinesio. Non lo si fa per un dovere di cronaca astratto quanto, e soprattutto, per evidenziare la ricchezza del contributo alla musica di matrice afroamericana da parte di chi non c’è più, quindi con un taglio che guarda maggiormente alla vita che alla morte, ad un’eredità viva che va, forse, al di là del tempo.

Oggi è necessario parlare del pianista Horace Silver e del giornalista e collaboratore per decenni di “Musica Jazz” Gian Mario Maletto, scomparsi nei giorni scorsi.

Horace Silver è morto il 18 giugno scorso nella sua casa di New Rochelle (NY). Il suo nome richiama alla mente subito una serie di effervescenti e, in genere, ritmicamente esuberanti brani scritti dal pianista, nato nel 1928 a Norwalk (Connecticut): “The Preacher” che evoca la responsorialità degli spirituals, “Señor Blues” che coniuga ‘spanish tinge’ ed Afroamerica, “Doodlin’”, “Opus De Funk”, “Nica’s Dream” dedicato alla baronessa protettrice dei jazzisti, “Song for My Father” che reinventa ritmiche delle isole di Capoverde (da cui proveniva il padre, mentre la madre era irlandese) ed ancora “Sister Sadie”, “Blowin’ the Blues Away”, “Fifty McNasty”, “Peace”, “Serenade to a Soul Sister”… Horace Silver ha avuto tra gli altri il merito di costruire, a partire dagli anni ’50, un nuovo repertorio che ha avuto una lunga tenuta. Sono anni in cui il mondo è sotto l’incubo della guerra fredda, gli Usa vivono la caccia alle streghe, il movimento per i diritti civili muove i suoi primi passi mentre, in ambito sonoro, nasce il 33 giri, si affermano il rhythm and blues ed il rock and roll. Il nome di Silver è, inoltre, collegato a quello del batterista Art Blackey ed alla nascita dei Jazz Messengers agli inizi di quel decennio, gruppo seminale che i due diressero in tempi diversi e da cui il pianista si staccò nel 1956. Quel gruppo sarà per decenni una sorta di “nave-scuola”, il paradigma vivente di uno stile nato in un preciso contesto storico-sonoro ma divenuto, dopo il revival degli anni ‘80, una sorta di icona del jazz tout-court.

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