Nicola Mingo al Charity Café di Roma

Nicola Mingo 6

Venerdi’ 29 Maggio 2015 al Charity Cafe’, di Roma, il chitarrista Nicola Mingo presenterà il suo ultimo lavoro discografico, “Swinging”, pubblicato nel maggio 2014 .
Il progetto rievoca un modo di fare jazz che si usava negli anni Cinquanta e Sessanta ed in particolare rappresenta un omaggio allo swing di quel periodo storico e, più nello specifico, un tributo al big sound dei grandi chitarristi dell’epoca come Wes Montgomery, il tutto filtrato alla luce della contemporaneità, con riferimenti al sound di artisti come George Benson.
IL CD “Swinging” presenta 10 composizioni originali di Mingo in chiaro stile modern mainstream e alcuni celeberrimi standard quali “SO WHAT”, “MOODY’S MOOD FOR LOVE”, “BAYOU” e “ROAD SONG”. (altro…)

Stefano Amerio: quel che conta è la qualità

Stefano Amerio 3 Luca D'Agostino

In pochi anni è riuscito a raggiungere livelli di assoluta eccellenza tanto che il suo studio è oramai conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo. Stefano Amerio è il protagonista di questa sorta di sogno dei tempi d’oggi, un personaggio che, ad onta del successo ottenuto, è rimasto quello di sempre: gentile, disponibile ma soprattutto innamorato del suo lavoro. Ecco, in particolare, ciò che pensa del suo lavoro e della situazione del jazz più in generale.

-Partiamo da lontano: di solito ci si avvicina alla musica per suonarla, eseguirla. Tu hai scelto un’altra strada; come mai?
“In parte musicista lo sono: ho studiato pianoforte 5 anni ed ho suonato con vari gruppi della mia regione per diversi anni come tastierista. Poi la passione per l’audio e il dover fare da tecnico/tastierista mi ha portato inevitabilmente a scegliere la strada delle tecniche di registrazione. E’ stato molto naturale”.

-Vogliamo spiegare, soprattutto ai profani, in che cosa consiste il tuo lavoro?
“Il mio lavoro è simile, per analogia, a quello del fotografo. Fisso su un supporto un “attimo fuggente”, in questo caso la musica, affinché chiunque possa ascoltarla, goderne e vivere delle sensazioni: il tutto con massima qualità e soprattutto grande passione”.

-Quello del fonico, di ingegnere del suono è un mestiere che si impara sui libri o sul campo?
“Io ho studiato su libri americani, in lingua inglese, perché all’epoca (25 e più anni fa), non si trovava nulla in Italia, e poi sul campo: l’esperienza sul campo è fondamentale e dico sempre che se non avessi avuto dei Maestri come Marti Jane Robertson, Roger Nichols e Al Schmitt non avrei potuto capire tante cose”.

-Oggi il tuo studio è tra i più accreditati al mondo; che impressione ti fa? L’avresti mai detto che un giorno avresti raggiunto tali traguardi?
“Quando credi in qualcosa e vuoi raggiungere degli obiettivi che ti sei prefissato, penso sia tutto possibile. Basta crederci e avere al tuo fianco una famiglia che condivida le tue scelte e ti assecondi. Per me è stato così. Un piccolo aiuto iniziale, un anno di tempo per dimostrare che non era un gioco ed eccomi qua! Non è stato facile ma grande è la soddisfazione, come è grande il sacrificio… Alla fine è la grande passione che mi ha dato la spinta! Senza sacrificio, passione e determinazione non credo sarei riuscito a raggiungere questi traguardi. E poi una cosa è stata vincente: la ricerca della qualità senza compromessi!”.

-Quali sono stati i passi attraverso cui sei giunto alla meravigliosa realtà odierna?
“Aperto lo studio nel 1990, ho iniziato registrando un pochino di tutto. Poi ho iniziato a registrare sempre di più cose acustiche finché nel 1996, grazie alla fiducia di Glauco Venier ho registrato il mio primo disco di jazz e da li è partito tutto. Dopo Glauco è arrivato U.T. Gandhi, batterista storico dell’allora Enrico Rava Electric Five, che portò Enrico allo studio come ospite. Enrico rimase stupito nel sentire la sua tromba così bella che iniziò a voler registrare tutto quello che poteva da me, e nel 2003 mi portò Manfred Eicher ed ECM a Cavalicco (Udine) per il disco Easy Living. Lo studio era ancora primordiale e dissi ad Enrico che non mi sentivo pronto per accogliere un’etichetta così importante e nota per la qualità sonora delle registrazioni. Ma insistette e da allora sono uno dei fonici da loro accreditati. Ringrazierò sempre Enrico per la grande fiducia: è un grande!”.

-Il tuo è un lavoro anche tecnico: per raggiungere risultati ottimali quanto è importante il macchinario e quanto chi tale macchinario è chiamato a gestire? Ti faccio un esempio: oggi nella Formula 1 è davvero arduo dire se è più importante la macchina o il pilota fermo restando che ambedue devono essere di assoluta eccellenza per emergere…
“Il macchinario è importante, ma è sempre chi conduce il mezzo che fa la differenza.
Puoi avere strumenti potentissimi e fare disastri inenarrabili… La sensibilità e il gusto estetico in questo lavoro è tutto. Dopotutto stiamo parlando di un lavoro che si relaziona con l’estetica del suono”. (altro…)

Lang Lang, il nuovo Horowitz. Oppure no?

TRono di spade

Lang Lang è il pianista del momento, qualcuno dice addirittura il nuovo Vladimir Horowitz. Tutti d’accordo? Non proprio. Lungi da noi il voler insultare il lavoro di una così celebre star, addirittura ambasciatore dell’arte dei suoni. Mentre il cervello sembra andare, fluttuando, verso una conflagrazione finale a livello planetario, questo giovane, con il sorriso tontolone e il piglio inguaribilmente ottimista sembra recarci se non l’ultima, la penultima speranza sul destino del concertismo. Ma il recente show per Expo, presentato in modo eccessivamente disinvolto da Clerici e Bonolis, offre il destro ad alcune riflessioni.
Dire che il pianista cinese non sappia fare il proprio mestiere equivarrebbe a dichiarare il falso. Diamo a Lang quello che è di Lang. È brillante, talvolta ammirevole, uno che, come si dice, “fa la sua porca figura”.
Sappiamo che il mercato ha bisogno di star, cioè a dire personaggi con caratteristiche sacrificali da immolare sull’ altare di una musica del consenso. Cantavano i Pink Floyd: ” Welcome my son, welcome to the machine…”.
Perché, allora, non riusciamo a porre questa pubblicizzatissima star non dico sullo stesso piano ma neppure sugli scranni sottostanti a quelli su cui siedono gli Horowitz, i Gould, i Rubinstein?
Prendiamo il “Rondo alla Turca” di expoiana memoria che, nell’esecuzione del pupone, ha scatenato l’orgasmo in diretta di un cinguettante Bonolis (“Yess!….Ammappete, io così ci suono il citofono!“).
Tempo caracollato, sforzati bartókani, fraseggio in apnea, mimica da “Grinch”, mossette e alzatine ritmiche bicipitali.
Sarebbe questo il prescelto, l’erede del trono di spade?
Horowitz era un funambolo, ma dopo lo sfoggio di farfallini colorati c’era quella musica.
Il gesto virtuosistico era sempre accompagnato da un’eccitazione e i due elementi costituivano una medesima lega. L’arte sua era una gratificazione che perpetuamente si rinnovava: con ciò sia cosa che l’identificazione con la musica era inevitabile. Il suo celebre suono pianistico non era soltanto ciò che scaturiva fortuitamente dalle “note giuste” (che in musica possono talvolta essere la cosa sbagliata) ma vi scorgevi, come nei grandi pittori manieristi, un verde, sotto cui posava una sfumatura di rosa, che pareva effondere non so quale alone azzurrognolo, e così via.
Il timbro, voce del suono, non era mai sovrastruttura, ma forma stessa del racconto. Un’arte sapienzale, forse un inconscio impegno teoretico. Persino quando l’ interpretazione non convinceva fino in fondo, e poteva accadere, ogni volta “il Poeta parlava”, come nel quadro conclusivo delle schumanniane Kinderszenen.
Mentre il suo successo motivatamente è destinato ad accrescersi rileviamo, per converso, che l’ interesse che Lang Lang riveste nella storia dell’interpretazione rimane, per ora, paragonabile a quello di una puntata di “Giochi senza frontiere”, alla replica di un programma di fine serata.
Secondo andavo dicendo e torno a dire, è un buon pianista, ma non forzateci a considerarlo nuovo Horowitz: non più di quanto Lady Gaga possa dirsi nuova Callas.
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“eMPathia”: ovvero dall’Italia al Brasile

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“eMPathia”: forse mai nome di un combo fu più azzeccato. Mafalda Minnozzi alla voce e Paul Ricci alle chitarre si muovono, per l’appunto, con grande empatia cementata da circa vent’anni di stretta collaborazione. Lui, Paul Ricci, è un artista di origine italiana (il padre è nato a Filetto un piccolo centro in provincia di Chieti); chitarrista raffinato è in grado di produrre un tappeto ritmico-armonico talmente ricco ed esaustivo da non far minimamente avvertire la mancanza del basso. Lei, Mafalda Minnozzi, è una vocalist straordinaria sia per la potenza della voce che può passare con estrema disinvoltura dalle note più basse a quelle più alte sia per un’affascinante presenza scenica. Li abbiamo ascoltati alla Casa del Jazz , ne siamo rimasti colpiti e li abbiamo voluti intervistare; così ci siamo incontrati trascorrendo un piacevolissimo pomeriggio. Questo il risultato della nostra chiacchierata.

-Tu sei nata a Pavia e poi vi siete trasferiti nella Marche. A quando risale il tuo incontro con la musica?
“Praticamente da sempre. Ho avuto la fortuna di nascere a Pavia che è una città molto viva dal punto divista culturale. Inoltre i miei genitori che allora, siamo negli anni ’70, lavoravano ambedue hanno deciso di mettermi in una specie di collegio scuola a tempo pieno , le Canossiane, e lì ho avuto l’opportunità di ascoltare molta musica, soprattutto classica, cori polifonici, musica di chiesa, e poi a scuola era già obbligatoria la materia musicale sin dalle elementari”.

-Queste sono le basi. E dopo?
“Dopo, ovviamente, ho cominciato a crescere. Quando sono arrivata nelle Marche avevo già dieci anni ed è stato una specie di choc in quanto il paese dove ci siamo trasferiti, San Severino Marche, non aveva una vita culturale paragonabile a quella di Pavia. Io da bambina facevo anche danza classica e a San Severino non fu possibile proseguire lungo questa strada. La mia nuova classe non era più mista ma solo di bambine, non avevamo il doposcuola e quindi non avevamo la possibilità di studiare musica o di fare qualsivoglia attività culturale. Allora, grazie alla mia mamma, che da giovane era stata anch’ella una cantante, ho avuto la possibilità sia di prendere lezioni private di canto sia di partecipare, anche come solista, al coro polifonico della Cattedrale di Sant’Agostino, sempre attraverso i canti liturgici. Finita la scuola dell’obbligo, ho iniziato una frequentazione più assidua con la musica: ho cominciato a scrivere, ho cominciato a frequentare quegli ambienti musicali che già allora nel Pesarese e nel Maceratese erano piuttosto attivi e molti di essi legati alla realtà dello Sferisterio. Insomma c’era un’attività molto sviluppata, attività bandistica, attività di musica leggera, pop, musica erudita, musica contemporanea. I miei interessi potevano spaziare in diverse realtà, frequentavo come cantante diversi gruppi”.

-Quando hai costituito il tuo primo gruppo?
“All’età di quattordici, quindici anni ho costituito la mia prima band con cui eseguivo repertori che in massima parte venivano dal jazz e dalla musica francese. All’epoca non mi piaceva molto cantare in italiano… lasciavo questo compito ai miei amici…”.

-Quindi hai intrapreso una vita professionale sin da ragazzina?
“Sì, nonostante, come puoi ben immaginare, i miei genitori non è che condividessero questa mia scelta. Venivo da un paesino di circa tredicimila anime in cui il giudizio delle persone era molto aggressivo. Però mio padre era cresciuto a Milano dove aveva avuto la fortuna di diventare amico di molti grandi artisti come Lucio Dalla, Ornella Vanoni, Fred Bongusto… perché mio padre era maitre-hotel e si occupava anche di rifocillare gli artisti nei camerini avendo così l’opportunità di cementare l’amicizia con molti artisti, amicizia che si è portato appresso nella vita unitamente alla consapevolezza di quanto fosse dura e difficile la vita dell’artista. E quindi da un lato figlia unica, un po’ carina, non voleva che intraprendessi questa carriera, dall’altro, però, era orgoglioso di questa mia scelta. Così ho avuto l’opportunità, in zona, di essere accompagnata da amici di papà per cui era un lavoro quasi familiare: mi mandavano perché sapevano che ero accompagnata da gente fidata. Ad un certo punto non mi sono più accontentata di come cantavo e ho cominciato a studiare più seriamente. Ho frequentato la scuola di teatro e recitazione di Saverio Marconi con il registra e sceneggiatore Roberto Marafante per due anni ed è stata un’esperienza molto interessante. Questo a Civitanova Marche e poi anche a Roma dove ho frequentato corsi di danza presso lo IALS con il coreografo Marco Ierva. Nel frattempo mi sono innamorata della musica napoletana che ho studiato a fondo per quattro anni con il maestro Gustavo Palumbo per l’impostazione vocale. Però volevo anche sopravvivere con la musica e ciò mi ha portato a compiere molti sbagli”.

-Nello specifico hai mai studiato canto jazz?
“Mai anche se venendo da Macerata frequentavo gli ambienti jazzistici dove si poteva ascoltare artisti del calibro di Enrico Pieranunzi, Tiziana Ghiglioni, Chet Baker … ho preso qualche lezione di canto jazz ma solo in modo sporadico”.

-Di quegli anni c’è un ricordo che ti è rimasto particolarmente impresso?
“Quello che ricordo con grande piacere e che poi mi ha convinto a proseguire lungo questa strada è l’emozione che con il mio canto riuscivo a trasmettere alla gente. Vedevo che le persone si emozionavano al punto tale da cercare anche un contatto fisico: mi abbracciavano, mi toccavano, mi toccavano i capelli…volevano quasi portarmi a casa per la forza dirompente che aveva questa voce. Era una voce che a me all’inizio ha creato anche qualche problema”-

-In che senso?
“All’inizio era stata una voce molto forte… oserei dire selvaggia per cui necessitava di una certa educazione. Allora avevo come riferimento cantanti possenti, che avevano una voce importante come Mia Martini e Edith Piaf che mi emozionavano molto. E la gente mi diceva che riuscivo a dare emozioni simili a quelle che dava Mia Martini.. il che per me rappresentava, come puoi immaginare, un complimento grandissimo. A quel punto, però, mi sono fermata a riflettere e ho voluto educarla questa voce che secondo me, e non solo secondo me, oltre ad essere troppo forte era anche troppo aggressiva. E per me un momento fondamentale è stato quando ho scoperto Caterina Valente”.

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Mozart e i quartetti dedicati ad Haydn:” Il frutto di una lunga, laboriosa fatica”

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A 27 anni Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) decide di dedicare sei quartetti per archi a Franz Joseph Haydn (1732-1891). Non un destinatario qualsiasi ma “il” destinatario, un uomo per il quale la qualifica di genio, per una volta, non suona sospetta.

Per cominciare ricordo che il quartetto d’archi, organismo paradigmatico, espressione privilegiata del Classicismo, Haydn lo ha se non proprio inventato, quantomeno reinventato.
Franz Joseph Haydn è il padre del quartetto moderno, prima di lui mero genere d’intrattenimento e ora il territorio più elevato dell’invenzione musicale. Per mezzo di questa costruzione sonora ideale la purificazione del linguaggio può rivelare l’anima di un compositore, “il vero oro” di cui scrisse Leonardo Da Vinci.
Dopo Haydn sarà obbligatorio scrivere un quartetto per ogni autore che voglia tirare a cimento la propria immaginazione e la propria tecnica.

Le innovazioni sono molte. Il quartetto diventa ricreazione scientifica, musica che riflette su se stessa, al quadrato, non contenutistica. Grande importanza assume il motivo iniziale, che diviene principio costruttivo, e le proporzioni che devono esprimere un’idea classica di bellezza, libera da alcun modello.

Mozart nel 1783 si dedicò a questi lavori sua sponte, senza una specifica commissione e per il puro piacere di comporre. Segno, tra il resto, di una raggiunta stabilità economica, condizione che il nostro purtroppo raggiunse e perse non saprei quante volte nella sua troppo breve vita.
Essi rappresentarono, come egli stesso ebbe a scrivere in diverse lettere, un impegno gravoso. Premiato.
La bellezza celestiale di questa musica fa tutt’uno con la modernità e la complessità della costruzione. Miracolosa è la naturalezza con la quale la sovrastruttura compositiva viene sublimata, evapori, diventi pura commozione.
Impossibile infatti cercare di ascoltare queste opere concentrandosi soltanto sulla forma. Ogni volta la bellezza, il dialogo intelligente tra gli strumenti, l’incanto delle armonie non potranno che prendere il sopravvento e distrarre la nostra intelligenza.

In questa recente pubblicazione di Harmonia Mundi France uno dei più celebri quartetti europei, il catalano Cuarteto Calsals, propone tre di questi sei capolavori, il K428, il K 465 e il quartetto detto delle “Dissonanze”, K 387. Il nome di quest’ultimo deriva dall’introduzione lenta posta in apertura, fatto già di per sé insolito, nella quale Mozart compie acrobazie armoniche conturbanti: di qui l’accusa, che gli fu rivolta all’epoca, di elitarismo.

Il Cuarteto Casals è una compagine eccellente, di grande virtuosismo. I due violini, talvolta, si alternano nei ruoli di primo e secondo. Lo stile sembra moderatamente orientato, specie per il suono, verso l’orbita filologica, ma senza quegli ottusangoli estremismi che di tanto in tanto caratterizzano le interpretazioni ‘fedeli’.

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Anthony Braxton apre il Torino Jazz Festival

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La quarta edizione del Torino Jazz Festival si svolgerà dal 28 maggio al 2 giugno in concomitanza con l’Expo 2015; è un grande racconto sul jazz dove si incontrano musica, arte, danza, libri e tanto altro ancora.
L’inaugurazione è affidata al Sonic Genome di Anthony Braxton che in prima europea guiderà al Museo Egizio una grandiosa performance di otto ore con 70 musicisti.
In questa edizione gli appuntamenti principali del festival si svolgeranno in piazza San Carlo e quelli del Fringe ai Murazzi lungo il Po e nei locali vicini. I concerti a pagamento (10 euro come lo scorso anno) delle ore 18 si terranno all’Auditorium Rai, al Teatro Carignano e al Teatro Colosseo. Due spettacoli musicali importanti del programma saranno organizzati all’Auditorium del nuovo grattacelo Intesa Sanpaolo; anche la Gam di Torino ospiterà un concerto in prima assoluta. Sono in calendario in altri spazi del centro incontri letterari, rassegne cinematografiche, lezioni, workshop ed eventi a tema.
I concerti gratuiti vedranno esibirsi: Hugh Masekela Sextet (venerdì 29 maggio, ore 21) con le sue travolgenti danze sudafricane; Fabrizio Bosso e Randy Brecker (sabato 30 maggio, ore 21) in una battaglia virtuosistica fra trombe; Shibusa Shirazu (domenica 31 maggio, ore 21), in esclusiva europea; le ondate afrocubane ed elettroniche di Omar Sosa Quarteto Afrocubano (lunedì 1 giugno, ore 21). Il 2 giugno la Festa della Repubblica è in jazz con le magie vocali di John De Leo ,Francesco Bearzatti con il suo Monk’nRoll e le canzoni suadenti di Nicky Nicolai e Stefano Di Battista, l’energia funk/rock del Trio Bobo, fino al gran finale tutto da ballare degli Original Blues Brothers Band.
Sono diverse le proposte musicali a pagamento del tardo pomeriggio (a 10 euro). Si
passerà da James Newton (30 maggio), che nell’Auditorium Rai unirà musica classica europea e tradizione neroamericana a Ron Carter (31 maggio) che ricondurrà il Teatro Colosseo al più intimo e raffinato dei salotti. All’Auditorium Rai Danilo Rea (29 maggio)si esibirà in Plays Billy Strayhorn, mentre al Teatro Carignano la musica del sassofonista e compositore David Murray con la Lydian Sound Orchestra (1 giugno) incorporerà in un sound unico tutta la tradizione del jazz, dagli albori di New Orleans al free jazz degli Anni ’70.

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