Le magie dell’organetto diatonico nelle mani di Riccardo Tesi

Banditaliana 1

Ho conosciuto Riccardo Tesi ad Alghero quando nel 1994 assieme, tra gli altri, ad Enzo Favata, Marcello Peghin, Federico Sanesi diede vita a “Islà” uno degli album, a mio avviso, più belli del sassofonista sardo.

L’ho ritrovato, dopo tanti anni, il 20 marzo scorso al Baobab di Roma inserito nel contesto del “Festival Popolare Italiano – Canti e corde, mantici e ottoni) che si concluderà il 24 aprile.

Tesi si è presentato con la sua Banditaliana completata da Maurizio Geri (voce solista e chitarra), Claudio Carboni (sassofonista dal fraseggio vicino ora al liscio ora a certe espressioni jazzistiche) e Gigi “FastFoot” Biolcati funambolico percussionista che suona scalzo, cui si sono aggiunti Stefano Saletti all’oud in un brano e l’altro organettista, giovane ma bravissimo, Alessandro D’Alessandro in un secondo pezzo. In repertorio soprattutto i brani tratti dal nuovo album “Maggio” uscito il 19 maggio scorso distribuito da Believe Digital; si tratta del quinto CD di Banditaliana e bissa il successo ottenuto nel 2011 con “Madreperla”.
Ma quali i motivi di tanto successo? La risposta è venuta forte e chiara dal concerto di Roma cui si faceva riferimento in apertura. Tesi e compagni hanno messo in mostra tutto ciò che costituisce la cifra stilistica del gruppo, vale a dire una musica che non conosce confini, una musica dove si avvertono echi non solo di luoghi lontani ma anche riferimenti stilistici provenienti da mondi musicali estremamente differenziati. Non a caso Banditaliana ha collaborato da un lato con la straordinaria brass band balcanica Fanfara Tirana, dall’altro con Alessandro Lanzoni unanimemente considerato uno dei più promettenti pianisti jazz italiani e lo stesso Tesi è stato tra gli altri l’organettista di Ivano Fossati e di Fabrizio De Andrè nel suo ultimo “Anime Salve”.

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Giampiero Rubei. Un pezzo di storia del jazz che se ne va

Giampiero Rubei

La scomparsa di Giampiero Rubei non ha colto di sorpresa il mondo del jazz: da tempo non stava bene, lo si vedeva, ed una ripresa compiuta, totale non arrivava. Egli stesso negli ultimi tempi diceva di non sentirsi al meglio. L’anno scorso un ricovero in ospedale; a metà marzo ancora un ricovero e quindi l’esito fatale.

Come sempre accade in questo nostro meraviglioso e ipocrita Paese, all’indomani della sua dipartita abbiamo letto solo pezzi elogiativi. Tutti hanno fatto a gara a sottolineare gli indubbi meriti che Giampiero aveva acquisito come protagonista del jazz nazionale e romano in particolare. Così è stato ricordato come a lui si dovesse, nel 1984, l’apertura di quel jazz-club – l’Alexanderplatz di via Ostia, nel quartiere Prati – che nel breve volgere di qualche anno sarebbe divenuto uno dei locali più importanti dell’intero Paese, una sorta di tempio del jazz da cui, non a caso, sarebbero transitati i più importanti jazzisti internazionali tra cui ci piace ricordare Chet Baker, Chick Corea, Wynton Marsalis, Benny Golson, Michel Petrucciani, Michael Brecker, Joshua Redman, Joe Lovano… Per non parlare dei musicisti “nostrani” che proprio all’Alexanderplatz hanno avuto modo di mettersi in luce e che hanno continuato a frequentare anche da artisti affermati; l’elenco è lungo, troppo lungo per cui basta citare i nomi di Stefano Di Battista, Ada Montellanico, Roberto Gatto, Danilo Rea, Antonello Salis, Riccardo Fassi, Mario Raja, Nicky Nicolai… e non a caso molti di questi, unitamente ad alcuni “veterani” quali Marcello Rosa e Gegè Munari, erano presenti ai funerali svoltisi il 4 aprile scorso.

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