Classica. “The Yellow Shark” di Frank Zappa: Genius dimension

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Si sente spesso domandare se il rock sia finito. A me sembra di dover dissentire dai tanti profeti di sventura che prefigurano un futuro senza musica.

Che si sia circondati da tanta musica imbecille è indubbio; tuttavia la fine di quest’arte mi sembra lontana. Piuttosto occorrerebbe chiedersi, a proposito di qualsiasi genere musicale, se questo sia latore di energia creativa nuova oppure no.

Sono convinto che una parte limitata del rock si possa tranquillamente accostare a Bartòk e Stravinsky sebbene una canzone, per quanto elaborata, non possa avere lo stesso arco espressivo di una sinfonia.
Il rock è una musica popolare ma c’è una bella differenza tra lo sfruttare il pubblico con operazioni commerciali e conquistarlo con la forza pura delle idee, come ha fatto Frank Zappa. Che ci manca. Moltissimo. Con la sua scomparsa, avvenuta a Los Angeles il 4 dicembre 1993 la scena “del musicale”, per dirla con Elio, si è fatta un po’ più triste, la luce si è, come dire, affievolita.

Volendo sintetizzare in un giudizio riassuntivo e globale la ricchissima produzione zappiana, non possiamo non sottolineare l’estrema coerenza che ne ha sempre accompagnato l’attività. Una coerenza vissuta in prima persona contro un mondo nel quale le parole sembrano essere più importanti dei fatti.

Dall’esordio con il doppio album Freak Out! pubblicato nel 1966 grazie a Tom Wilson, produttore tra gli altri di Bob Dylan e John Coltrane, attraverso molti progetti geniali come Läther uscito nel 1996 o Guitar, Zappa è stato lungo tutto l’arco della vita, minata purtroppo da una salute cagionevole, un paladino dell’ironia: la sua musica sorride sempre e superbamente delle mode, dei conformismi socio-artistico-culturali di ogni tempo.

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Villa Durio: recital della pianista Patricia Pagny

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Dopo il “tutto esaurito” della bellissima apertura di domenica 12 aprile con il Rhapsodija Trio la ventinovesima edizione di “Musica a Villa Durio” prosegue con un concerto davvero speciale, intitolato “Invito alla danza” .

Tale concerto avrà luogo domenica 19 Aprile, sempre nella sede storica di Villa Durio, a Varallo, e avrà come protagonista una pianista davvero straordinaria: Patricia Pagny. L’artista eseguirà opere di Domenico Scarlatti, Franz Schubert, Lili Boulanger, Claude Debussy, Ludwig van Beethoven, e del grande compositore argentino Alberto Ginastera.

Le grandi scene internazionali apprezzano le interpretazioni di Patricia Pagny per il suo particolare approccio alla musica e la sua innata sensibilità per il colore del suono.

Allieva, fra gli altri, di Nora Doallo, Nikita Magaloff, Maria Joâo Pires e Paul Badura-Skoda, Patricia Pagny si è distinta in grandi concorsi internazionali qualificandosi come finalista nei Concorsi di Marsala e nel “Clara Haskil” di Vevey in Svizzera, vincendo successivamente il Concorso Internazionale “Alessandro Casagrande” di Terni. Oggi la sua carriera la porta ad esibirsi in grandi sale da concerto come la Chicago Orchestra Hall, la Wigmore Hall, la Salle Pleyel, la Herkulessaal di Monaco di Baviera, la Philharmonie di Berlino, la Kyoto Concert Hall avvalendosi della collaborazione di direttori, colleghi e orchestre sinfoniche di grande prestigio. I suoi concerti con Sir Georg Solti e la Chicago Symphony, con Lord Yehudi Menuhin e la Sinfonia Varsovia, Uri Segal, Marcello Viotti e tanti altri, hanno sempre riscosso i consensi della critica e l’entusiasmo del pubblico, cosí come la sua ricca produzione discografica per Novalis. Il suo CD dedicato a Mendelssohn è stato prescelto nel 2007 dal “Top 5” per Arte-Tv.

Patricia Pagny è Professore all’Università di Berna in Svizzera   – Hochschule der Künste Bern –  e insegna pianoforte e musica da camera agli studenti di perfezionamento iscritti  ai Masters. Assume inoltre la direzione artistica della “Tasti’Era-Projects” (www.tastieraprojects.com) che permette alla nuova generazione di posizionarsi in un modo più attuale ed innovativo nel concertismo odierno e nel mondo dello spettacolo in generale. Secondo il giudizio dei critici, lo stile della Pagny, estremamente personale, coniuga il virtuosismo con interpretazioni talvolta infuocate o ricche di sonorità raffinate, ma sempre pulsanti di energia vitale. La sua tecnica curata nei minimi particolari e la sua eccezionale agilità digitale le consentono di approfondire aspetti interpretativi  inesplorati, mantenendo però quel giusto equilibrio che rende le sue scelte sempre chiare, strutturate e finemente cesellate.

Un momento importante della sua carriera fu l’incontro con Sir Georg Solti che si espresse in questi termini nei confronti della pianista: “Ero a Parigi.. ero stanco; ascoltare un altro pianista era veramente l’ultima cosa che desideravo in quel momento. Ma appena iniziò a suonare, rimasi davvero sbalordito. Ah, questo è veramente eccellente, mi dissi. Sei mesi più tardi, ebbi la possibilità di invitarla a Chicago. Fu un grande successo”. La Pagny poté in questo modo  estendere la sua attività nel Nord America e conseguì un successo entusiastico eseguendo il secondo concerto di Mendelssohn con la Chicago Symphony Orchestra diretta dal Maestro. “…sentiremo senz’altro parlare nuovamente di questa eccellente giovane pianista…” scrisse la Chicago Tribune. “Patricia Pagny is a most talented musician and deserves all possible encouragement to develop her career”, aveva affermato lo stesso Solti, dopo averla nuovamente scritturata alla Wigmore Hall di Londra  e al prestigioso Festival di Zurigo (Zürcher Festspiele 97).

 

Il concerto di domenica 19 aprile avrà inizio a Villa Durio alle ore 17,30. Informazioni al numero 0163562711 oppure scrivendo a associazione24@tiscali.it.

Guida all’ ascolto: “La chitarra nel Bebop”

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Martedì scorso si è svolta quella che nel gergo televisivo si chiama la “puntata zero” di un potenziale nuovo ciclo di Guide all’ ascolto di Gerlando Gatto . Il nuovo ciclo si potrebbe tenere in uno spazio che al Jazz sembra congeniale, il teatro Keiros di via Padova, 70 posti ed un palco spazioso, circondato dai posti a sedere che lo accerchiano, come nei Jazz Club più prestigiosi.

Questo appuntamento “sperimentale” (come location e non certo come contenuti) ha visto come protagonista la chitarra Be Bop, e Gerlando Gatto ha replicato la fortunatissima formula che struttura questi affascinanti viaggi nella musica, che non sono solo sterilmente didascalici: ai racconti, sempre ricchi di aneddoti e di informazioni , agli ascolti di brani spesso rari si affianca un solista che con i suoi live rende reali le suggestioni di cui si parla.

Questa volta il musicista che ha affiancato Gatto è stato il chitarrista bop Nicola Mingo, che come sempre ha padroneggiato in maniera inappuntabile il suo strumento sia tecnicamente che espressivamente, regalando al pubblico l’ esecuzione di brani originali quali “The tumb” e “OGD” di Wes Montgomery” , “So what” di Miles Davis”, ma anche ottimi brani del suo ultimo cd “Swingin” (uscito per l’ etichetta UNIVERSAL): “My bop”, “Black Horse”, per citarne solo due. Mingo ha suonato su basi preregistrate d’ eccellenza: gli stessi suo compagni di viaggio di “Swingin”, niente di meno che Antonello Vannucchi al pianoforte, Dario Rosciglione al basso e Gegè Munari alla batteria, che contestualmente all’ incisione di “Swingin” hanno inciso anche queste preziose e pregevoli tracce su cui Nicola Mingo ha eseguito ed improvvisato con entusiasmo ed energia i brani in programma nella Guida all’ ascolto. 
Gli ascolti registrati hanno aperto la porta sul bebop più prestigioso, quello di Charlie Parker e Dizzy Gillespie (con Groovin’ High”) , Wes Montgomery (Billie’s Bounce) , Tal Farlow (“Blue Lou” ) , tanto per citarne alcuni: e Gerlando Gatto ha fatto intendere da subito in modo molto efficace cosa si intenda per Bebop, aprendo l’ incontro con un brano swing rappresentativo di quel Jazz “bianco” per eccellenza, al quale il “bebop” nero si contrappose, per contrasto, a partire dagli anni 40: “In the mood” cavallo di battaglia di Glen Miller . L’ ascolto subito dopo di “Groovin’ High” ha chiarito prima ancora delle parole di quanta sia stata la differenza espressiva tra le due “correnti”.

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Udin&Jazz festeggia le nozze d’argento

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Uno dei tanti paradossi che affliggono il mondo del jazz italiano – l’abbiamo sottolineato più volte – è che, a fronte di risorse sempre più scarse, il numero dei festival dedicati a questa musica è sempre molto elevato. Ma – questo si potrebbe obiettare – è un bene per il jazz … peccato che molti di questi festival siano assolutamente inutili nella misura in cui non sono supportati da alcuna progettualità limitandosi a mettere assieme una serie di nomi importanti giusto per fare cassetta, senza dare spazio alcuno a musicisti locali.

A questa logica sfugge “Udin&Jazz”, in programma dal 24 giugno al 31 luglio, giunto quest’anno alla sua venticinquesima edizione.

Scorrendo i programmi di questi 25 anni ci si può rendere conto di quanti straordinari artisti internazionali siano passati sui palcoscenici del Festival e soprattutto di quanti gruppi regionali siano stati promossi da Udin&Jazz, mettendo il Friuli al centro della scena musicale nazionale, contribuendo altresì alla nascita di una vera e propria rete di saperi e mestieri legati alla musica jazz.

Non a caso il direttore artistico della manifestazione, Giancarlo Velliscig, può affermare che
“Udin&Jazz festeggia l’edizione d’argento tra stelle del pianoforte e icone della storia della musica mondiale, senza trascurare l’attenzione al territorio e l’attitudine del Friuli Venezia Giulia all’accoglienza. Un’edizione davvero importante, a testimoniare l’eccellenza della manifestazione, la più longeva in regione, e punto di riferimento dell’intero panorama nazionale del jazz”.

Udin&Jazz tocca, quindi, un traguardo fondamentale, e onora il suo 25esimo anniversario con un palinsesto di grosso rilievo.
Oltre 20 i concerti su vari palcoscenici in città e in provincia, concerti che stanno ottenendo un ampio riscontro di pubblico sin dalle prime giornate d’apertura delle prevendite, a cominciare dai due “profeti del Tropicalismo”: Caetano Veloso e Gilberto Gil, ospiti a Villa Manin (con l’Azienda Speciale si rinnova una preziosa collaborazione per questo concerto-evento). Il 19 luglio, unica tappa del Nordest, nuovamente insieme per il concerto: “Two Friends, one Century of Music”, l’esploratore sonoro di Bahia e il passionale tropicalista ripercorrono mezzo secolo di carriera (e di amicizia), un viaggio che ha rivoluzionato la cultura musicale sudamericana e occidentale.

Ed è sui tasti bianchi e neri che si giocano altre eccellenze di questa storica edizione del festival: il primo luglio, al Castello di Udine, sale sul palcoscenico Hiromi. L’acclamata pianista e performer giapponese spopola sulle scene di tutto il mondo per la sua verve improvvisativa e per generosità, rigore e disinvoltura nella ricerca sonora. Con lei l’eclettico chitarrista e bassista Anthony Jackson e il batterista Simon Philips, trio veramente stellare!

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I NOSTRI CD. Novità d’oltre frontiera

I NOSTRI CD

Franco Ambrosetti, Dado Moroni – “Quando m’innamoro… in duo” – Incipit Records 186
Quando m'innamoroCome ho già avuto modo di dire quella del duo è un formula assai rischiosa, forse ancor più del solo: ciò perché l’uno dipende strettamente dall’altro e quindi le possibilità di errore, di incomprensione, magari di semplice disattenzione aumentano in modo esponenziale. Ciò detto va immediatamente precisato che il trombettista elvetico Franco Ambrosetti (qui però al flicorno sovrano) ed il nostro Dado Moroni hanno brillantemente vinto la sfida con una musica di rara eleganza. L’album è tutto incentrato sul songbook di Roberto Livraghi; compositore di La Spezia (classe 1937) Livraghi ha scritto alcune splendide canzoni per vari artisti tra cui ricordiamo “Maria”, cantata da don Marino Barreto Junior, “ Ho sognato d’amarti” per Bruno Martino, “ Coriandoli” (con testo di Leo Chiosso, cantata anche da Mina), “Aiutami a piangere” (testo di Antonella De Simone, portata al successo da Connie Francis e Betty Curtis)…e soprattutto “Quando m’innamoro” che, presentata nel 1968 a Sanremo da Anna Identici ma piuttosto snobbata in Italia, ottenne invece uno strepitoso successo all’estero grazie alle interpretazioni di Engelbert Humperdinck e da ultimo di Andrea Bocelli. Per questo album, ad eccezione della title-track, di Maria e di “Coriandoli”, Ambrosetti e Moroni hanno concentrato la loro attenzione sui brani meno conosciuti di Livraghi. Di qui un album che sotto certi aspetti rappresenterà anche una sorpresa per quanti non conoscono a fondo questo compositore. Ma si dirà: sono solo canzonette…ed è vero. Ma è altresì vero che come ben sappiamo nel jazz il materiale tematico ha un’importanza non decisiva: spesso contano molto di più gli arrangiamenti e l’interpretazione e non v’è dubbio che sotto questi profili la performance dei due è di assoluta eccellenza. Maroni è superlativo sia nel tracciare splendide linee melodiche sia nel disegnare un tappeto ritmico-armonico su cui si stagliano le improvvisazioni di Ambrosetti sempre pertinenti rispetto al tema e pure sempre così originali a dimostrazione di una capacità improvvisativa che non sembra minimamente soffrire l’usura dei tanti anni passati a soffiare dentro il suo strumento.

Jacob Karlzon – “Shine” – ACT 95732
ShineRegistrato nel marzo del 2014 ecco il nuovo album di Jacob Karlzon che si conferma uno dei personaggi più importanti dell’attuale panorama jazzistico svedese. Ben coadiuvato da Hans Andersson al basso e Robert Mehmet Ikiz alla batteria, il pianista presenta un repertorio composto da otto sue composizioni cui si aggiunge la rivisitazione di un brano degli U2 “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” (dall’album The Joshua Tree del 1987). Ancora una volta Jacob evidenzia quelle che sono le sue doti peculiari vale a dire un fraseggio allo stesso tempo fluido e complesso (lo si ascolti in “Metropolis”), la capacità di creare ed eseguire musica assolutamente originale, caratterizzata da un sound particolare (grazie anche ad un uso sobrio e sapiente dell’elettronica), da una incessante carica ritmica, da una rimarchevole complessità armonica e dall’abilità di avvicinare due territori pure diversi e distanti quali il jazz e il pop. Lo stesso Karlzon nelle note che accompagnano l’album dichiara di aver fatto ricorso a metodi di produzione propri del pop. Risultato: arrangiamenti molto ben concepiti che a volte fanno suonare il trio come un’orchestra. Esemplare al riguardo la title track che apre l’album: con il ricorso all’elettronica, Jacob stende un tappeto sonoro che riesce a fornire un supporto costante al trio che ha così la possibilità e di muoversi a piacimento senza preoccuparsi di eventuali vuoti e di esaltare la ricchezza della linea melodica. Molto centrata la riproposizione del brano U2 con Jacob che cesella la dolce melodia in splendida solitudine toccando uno dei vertici dell’album con un fraseggio raffinato ed un tocco di rara eleganza. Ma, nonostante l’eccellente carica ritmica fornita per tutta la durata dell’album dall’accoppiata Andersson – Mehmet Ikiz, Karlson non può dimenticare di essere nord-europeo: ecco quindi riaffiorare in “Inner Hills”, una delle perle più preziose dell’album, quella malinconia tipica della musica scandinava.

Ibrahim Maalouf, Oxmo Puccino – “Au pays d’Alice…” – Mi’Ster IBM 9
Au pays d'AliceProduzione di grande originalità e di notevole spessore questa che vede assieme uno dei migliori trombettisti della nuova generazione e un rapper. Di Ibrahim Maaoluf abbiamo già parlato in questa sede per cui dovrebbe essere abbastanza noto ai nostri lettori. Diverso il discorso per Oxmo Puccino su cui viceversa vale la pena spendere qualche parola di presentazione. Abdoulaye Diarra, in arte Oxmo Puccino, è nato nel 1974 a Ségou, in Mali, e solo un anno dopo i suoi genitori si sono trasferiti in Francia dove Abdoulaye è cresciuto e ha costruito la sua carriera . Rapper oramai di grande successo, Oxmo Puccino è caratterizzato da una scrittura tutta giocata sulle metafore e sulle frasi choc e proprio per questo si è meritata la fama di « Black Jacques Brel ». Ciò detto si tratta di un’accoppiata sulla carta difficilmente proponibile…ma il jazz, ci siamo abituati, fa di questi miracoli ed ecco quindi i due, legati da un’insospettabile sinergia, dar vita ad un album che davvero vale la pena ascoltare. L’opera nasce da una “commissione” ottenuta da Maalouf dal Festival d’Ile de France; Ibrahim ha quindi immaginato uno spettacolo musicale ispirato dall’opera di Lewis Carroll “Alice nel paese delle meraviglie” e, per concretizzare il progetto, ha voluto accanto a sé Oxmo Puccino. Con l’ausilio di un’orchestra classica di 25 elementi e di 130 coristi della “Maîtrise de Radio France” diretti da Sofi Jeannin, Maalouf, qui nella duplice veste di esecutore e compositore, ha concepito questo concept album che presenta momenti spesso di respiro quasi sinfonico anche se qua e là si nota un pizzico di pretenziosità. Comunque Maalouf ha raggiunto, in questo CD, l’apice della sua capacità compositiva evidenziando una straordinaria abilità nel riportare ad un unicum omogeneo le diverse influenze su cui si basa il suo stile: jazz, rock, pop, musica araba, musica contemporanea. Dal punto di vista esecutivo non mancano i momenti di grazia come il suo assolo in “La porte bonheur”. Dal canto suo Oxmo Puccino reinventa la storia di Alice con grande musicalità e soprattutto con emozionante poesia. Molto curata l’impaginazione dell’album con un libretto contenente tutti i testi accompagnati da foto e sapidi disegni.

Gileno Santana – “Metamorphosis” – Caligola 2191
MetamorphosisGileno Santana è un giovane trombettista brasiliano che, nell’occasione, guida un quintetto completato da Miguel Moreira alla chitarra, Joaquim Rodriguez alle tastiere, José Carlos Barbosa al basso elettrico e Mario Costa alla batteria cui si aggiungono, come ospiti d’onore, il vocalist Pedro Vidal nella title track e Andrès Tarabbia alle percussioni presente in sei degli undici brani in programma. Classe 1988 di Salvador da Bahia, Gileno nel 2005 si è stabilito in Portogallo dove ha studiato con João Moreira, diplomandosi al Conservatorio di Lisbona. Divenuto prima tromba della Matosinhos Jazz Orchestra, ha avuto modo di lavorare con Kurt Rosenwinkel e Maria Schneider, e di incidere con Maria Joao. Alla fine del 2011 ha pubblicato il suo primo disco da leader, “Inicio”, in quartetto, con ospite Hamilton De Holanda. Personalmente lo avevamo già ascoltato inserito all’interno del quartetto Polo guidato da Andrea Lombardini e Paolo Porta nell’album “Pleasures” (Auand 2012). A tre anni dal debutto Santana ha inciso questa “Metamorphosis” che ci consegna un artista sicuramente in crescita ma non ancora del tutto maturo. Nell’album c’è molta, forse, troppa elettronica e i richiami a Miles ’69-70 sono sin troppo evidenti. Quindi è un album che sicuramente farà felici quanti amano questo tipo di musica…anche perché gli esecutori sono di tutto rispetto. Non c’è dubbio alcuno, infatti, che Santana sia un trombettista di tutto rispetto, dotato di una tecnica cristallina che sicuramente potrà portarlo lontano. Lo attendiamo, quindi, a ulteriori prove in cui magari si scrollerà di dosso l’influenza davisiana cosa, ce ne rendiamo conto, più facile a dirsi che a farsi.

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Jazz ed elettronica: un connubio riuscito?

Alvino organo

di Maurizio Alvino – Si parlava, anzi si scriveva, qualche giorno fa, di jazz ed elettronica, su un gruppo di Facebook dedicato ai sintetizzatori. La discussione aveva subito preso toni accesi, tra chi diceva che il jazz è un mondo aperto a tutto e dunque anche alla contaminazione con l’elettronica, e chi invece sosteneva che il jazz è un ambito chiuso, dove si può innovare ma solo fino ad un certo punto. Da qui la curiosità di indagare e di fare il punto sulla questione.

Forse tra i primissimi album di jazz elettronico possiamo considerare “Emergency! “dei Lifetime di Tony Williams, uscito nel 1969 e che vede Larry Young suonare l’organo utilizzando la distorsione, così come già avveniva in ambito rock. La commistione di jazz ed elettronica non comincia (come forse ci si sarebbe aspettato) con l’uso di sintetizzatori, dunque, ma attraverso l’uso degli effetti. La distorsione, il riverbero, il delay cominciano a diventare parte integrante dello strumento musicale e non più semplici attrezzature da sala di registrazione. Un mezzo espressivo a disposizione del musicista, utile per ampliare (e modificare) la propria palette timbrica.

Nemmeno nell’album “Bitches Brew” del 1970 compaiono ancora i sintetizzatori: qui Miles Davis fa ampio utilizzo del pianoforte elettrico (suonato anche in questo caso da Larry Young, oltre che da Chick Corea e Joe Zawinul) e di effetti fortemente riverberanti. E stavolta non è solo il timbro a cambiare, ma anche la musica risulta fortemente influenzata da generi diversi, come il funk ed il soul. Inutile dire quanti puristi si siano scandalizzati, e questo già a partire dal precedente album di Davis, “In A Silent Way”. Era o non era jazz, quello? O forse Miles aveva semplicemente capito che il jazz non poteva più funzionare come prima e bisognava inventarsi qualcosa di nuovo? D’altra parte, prima o poi, sarebbe stato inevitabile che il jazz conoscesse un declino, e così era successo: da un giorno all’altro il jazz si era scoperto non più popolare, soppiantato dal rock e dal rhythm and blues, generi che ormai erano entrati nel gradimento del grande pubblico. Occorreva una mossa che portasse il jazz verso altri orizzonti, e la spinta arrivò, per Williams prima e Davis poi, proprio dall’elettronica.

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