Classica. Alvin Curran: ecstatic love calls

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Non so se siete come me appassionati di cinema. Spero di si, perché la settima arte è, insieme alla musica se non di più, la nostra grande consolazione.

Se mi chiedessero di descrivere il mio ideale di cinema, piuttosto che pensare a un autore specifico o a un film, cosa per me  troppo difficile – me ne verrebbero in mente  almeno venticinque tutti insieme – ricorrerei alla seguente immagine.

Riuscite a figurarvi la fine del mondo? Che sembri tratta da un racconto di Philip K. Dick: deserto, improvvisamente sono tutti scomparsi. Immaginiamo di trovarci in una grande città, come all’inizio di “Abre los ojos” di Alejandro Amenábar…

Forte vento ovunque e non un uomo in giro… soltanto animali a scorrazzare, liberi, per strade fantasma. Una vetrina di schermi televisivi però continua, finché resterà energia sufficiente, a trasmettere un film. Alcuni di essi (daini, cervi, fate voi) si fermano incantati di fronte a quelle immagini che continuano a scorrere, incuranti del disastro avvenuto nel mondo reale: come calamitati, lì rimangono, incapaci di proseguire.

Questo il mio ideale di cinema: immagini tanto forti da poter vivere a prescindere dal corredo della prosa, capaci di suscitare emozioni da cui persino gli animali non possano distogliere lo sguardo.

Questa premessa per spiegare l’impressione che suscita in me la musica di Alvin Curran e la sua poetica. Esse vanno in questa direzione.

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