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Capita ogni tanto di ritrovarsi inaspettatamente in un luogo mitico e talmente idealizzato da apparire irraggiungibile. Quasi inconsapevolmente però, questa sera abbiamo invece varcato, increduli ed emozionati, le soglie del Pit Inn di , il mitico locale jazz dove gli Steps di Mike Mainieri e Michael Brecker registrarono il loro primo LP. L'occasione per accedere a uno degli ultimi luoghi in cui è stata scritta una pagina importante del jazz, è stato il concerto di Mariko Hirose & Purple Haze. La scelta di assistere a questo spettacolo è stata più o meno casuale. Nel corso della nostra settimana di permanenza a Tokyo il cartellone della capitale non offriva occasioni memorabili per ascoltare buon jazz, ma la proposta di una giovane giapponese, esordiente a livello discografico e alla guida di una big band di una ventina di elementi, per di più dal nome hendrixiano di Purple Haz,e ha esercitato su di noi un'attrazione irresistibile. L'ascolto di un brano tratto dall'album Differentiation e presente su YouTube ha poi dato conforto alla nostra intuizione.

Fuori del Pit Inn, che si trova nel piano interrato di un edificio a Shinjuku, il pubblico si assiepava qualche minuto prima dell'apertura del locale. La disomogeneità di chi attendeva l'apertura del club, signori e signore di una certa età accanto a ragazzi giovanissimi, suggeriva l'idea che la platea sarebbe stata composta essenzialmente da parenti e amici dei musicisti. La familiarità mostrata dagli artisti nei confronti del pubblico ha confermato questa supposizione. Entrati nel locale ci siamo accomodati su una sedia davanti a un tavolino di cinquanta centimetri. Accanto a noi, come a scuola, un altro tavolino delle stese dimensioni e altre tre sedie a formare una fila di quattro. Al di là del corridoio altre file da quattro sedie e poi ancora sedie lungo tutto il perimetro del locale. In tutto non più di ottanta posti a sedere. Sulla parete alla sinistra del palcoscenico una grande fotografia di un John Coltrane dall'aria assorta, probabilmente una foto della session di Blue Train. A fronteggiarla sull'altra parete un poster di Elvin Jones, che in Giappone era di casa.

L'ambiente è confortevole e intimo. Il palcoscenico è ampio e non improvvisato come in tanti locali di casa nostra. Insomma tutto è funzionale a che il musicista si trovi a proprio agio. Dalle foto esposte all'ingresso riconosciamo Mariko Hirose che si aggira tra il pubblico chiacchierando e scherzando, visibilmente emozionata. La sua figura è minuta, aggraziata, una bellezza giapponese appena sbocciata. Mariko si inchina ogni volta che riconosce qualcuno e a ogni inchino sembra più piccola, quasi voglia scomparire. Pensiamo tra noi che non abbia fatto completamente sue le regole dello spettacolo che vogliono che l'artista non debba essere visto prima del concerto, così come una sposa prima del matrimonio. Ma questo aspetto di spontaneità è simpatico e travolgente. Una volta sul palcoscenico Mariko presenta la sua giovanissima big band, in cui si notano diverse presenze femminili e il concerto ha inizio. Nella direzione l'artista mostra una personalità tutta sua. Dirige più con lo sguardo che con i gesti delle mani, i suoi interventi sono sempre minimali e misurati, spesso si limita a leggere la partitura e addirittura si siede quando tutto fila per il verso giusto. Non per questo la musica ne risente.

Marco Giorgi
Per www.red-ki.com

La big band ha una grande energia e risponde con efficienza esponenziale alle quasi impercettibili direttive di Mariko. Le parti di pieno organico ti inchiodano alla sedia mentre emergono la qualità degli arrangiamenti, sempre originali e improntati alla ricerca dei colori, del dettaglio. Il sound della band ricorda certe atmosfere del miglior jazz inglese degli anni Settanta, complice anche la presenza di una cantante che opera come uno strumento aggiunto. I riferimenti all'Europa non devono stupire perché probabilmente Mariko Hirose ha compiuto a ritroso, dal rock al jazz, la strada che i jazzisti inglesi avevano percorso in direzione inversa verso il rock. La Hirose e la sua big band appartengono probabilmente a quella generazione di musicisti che hanno conosciuto Ian Carr prima di Miles Davis, Norma Winstone prima di Billie Holiday, Jon Hiseman prima di Art Blakey, Alan Skidmore prima di John Coltrane. Non stupisce quindi il fatto che la band si lasci completamente andare, abbandonando ogni timidezza proprio nelle versioni jazz di brani rock, come non stupisce l'inclinazione della Hirose verso Charles Mingus punto di partenza di molto del jazz europeo. L'apertura è con, Differentiation, che esordisce con delle rarefatte atmosfere di pianoforte che introducono l'intervento della cantante. L'influenza del jazz britannico anni Settanara è tangibile in questa composizione, così come lo sono i riferimenti a Norma Winstone. L'atmosfera viene dilatata al massimo su tempi ostentatamente lenti ma mancano, fortunatamente, quegli ingenui sperimentalismi che erano tipici di certo jazz pseudo intellettuale. Invece l'esteso preludio funge da piattaforma di lancio per la seconda parte del brano, a tutto swing, in cui si mettono in mostra i solisti. A seguire c'è Fables of Faubus, uno dei lavori più politici del contrabbassista americano, denuncia dell'attività del Governatore dell'Arkansas che nel 1957, inviò la Guardia Nazionale a impedire a nove giovani neri di accedere al liceo di bianchi di Little Rock. La versione eseguita dai Purple Haze è ricca di ironia. La cantante scandisce singolarmente ogni lettera prima di cantare la parola intera “Hello”, mentre tutto attorno il tema canzonatorio di Mingus si sviluppa in senso derisorio, stemperando l'aggressività che pervadeva la versione originale. Anche in questo aspetto ci sembra di cogliere un taglio “britannico” filtrato attraverso l'estetica orientale.

A Timeless Place (aka The peacocks), mostra la splendida voce della cantante (che mi scuserà se non nomino in quanto, in giapponese, non ho colto il suo nome) che raggiunge un registro basso naturale di grande sensualità. La canzone era originariamente contenuta nell'album The Peacocks di Jimmy Rowles, a cui Norma Winstone ha aggiunto un testo nel 1995 nell'album The Promise. La scelta di un brano così bello e così poco comune nell'usuale banale piattezza delle proposte dei cantanti, testimonia dell'attenzione riposta nella scelta del repertorio. Il set si chiude proprio con questa perla di un grande pianista che solo in pochi oggi ricordano. L'apertura di secondo set mostra che la Purple Haze big band ha abbandonato ogni timidezza e lavora a pieno regime. Gli assoli a volte esitanti del primo set sono solo un ricordo. I solisti sembrano trasformati quando affrontano Crosstown Traffic di Hendrix all'interno della quale il gusto di Mariko Hirose incastona Foxy Lady. Le chitarre distorte (ce ne sono due nella band) si lanciano in assoli feroci supportati dalle sezioni ritmiche e fiati che spingono come ossesse. E' questo il linguaggio, quello del rock, che i musicisti sul palcoscenico hanno nel DNA e che trasformano in jazz incandescente. Come consapevoli dell'overdose di energia riversata sul pubblico, parte come ultimo brano del concerto, Zintai, un valzerino sghimbescio a metà strada tra Shostakovich e Django Bates, una vera delizia per l'orecchio. Sul ritmo “zoppicante” si alternano gli assoli carichi di humour e senso dell'ironia. Più volte il brano sembra essere arrivato alla conclusione e invece riparte dal nulla, rimettendosi in piedi a “zoppicare” per mettere in mostra le doti dei solisti e la maestria dell'arrangiamento della Hirose. E' questo però il brano meno immediato per il pubblico che al termine sembra quasi disorientato e lascia andare via la band con meno applausi di quanto in realtà meriti.

Non importa. La Purple Haze big band torna in scena per eseguire come bis una versione pazzesca di Moanin' di Mingus, purtroppo non presente nel CD Differentiation, in cui la Hirose inventa un pedale di chitarra elettrica di poche note, dapprima ascendente e poi discendente, dall'aggressività feroce (assente ovviamente nella versione originale) che funge da impalcatura per l'intera composizione. Così su fondamenta rock viene rivisitato il classico mingusiano che risulta così trasfigurato e attualizzato. C'è spazio solo per i ringraziamenti e per una nuova presentazione della band. Mariko Hirose improvvisa un discorso che risulta molto divertente perché pubblico e band si sbellicano dalle risa. Noi ovviamente non capiamo niente di quello che dice Mariko, ma poco importa perché abbiamo conosciuto una giovane artista di talento che vi segnaliamo come molto promettente.

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