Zanella emoziona. Debarre trascina

Quartetto Enrico Zanella

Quartetto Enrico Zanella

 

Cos’è un concerto? A mio avviso, quando è ben riuscito, è una narrazione, il racconto di un fatto, di una situazione, di uno stato d’animo, di una sensibilità. Ebbene, nel set con cui l’ “EZ Quartet” di Enrico Zanella ha aperto il doppio concerto di lunedì 2 febbraio al Teatro Fabbri di Vignola, tutti questi elementi erano ben presenti. Certo, la narrazione, per essere valida, deve basarsi su qualcosa di artisticamente serio e deve essere ben condotta. Insomma, uscendo dalla metafora, un concerto può dirsi ben riuscito quando le musiche sono di livello e sono ben eseguite.

Ecco, devo confessare che il concerto di Zanella, chitarrista emiliano, mi ha sorpreso soprattutto dal punto di vista compositivo. Ho trovato le sue composizioni fresche, originali, e soprattutto perfettamente aderenti al progetto presentato, a differenza di molti suoi illustri “colleghi” i quali dedicano i loro album a personalità politiche per chiara “captatio benevolentiae” senza che poi la loro musica trovi alcun riferimento valido nel personaggio evocato. Il quartetto si è invece mantenuto nel solco di una perfetta coerenza proponendo un repertorio basato essenzialmente sui brani contenuti nel CD “I bambini non sanno”, un album assai gradevole dedicato ai più piccoli a dimostrazione della sensibilità di un musicista, di un uomo che, non a caso, si impegna fortemente anche nel sociale.

I brani di Zanella sono tutti ben costruiti, equilibrati, sinceri, a volte addirittura toccanti come “Lacrime di un infante”. Il concerto ha così seguito un suo preciso filo rosso con Giovanni Po (chitarra ritmica) a presentare con poche ma acconce parole i vari brani che hanno suscitato (e non poteva essere diversamente) sinceri applausi dal pubblico purtroppo non particolarmente numeroso (ma come già detto in altre occasioni, gli assenti hanno sempre torto).

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“OPEN IMPROVISATION” WORKSHOP + CONCERTO con Elena Camerin e Khabu Young. Il 15 febbraio presso Spazio Aereo, Mestre (VE)

La Scuola di musica “Thelonious Monk” di Mira (VE) in collaborazione con Spazio Aereo presenta un doppio appuntamento all’insegna del jazz con due musicisti e docenti d’eccezione che si muovono tra l’Italia e gli USA: Elena Camerin e Khabu Young.

Inserito nel ciclo “Power Acoustic Sunday” (https://www.facebook.com/events/317860588418420/), il workshop+concerto si terrà domenica 15 febbraio presso la sede di Spazio Aereo (Mestre, via Industrie 27/5) alle ore 13.00.

“Open Improvisation” verterà sull’improvvisazione libera. Il corso-seminario è rivolto non solo a musicisti, ma anche ad attori, poeti e danzatori, a chiunque voglia potenziare la propria libertà espressiva e condividerla con un gruppo più ampio ed eterogeneo. I partecipanti, provenienti da ambiti ed esperti di discipline diverse possono trovare così un terreno comune per approfondire e far nascere momenti di libera espressione attraverso la consapevolezza del flusso creativo.

Il workshop terminerà con un concerto di corsisti e docenti alle ore 18.00.

Seguiranno
*alle 19.00 il live-set di Sho-Shin, duo composto da Riccardo Marogna (clarinetto, clarinetto baso, electronics) e Riccardo La Foresta (batteria) – http://riccardomarogna.tumblr.com/post/102607881441/sho-shin
**alle 21.00 il concerto del duo Camerin-Young e jam session fino a tarda notte, come di consueto!

Per iscrizioni e informazione riguardanti il workshop, contattare la segreteria della Scuola di musica “Thelonious Monk” (3460809542, Pascale).

Ingresso a Spazio Aereo riservato ai soci ARCI.

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Classica. Rhapsódija Trio: il canto del dissidente

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La parola klezmer nasce dall’unione di kley e zemer: canto e strumenti. Il termine indica il genere musicale tradizionale delle comunità ebraiche dell’Europa orientale poi disperse in tutto il mondo. In esso possiamo scorgere il tratto di un’unione ma anche il presagio di una lacerazione: canto e strumenti come corpo e anima o come prigione e fuga?

La coesistenza di sentimenti opposti è del resto una sigla di questa musica vitale e disperata. Nella tormentosa storia del popolo ebraico l’attacco più micidiale non fu solamente sferrato contro le persone ma anche, forse soprattutto, contro il loro linguaggio. Come si sa, infatti, la lingua ebrea tedesca, l’yiddish, scomparve praticamente dall’Europa orientale dopo la seconda guerra mondiale.

Se il popolo rappresenta il corpo biologico di una nazione, per quanto in questo caso frammentato in una diaspora dolorosa, la sua vera casa è il linguaggio. Ogni popolo abita il proprio linguaggio e da esso è abitato: nella sua memoria brulica un muto, incessante colloquio con i propri antenati. Colpendo la parola, le persone si indeboliscono, si toglie loro la gioia del vivere e questa infamia, da che mondo è mondo, i persecutori di ogni estrazione e talento hanno saputo metterla in pratica molto bene, sempre.

Per me la musica, oltreché anzitutto un modo di vivere, è anche la consapevolezza più alta della possibilità di un linguaggio; essa particolarmente può esprimere l’inesprimibile, l’ineffabile dice Jankélévitch, e in tale slancio vedo racchiusa la possibilità stessa della conoscenza. Forse anche della felicità?

In una civiltà fondata sulla parola, come quella ebraica, proprio la musica assume un rilievo paradossalmente centrale, poiché in grado di sublimare il verbo e trascenderlo nella meraviglia dei sogni, dell’arte.
Una sera di tanti anni fa ebbi modo di assistere al concerto di un trio straordinario che mi fece conoscere tutto questo attraverso una rappresentazione fatta sì di suoni ma anche di molto altro.

Nella vita ci è dato ascoltare tanta musica: bella, brutta, spesso orribile (Sanremo è alle porte, una bomba mediatica sta per essere fatta brillare sopra le nostre teste…).

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