Intervista a Dario Carnovale. “Anche per un jazzista è importante avere solide basi classiche”

carnovale piano

Da Palermo a Udine, un cambio sostanziale che Dario Carnovale ha affrontato da circa un anno alla ricerca di una più precisa identità. Identità che a 35 anni sembra oramai emergere in tutta la sua valenza: batterista, ma soprattutto pianista, compositore, arrangiatore Dario viene oramai considerato una delle più belle realtà del jazz made in Italy. Ma conosciamolo meglio attraverso l’intervista qui di seguito pubblicata.

Dalla Sicilia al Friuli: un balzo lungo come quasi tutta l’Italia. Come mai questa scelta così radicale?
“Innanzitutto ricerca di tranquillità”

In Sicilia non c’era?
“Poca. E’ strano ma anche il clima influenza molto il mio mondo artistico: a volte ricerco più un tempo uggioso e fresco; con il caldo non mi sento proprio a mio agio, non riesco a essere creativo”.

Un siciliano anomalo…un siculo-nordico
“Probabilmente…non ho mai avuto un pigiama invernale”.

Qualche antenato del Nord?
“E chi lo sa… ma non credo”.

Comunque bando agli scherzi: come ti sei avvicinato alla musica e al jazz in particolare?
“Provengo da una famiglia di musicisti. A due anni mi hanno messo le bacchette in mano e la leggenda dice che a due anni ero già in grado di fornire un discreto accompagnamento. Ad onor del vero un po’ ci credo perché con mio figlio è stata un po’ la stessa cosa: a due anni era in grado di swingare; ho un filmino in cui suona la batteria ed è stato visto da alcuni importanti batteristi americani che non credevano all’età del bimbo. Comunque a cinque anni mi sono avvicinato al pianoforte avendo sempre l’improvvisazione come matrice di base”.

Che tipo di studi hai fatto?
“Classici. Nella musica classica devi avere la fortuna di trovare un buon insegnante: quando un maestro si accorge di avere un allievo molto creativo, personale, con un talento evidente, deve riuscire a lasciarlo libero. Da questo punto di vista sono stato abbastanza penalizzato da piccolo: già leggevo le sonate di Beethoven, quelle difficili, ma mi veniva proibito di suonarle. Io penso che ciò sia fondamentalmente sbagliato. E’ chiaro che non poteva esserci una esecuzione da concorso ma un bambino di nove, dieci anni che legge le sonate di Beethoven ripeto quelle difficili a partire cioè dall’op.53, deve essere lasciato libero di eseguirle. Altra stupidaggine quella di limitare i movimenti corporei: mi ricordo che quando suonavo Bach entravo in una specie di trans e mi muovevo in modo circolare proprio perché sentivo delle sensazioni che esprimevo anche attraverso il corpo. Tutto questo veniva criticato; mi si diceva “stai suonando Bach non Chopin” perché chiaramente ci si muove a seconda della partitura…poi mi capitò di vedere Glenn Gould…e a quel punto mi consolai un po’ ”.

E adesso quale reverenda età hai raggiunto?
“Ben trentacinque”.

Ma gli studi classici li hai ultimati?
“All’età di ventiquattro anni ho avuto la fortuna di incontrare una pianista eccezionale, allieva di Franco Scala della prestigiosa accademia di Imola, Irene Inzerillo. Con lei ho fatto un percorso di quasi due anni: ho del tutto interrotto l’attività concertistica per andare ogni giorno a lezione da lei; erano delle lezioni particolari: ad esempio mi dava sei giorni di tempo per imparare a memoria sei studi di Chopin e poi la domenica dovevo eseguirli, sempre a memoria, magari davanti a dei suoi colleghi. Era quindi molto stressante ma mi è servito moltissimo perché ho davvero scoperto molti segreti del pianoforte. Da allora in poi mi sono avvicinato allo strumento in modo molto più consapevole”.

Ti sei diplomato al Conservatorio?
“Fortunatamente l’ho mollato al quarto anno. E dico fortunatamente perché dopo qualche tempo ho sentito i miei vecchi colleghi di corso e quasi nessuno suonava più, chi affetto da tendinite chi privo di voglia. Devo dire che i miei hanno avuto con me molta pazienza perché sin da giovane ero molto critico nei confronti dei miei insegnanti e del metodo seguito e mai hanno cercato di tarparmi le ali. In compenso mi sono diplomato in conservatorio con il massimo dei voti, ma in strumenti a percussioni”.

Già, perché tu sei anche un ottimo batterista. Come concili le due cose?
“In modo molto naturale: per me lo strumento è solo un mezzo per esprimere quello che ti frulla in testa musicalmente. Questo genere di approccio fisico e mentale mi permette di avvicinarmi a qualsiasi strumento la mia curiosità mi spinga a studiare. Lo stesso approccio fisico che si basa su rilassatezza e utilizzo del peso del corpo che è parte basilare del mio modo di suonare il piano è ugualmente fondamentale per la batteria e questo fa si che suonare la batteria mi risulti naturale”.

Hai inciso qualche album come batterista; e più in generale ti esibisci spesso ai tamburi?
“Quando il progetto mi piace la suono molto volentieri. Ho avuto la fortuna di suonare la batteria con grandissimi musicisti come Dado Moroni, Gwilem Simcock, Yuri Goloubev, Pietro Ciancaglini, Paolo Recchia, Stefano D’Anna e di partecipare a dei progetti molto belli quando abitavo a Palermo, con il trio di Fabrizio Brusca e i progetti di Francesco Guaiana e Luca Lo Bianco artisti palermitani dalla personalità molto forte; poi ho fatto anche molta big Band,con L’orchestra jazz del conservatorio di Palermo, con la OMC orchestra e l’orchestra jazz siciliana”.

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Intervista a Claudio Donà: con la Caligola, 20 anni spesi bene…

Dona e CD dona Listener

Con Claudio Donà, critico, dal 2006 insegnante di Storia del Jazz al Dipartimento Jazz del Conservatorio F.Venezze di Rovigo, ma soprattutto produttore, anima e corpo della Caligola Records, ci conoscevamo da molto tempo ma per quelle strane cose che accadono nella vita, non ci eravamo più visti da quasi vent’anni. Ritrovarsi a Udine, in occasione del Festival di cui “A proposito di jazz” ha già abbondantemente riferito, è stata, quindi, una splendida occasione per rinverdire vecchie storie e soprattutto per parlare a lungo della sua amata “creatura” , la “Caligola”.

Cominciamo con una serie di numeri e date: quando è nata l’etichetta Caligola?

“L’etichetta è nata nell’estate del 1994, coma una sorta di filiazione dell’associazione culturale Caligola, di cui io facevo parte e che era stata fondata addirittura nel 1980. Quest’anno, quindi, festeggiamo il ventennale dell’etichetta mentre l’anno prossimo saranno 35 gli anni di attività dell’associazione”.

Quanti titoli avete prodotto?

“Abbiamo superato quest’estate i 190 dischi, lavori in cui sono stati impegnati circa 500 musicisti. Non proprio pochi. Siamo comunque realmente indipendenti, ovvero anche editori dei nostri musicisti, soltanto dal 2003”.

Ma come ti è venuta quest’idea “malsana” di creare un’etichetta di jazz?

“Come ti dicevo, io facevo già parte dell’associazione Caligola e grazie a questo, organizzando moltissimi concerti, avevo l’opportunità di conoscere dietro le quinte i musicisti, che poi spesso mi capitava di re-incontrare anche come critico, sia del quotidiano “Il Gazzettino” (con cui ho collaborato dal 1980 al 2010), sia soprattutto della prestigiosa rivista “Musica Jazz” (qui la collaborazione è durata dal 1978 al 2002). Creare un’etichetta discografica è stato quasi un fatto naturale: molti musicisti mi chiedevano ‘ascolta questo nastro, ascolta questa bella cosa che ho registrato’ e, in un momento in cui il disco ancora funzionava, anzi eravamo in piena esplosione del fenomeno compact–disc, abbiamo colto una ghiotta occasione che ci si è presentata. Abbiamo così stampato, nel luglio del 1994, il “numero 1” del catalogo. E’ stata quasi una sfida: era un nastro che Materiali Sonori di Firenze aveva rifiutato a Marcello Tonolo e che, viceversa, io trovavo bellissimo, jazz davvero di grande spessore. Si trattava di una registrazione in studio della Keptorchestra, una splendida big–band che allora annoverava alcuni tra quanti, nel giro di pochi anni, sarebbero diventati dei “grandi” del jazz italiano, musicisti del calibro di Marcello e Pietro Tonolo, Roberto Rossi, Sandro Gibellini, Piero Odorici, Maurizio Caldura, Giampaolo Casati, Marco Tamburini, solo per fare qualche nome … ed in più, come ospite speciale, nientemeno che Steve Lacy. Io me ne innamorai subito, ed è così cominciata la nostra sfida, che continua ancor oggi. Il disco, oggi fuori catalogo e che spero presto di poter ristampare, si intitolava «Sweet Sixteen», Caligola numero 2001….. La ”Odissea nello Spazio”, film che da ragazzo mi aveva entusiasmato, era finalmente diventata realtà …”.

Ti sei mai pentito di questa scelta?

“No, sostanzialmente no … Altrimenti oggi non sarei qui a raccontare dell’etichetta. Confesso che ho avuto dei momenti difficili, di vera crisi, momenti in cui ti chiedi chi te lo fa fare. Oggi, con la conclamata e crescente crisi del disco tutto è ancora più difficile, e quindi ti prende lo sconforto quanto ti rendi conto di non poter ritagliare dall’attività discografica ed editoriale (siamo anche editori musicali) dei margini economici da re–investire in produzioni nuove e originali. Siamo sempre appesi alle co–produzioni fatte con i musicisti, che comunque ci regalano spesso grandi soddisfazioni. Ci viene in aiuto sicuramente la fantasia, e la possibilità di poter spesso utilizzare delle buone registrazioni “live”. Sono davvero poche le cose che riusciamo a produrre in modo autonomo, da soli. Riusciamo comunque a sopravvivere perché siamo anche editori musicali, in quanto con i dischi che, come ben sai, non si vendono più, sarebbe quasi impossibile andare avanti”.

Come valuti la situazione del jazz in Italia in questo particolare momento?

“Si sta verificando una situazione diametralmente opposta a quella che ho vissuto negli anni ’80 ed in parte anche nei ‘90. Allora c’erano pochi jazzisti italiani di grande valore, a fronte di un vero e proprio boom di festival e rassegne, e di una buona dose di incentivi pubblici: insomma c’erano per gli artisti buone possibilità di lavoro. Se un grande solista americano veniva in Italia, aveva a disposizione non più di una decina di sezioni ritmiche affidabili con cui suonare. Oggi, al contrario, ci sono moltissimi musicisti ben preparati, talentuosi, alcuni bravissimi; i conservatori hanno aperto al jazz ma la situazione generale è completamente cambiata: la crisi ha avuto effetti pesantissimi soprattutto sulla musica dal vivo, ha provocato una drastica riduzione dei finanziamenti pubblici e quindi una contrazione delle possibilità lavorative per i jazzisti. Una cosa che mi stupisce è che la gran parte dei musicisti, nonostante il disco – come si diceva – sia per molti già un oggetto di antiquariato, non venda praticamente quasi nulla, continui a considerarlo indispensabile, per cui cercano di convincerci in tutte le maniere a stampare i loro lavori, perché hanno comunque bisogno del disco per promuoversi. Il ruolo che una volta era della cassetta promozionale, fatta in casa, ora è ricoperto dal Cd, anche perché i costi di produzione si sono notevolmente abbassati”.

Che significa, quindi, produrre jazz oggi in Italia?

“Affrontare una grande sfida: bisogna credere fortemente in questa musica, avere una passione viscerale, essere in grado di combattere una concorrenza spietata, stare sempre con le orecchie bene aperte, dato che all’orizzonte appaiono sempre nuovi musicisti interessanti e saper ‘combattere’ affinché nell’ambito di quei pochi finanziamenti pubblici ancora destinati alla cultura, la musica e in particolar modo il jazz possano ritagliarsi una fetta sempre più consistente”.

In buona sostanza, mi stai dicendo che, per quanto concerne la “torta” dei finanziamenti le cose sono peggiorate anche perché la maggior parte degli stessi continua ad andare in direzioni diverse dal jazz…

“Questo purtroppo è un problema annoso, ben lungi dall’essere stato risolto. Ed è una situazione paradossale, in quanto molti conservatori sono letteralmente mantenuti in vita dalla presenza di studenti di jazz, altrimenti sarebbero costretti a chiudere. Si arriva così all’assurdità che l’Istituzione didattica ha finalmente riconosciuto il jazz come materia degna di essere insegnata nei conservatori – noi addetti ai lavori siamo diventati quindi tutti più ‘istituzionali’ – mentre gli enti pubblici, che dovrebbero finanziare la programmazione culturale, stanno sempre più diminuendo le risorse destinate alla musica jazz. Esattamente il contrario di quello che succedeva più di dieci anni fa”.

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Esce nuovamente per El Gallo Rojo Records il terzo album dell’avventuroso sestetto JÜMP THE SHARK

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Un progetto longevo (attivo dal 2008), spericolato ed estroso, questo è JÜMP THE SHARK, guidato dal sassofonista veneziano Piero Bittolo Bon, frequentatore durante la sua carriera di stili molto diversi, e in grado di sintetizzarli in una musica appassionata e vibrante, concentrata eppure libera.

Dopo il grande successo riscosso dai due album precedenti, editi da El Gallo Rojo Records – “SUGOI SENTA! GATTA!!” (2009) e “OHMLAUT” (2011) –, esce in questi giorni per la stessa etichetta anche “IUVENES DOOM SUMUS”, già disponibile su iTunes (https://itunes.apple.com/us/album/iuvenes-doom-sumus/id900934656) e sui maggiori portali di distribuzione digitale. Il cd in formato fisico sarà diffuso dai primi di settembre.
Questo disco è frutto di una campagna di crowdfunding lanciata a fine 2013 ed ha visto la partecipazione di ben 52 sostenitori; è altresì il risultato di un’ulteriore evoluzione della musica e dell’interplay del gruppo, meno votata al solismo e improntata invece all’integrazione di un approccio liquido alla rigidità della forma e della composizione, tutto questo senza sacrificare il più che umano bisogno di appoggiarsi qua e là ad una melodia da poter fischiettare.

Il sestetto è composto da alcuni tra i più creativi musicisti del jazz di oggi, che mantengono immutata la loro partecipazione: sono, oltre al leader Bittolo Bon (anche al clarinetto e al flauto), il vibrafonista Pasquale Mirra, il chitarrista Domenico Caliri, Danilo Gallo al contrabbasso, Federico Scettri alla batteria ed il trombonista e sousaphonista tedesco Gerhard Gschlössl.

Terreno fertile per la personale scrittura di ogni singolo componente di JÜMP THE SHARK è la cognizione che nasce dalla combinazione di due mondi sonori diametralmente opposti ma similmente acidi, ossia quelli creati dalla chitarra elettrica e dal vibrafono che si uniscono ad una sezione ritmica dalle mille sfaccettature, capace di ancorarsi anche a dei solidi groove. Questo consente ad una front-line a geometria variabile formata da ance e trombone/sousaphone di sfruttare appieno tutta la potenza di fuoco ritmica e melodica a propria disposizione.

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Alessandro Florio Trio feat. Alberto Gurrisi & Bill Panagiotopoulos

Il trio guidato dal chitarrista Alessandro Florio, arriva sulla Costiera Amalfitana con due straordinari e talentuosi musicisti, Alberto Gurrisi all’organo hammond e il greco Bill Panagiotopoulos alla batteria.

I tre musicisti martedì 5 agosto, saliranno sul palco di Largo Duchi Piccolomini di Amalfi in occasione dell’Amalfi Young&Jazz Festival 2014 (ingresso libero). Mercoledì 6 agosto, invece, tappa a Ravello, città della musica, dove l’Alessandro Florio Trio si esibirà nel celebre Club “Le Mosaique”, al bordo della piscina dell’hotel Giordano, per una serata da non perdere (inizio ore 21,30 – ingresso 15 euro comprensivo di consumazione). Unito dall’amore per il Soul Jazz americano e dalle comuni radici mediterranee dei tre musicisti, il trio esplora in maniera swingante brani originali e standard con un approccio tradizionale e allo stesso tempo innovativo. Tre giovani musicisti con percorsi professionali internazionali che straordinariamente in questa occasione incrociano le proprie strade e i propri progetti da solisti per dare vita ad una serata di grande jazz proponendo famosi standard di Thelonious Monk e brani originali di impronta Monkiana a firma di Alessandro Florio, tratti dal suo ultimo album intitolato “Taneda”.

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Vi parlo di Giorgio Gaslini

Giorgio Gaslini al piano

Giorgio Gaslini – pianista, compositore, didatta, intellettuale – è scomparso il 29 luglio e lo ricorda il nostro direttore Gerlando Gatto.

Io vorrei parlare della sua forte, caratterizzante presenza nel jazz (e nella musica tout-court) italiana ed europea, presenza che non è mai venuta meno anche negli ultimi due anni quando, di fatto, Gaslini si era come ritirato dall’attività diretta e dai concerti. La indagherò a partire da tre fatti concreti.

L’etichetta CamJazz, alla fine dell’anno scorso, ha ristampato e pubblicato in cofanetto tutti gli album realizzati dal pianista-compositore per l’etichetta “Dischi della Quercia” che aveva fondato: un mare di musica dal 1976 al 1985 creata insieme a Gianni Bedori, Bruno Tommaso, Andrea Centazzo, Gianluigi Trovesi, Paolo Damiani, Roswell Rudd, Eddie Gomez… Intanto l’intuizione di Giorgio Gaslini di creare un’etichetta da poter gestire in totale autonomia e ciò nel 1976, poco prima che nascessero Black Saint e Soul Note e, più o meno, in contemporanea alla Red Records. Da artista – e da uomo pragmatico, decisionista ed operativo qual era – il pianista volle rendersi discograficamente autonomo e libero. Aveva inciso dal 1948 per la Voce del Padrone, i Dischi del Sole, la Durium, Produttori Associati, edizioni del Movimento Studentesco, Horo records, PDU.

La ristampa della CamJazz (che ha acquisito il catalogo Dischi della Quercia, insieme a Black Saint / Soul Note) mostra in prospettiva storica la musica di Gaslini ma ne evidenzia i caratteri di attualità, come il forte impegno socio-politico. I dischi sono “Murales” (un live del 1976 con Bedori, Bruno Tommaso e Centazzo), “New Orleans Suite” (sempre del 1976 registrato negli Usa al Jazz Heritage Festival in quartetto). Si prosegue con “Free Actions” del 1977 per sestetto (Gianluigi Trovesi, Bedori, Paolo Damiani, Gianni Cazzola e Luis Agudo) una suite che l’autore introduceva con questi versi: <<Un pugno nel buio rivela / un viso bagliori di ironia / una risata zittisce un supermarket / un’aria su una corda tesa / spacca il tempo e prepara / libere azioni>>. Ancora nel 1977, e con la stessa formazione, “Graffiti”, una suite “militante” abbinata con “Alle fonti del jazz”, riflessione sulle melodie popolari afroamericane ed italiane. I Dischi della Quercia servivano anche a fissare su vinile gli incontri con jazzisti americani ed ecco gli album con il trombonista Roswell Rudd (“Sharing”, 1979), il contrabbassista Eddie Gomez (“Ecstasy”, 1981) ed il polistrumentista Anthony Braxton (“Four Pieces”, 1982). Nel cofanetto sono altresì documentati l’attività di scopritore di talenti e, quindi, didattica di Giorgio Gaslini (il primo ad introdurre il jazz nei conservatori di Milano e Roma nel 1972, in modo sperimentale) e i suoi innumerevoli viaggi. “Indian Suite”  e “Monodrama” (entrambi del 1983 e per ottetto) vedono coinvolti giovani jazzisti come la cantante Francesca Olivieri, il trombettista Fabio Morgera,  i sassofonisti Claudio Allifranchini e Maurizio Caldura, il vibrafonista Daniele Di Gregorio, i contrabbassisti Piero Leveratto e Giko Pavan, il batterista Paolo Pellegatti. Il “Live at the Public Theater in New York” (1980; quintetto con Bedori, Trovesi, Marco Vaggi e Cazzola) e “Skies of China” (1985, con il New Quartet: Allifranchini, Leveratto, Pellegatti) raccontano le esperienze negli Usa e in Cina, dove Giorgio Gaslini fu tra i primi jazzisti al mondo ad essere stato invitato.

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