I nostri CD. Novità dall’estero

Billy Hart Quartet – “One is the other” – ECM 2335

oneistheotherEcco il secondo album ECM del quartetto guidato dal batterista Billy Hart e completato dal pianista Ethan Iverson, dal sassofonista Mark Turner e dal bassista Ben Street. Si tratta, in sostanza, dello stesso gruppo che nel 2011 ottenne uno straordinario successo con il loro primo album targato ECM, vale a dire “All Our Reasons”. Le positive impressioni suscitate allora, sono state pienamente confermate da questo nuovo “One is the other” e la cosa non stupisce più di tanto ove si tenga conto che Billy Hart è uno dei più creativi batteristi del jazz moderno. Cresciuto alla scuola dell’hard bop anni sessanta, nel corso della sua carriera ha collaborato con artisti di assoluta grandezza quali Miles Davis, Wes Montgomery, Herbie Hancock e McCoy Tyner.  Un batterista, quindi, di grande esperienza che dopo aver lavorato a lungo come side- man di lusso ha oramai scelto di creare e guidare propri gruppi con cui eseguire anche musica propria. Così l’album contiene tre pezzi firmati Hart, due Mark Turner , uno Iverson accanto ad uno standard di Rodgers-Hammerstein, “Some enchanted Evening”. Ma, indipendentemente dalla qualità delle composizioni, per altro di tutto rispetto, il gruppo si fa apprezzare per la straordinaria forza empatica con cui affronta ogni pagina. Il drumming propositivo e fantasioso del leader, ben coadiuvato dal bassista, costituisce il terreno ideale su cui la front-line può esprimersi al meglio sia nei brani veloci sia nelle ballad. A proposito di queste ultime, da ascoltare con particolare attenzione “Maraschino” di Iverson : introdotto da un fantastico gioco di spazzole, il brano si sviluppa dapprima con le note all’unisono di pianoforte e sassofono dopo di che i due strumenti si dividono per esibirsi cadauno in pensoso assolo per poi ritrovarsi a dialogare su linee melodiche che si intersecano e chiudere in perfetta sintonia. “Teule’s redemption” di Hart è forse uno dei brani più belli dell’album: introdotto da un magnifico assolo del leader, grazie ad una scrittura assai ben costruita, offre l’occasione al sassofonista di esprimersi in un lungo e centrato assolo. E a confermare la facilità di scrittura di tutti i musicisti (eccezion fatta per Ben Street che non ha firmato alcun brano), da ascoltare con attenzione anche l’elegante “Sonnet for Stevie” di Mark Turner. Infine lo standard “Some Enchanted Evening” viene affrontato con grande delicatezza e partecipazione, fruendo tra l’altro di un coinvolgente dialogo sax-piano.

Vijay Iyer – “Mutations” – ECM

2372 XCredo che questo “Mutations” rappresenti la prova della piena maturità compositiva raggiunta da Vijay Iyer; si tratta del primo album di Iyer come leader per ECM, una registrazione che aiuta certamente a meglio comprendere la complessa personalità di questo pianista-compositore. Maturità compositiva non significa, però, necessariamente maturità espressiva: in effetti l’album appare ottimamente costruito, forse fin troppo ben pensato ché dal punto di vista emozionale questa musica arriva poco o niente. Insomma sembra proprio che in questa incisione Iyr si sia fatto guidare più dalla mente che dal cuore, con esiti che sicuramente otterranno valutazioni assai differenziate. Dopo un’apertura – “Spellbound and Sacrosanct, Cowrie Shells and the Shimmering Sea”, in cui il pianista si esprime da solo (e in questo caso una certa ricerca melodica si avverte), e un altro pezzo – “Vuln, Part 2” – in cui Vijay si avvale di un minimo ausilio elettronico, si giunge a “Mutations I-X” una composizione per quartetto d’archi, piano ed elettronica che costituisce il nucleo centrale dell’album. Il pianista cerca di estrinsecare attraverso la musica il significato del termine “Mutations”. Di qui una costruzione in cui piccoli nuclei tematici, disegnati di volta in volta, dal pianoforte, dalla strumentazione elettronica o dal quartetto d’archi, interagiscono continuamente creando atmosfere in continuo cambiamento, “Mutations” per l’appunto. Così il clima dell’intera suite viene percepito ora carico di tensione, ora incalzante, ora coinvolgente con pochi sprazzi di autentico lirismo. Ovviamente qui di jazz propriamente inteso non c’è traccia, siamo piuttosto nel campo della musica contemporanea; a tratti propulsiva, avvolgente, lirica, luminescente. L’album si chiude con “When We’re Gone”, una composizione recente, del 2013.

Ahmad Jamal – “Saturday morning” – Jazz Village570027

saturdaymorning_cmPiù ascolto musica sia live sia su disco e più mi convinco che oggi, invece di tentare strade nuove con molta presunzione e spesso con esiti poco felici, sia meglio consolidare quanto si è già raggiunto. Intendiamoci, non voglio dire che cercare nuovi sbocchi al jazz sia sbagliato, solo che per farlo occorre avere tutte le carte in regola: prima essere davvero un grande artista e poi andare ad esplorare nuovi terreni. E chi grande artista lo è di sicuro, senza bisogno di conferma alcuna, è Ahmad Jamal; oramai da tanti anni sulla scena, il pianista si ripresenta in quartetto con Reginald Veal al contrabbasso, Herlin Riley alla batteria e Manolo Badrena alle percussioni e, cosa che rende straordinario questo album, per la prima volta incentra il repertorio sulle sue composizioni. Degli undici brani eseguiti ben otto sono suoi, affiancati da “I’m in the mood for love” di Fields-McHugh, “I got it bad and that ain’t good” di Webster-Ellington e “One” di Sigidi-Gite. Ed è proprio sulle capacità di scrittura che vorrei porre l’accento nel presentarvi l’album. Ebbene Jamal evidenzia una facilità compositiva davvero fuori del comune, una compiutezza espressiva che gli deriva dall’aver assimilato influenze le più svariate; lo stesso Jamal, nel corso di un’intervista, afferma di “iniziato a comporre quando avevo dieci anni, e le mie influenze sono di vasta portata: da Duke Ellington e Billy Strayhorn, Jimmy Lunceford e Fletcher Henderson a Debussy e Maurice Ravel. A Pittsburgh, non c’era quella linea tra musica classica americana e la musica classica europea. Abbiamo studiato tutto”. E questo tipo di cultura si avverte tutta ascoltando le musiche di Ahmad, a partire dal brano iniziale “Back to te future” con un impianto percussivo di chiara ispirazione caraibica, per passare al bellissimo brano che dà il titolo all’album caratterizzato da una suadente melodia imperniata su un coinvolgente ostinato di basso, per giungere a “Silver” un’altra splendida melodia dedicata a Horace Silver con ancora una volta sonorità latine. Lalbum si chiude con la reprise in “radio version” di “Saturday Morning”.

Vera Kappeler / Peter Zumthor – “Babylon-Suite” ECM 2347

2363 XAlbum sotto certi aspetti straniante ma di sicuro interesse questo inciso dal duo svizzero formato da Vera Kappeler e Peter Conradin Zumthor. I motivi di interesse sono accresciuti dal fatto che, trattandosi di un disco d’esordio, vengono presentate musiche assai coraggiose, commissionate dal Origen Cultural Festival. La Babilonia del titolo – si legge nelle note che accompagnano l’album – è quella del Libro di Daniele, la fossa dei leoni, i giovani che cantano nella fornace ardente, un luogo di perdizione, un labirinto. In coerenza con tale premessa, il pianoforte di Kappeler e la batteria di Zumthor disegnano una musica spesso iterativa, con piccoli nuclei motivici ripetuti in sequenza, una musica contrassegnata dai toni bassi a disegnare atmosfere piuttosto cupe che ogni tanto si aprono per lasciare spazio ora a squarci di luce attraverso cui proiettarsi verso dimensioni “altre”, ora a momenti di più forte intensità. E’ il caso, ad esempio, di “Annalisa” in cui si va alla ricerca di una dolce linea melodica spesso solo accennata e quindi lasciata all’immaginazione dell’ascoltatore, mentre in “Traumgesicht” si evidenzia una maggiore forza espressiva con il pianoforte che accentua il suo lato percussivo. Comunque i due si muovono sempre con grande compostezza, misura, eleganza (in alcuni tratti fin troppo raffinata) mostrando una padronanza della dinamica e più in generale dell’intera materia sonora assolutamente perfetta: mai una sbavatura, mai una pausa fuori posto, mai la sensazione che si stia perdendo il bandolo di una matassa per altro assai complessa. Così, anche quando in “November” si insinua l’elemento vocale, l’equilibrio complessivo rimane intatto. In definitiva un album difficile da interpretare, con una sua spiccata identità e di sicuro fascino.

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