Intervista a Mafalda Minnozzi e Paul Ricci

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“eMPathia”: forse mai nome di un combo fu più azzeccato. Mafalda Minnozzi alla voce e Paul Ricci alle chitarre si muovono, per l'appunto, con grande empatia cementata da circa vent'anni di stretta collaborazione. Lui, Paul Ricci, è un artista di origine italiana (il padre è nato a Filetto un piccolo centro in provincia di Chieti); chitarrista raffinato è in grado di produrre un tappeto ritmico-armonico talmente ricco ed esaustivo da non far minimamente avvertire la mancanza del basso. Lei, Mafalda Minnozzi, è una vocalist straordinaria sia per la potenza della voce che può passare con estrema disinvoltura dalle note più basse a quelle più alte sia per un'affascinante presenza scenica. Li abbiamo ascoltati alla , ne siamo rimasti colpiti e li abbiamo voluti intervistare; così ci siamo incontrati trascorrendo un piacevolissimo pomeriggio. Questo il risultato della nostra chiacchierata.

-Tu sei nata a Pavia e poi vi siete trasferiti nella Marche. A quando risale il tuo incontro con la musica?
“Praticamente da sempre. Ho avuto la fortuna di nascere a Pavia che è una città molto viva dal punto divista culturale. Inoltre i miei genitori che allora, siamo negli anni '70, lavoravano ambedue hanno deciso di mettermi in una specie di collegio scuola a tempo pieno , le Canossiane, e lì ho avuto l'opportunità di ascoltare molta musica, soprattutto classica, cori polifonici, musica di chiesa, e poi a scuola era già obbligatoria la materia musicale sin dalle elementari”.

-Queste sono le basi. E dopo?
“Dopo, ovviamente, ho cominciato a crescere. Quando sono arrivata nelle Marche avevo già dieci anni ed è stato una specie di choc in quanto il paese dove ci siamo trasferiti, San Severino Marche, non aveva una vita culturale paragonabile a quella di Pavia. Io da bambina facevo anche danza classica e a San Severino non fu possibile proseguire lungo questa strada. La mia nuova classe non era più mista ma solo di bambine, non avevamo il doposcuola e quindi non avevamo la possibilità di studiare musica o di fare qualsivoglia attività culturale. Allora, grazie alla mia mamma, che da giovane era stata anch'ella una cantante, ho avuto la possibilità sia di prendere lezioni private di canto sia di partecipare, anche come solista, al coro polifonico della Cattedrale di Sant'Agostino, sempre attraverso i canti liturgici. Finita la scuola dell'obbligo, ho iniziato una frequentazione più assidua con la musica: ho cominciato a scrivere, ho cominciato a frequentare quegli ambienti musicali che già allora nel Pesarese e nel Maceratese erano piuttosto attivi e molti di essi legati alla realtà dello Sferisterio. Insomma c'era un'attività molto sviluppata, attività bandistica, attività di musica leggera, pop, musica erudita, musica contemporanea. I miei interessi potevano spaziare in diverse realtà, frequentavo come cantante diversi gruppi”.

-Quando hai costituito il tuo primo gruppo?
“All'età di quattordici, quindici anni ho costituito la mia prima band con cui eseguivo repertori che in massima parte venivano dal jazz e dalla musica francese. All'epoca non mi piaceva molto cantare in italiano… lasciavo questo compito ai miei amici…”.

-Quindi hai intrapreso una vita professionale sin da ragazzina?
“Sì, nonostante, come puoi ben immaginare, i miei genitori non è che condividessero questa mia scelta. Venivo da un paesino di circa tredicimila anime in cui il giudizio delle persone era molto aggressivo. Però mio padre era cresciuto a Milano dove aveva avuto la fortuna di diventare amico di molti grandi artisti come Lucio Dalla, Ornella Vanoni, Fred Bongusto… perché mio padre era maitre-hotel e si occupava anche di rifocillare gli artisti nei camerini avendo così l'opportunità di cementare l'amicizia con molti artisti, amicizia che si è portato appresso nella vita unitamente alla consapevolezza di quanto fosse dura e difficile la vita dell'artista. E quindi da un lato figlia unica, un po' carina, non voleva che intraprendessi questa carriera, dall'altro, però, era orgoglioso di questa mia scelta. Così ho avuto l'opportunità, in zona, di essere accompagnata da amici di papà per cui era un lavoro quasi familiare: mi mandavano perché sapevano che ero accompagnata da gente fidata. Ad un certo punto non mi sono più accontentata di come cantavo e ho cominciato a studiare più seriamente. Ho frequentato la scuola di teatro e recitazione di Saverio Marconi con il registra e sceneggiatore Roberto Marafante per due anni ed è stata un'esperienza molto interessante. Questo a Civitanova Marche e poi anche a Roma dove ho frequentato corsi di danza presso lo IALS con il coreografo Marco Ierva. Nel frattempo mi sono innamorata della musica napoletana che ho studiato a fondo per quattro anni con il maestro Gustavo Palumbo per l'impostazione vocale. Però volevo anche sopravvivere con la musica e ciò mi ha portato a compiere molti sbagli”.

-Nello specifico hai mai studiato canto jazz?
“Mai anche se venendo da Macerata frequentavo gli ambienti jazzistici dove si poteva ascoltare artisti del calibro di Enrico Pieranunzi, Tiziana Ghiglioni, Chet Baker … ho preso qualche lezione di canto jazz ma solo in modo sporadico”.

-Di quegli anni c'è un ricordo che ti è rimasto particolarmente impresso?
“Quello che ricordo con grande piacere e che poi mi ha convinto a proseguire lungo questa strada è l'emozione che con il mio canto riuscivo a trasmettere alla gente. Vedevo che le persone si emozionavano al punto tale da cercare anche un contatto fisico: mi abbracciavano, mi toccavano, mi toccavano i capelli…volevano quasi portarmi a casa per la forza dirompente che aveva questa voce. Era una voce che a me all'inizio ha creato anche qualche problema”-

-In che senso?
“All'inizio era stata una voce molto forte… oserei dire selvaggia per cui necessitava di una certa educazione. Allora avevo come riferimento cantanti possenti, che avevano una voce importante come Mia Martini e Edith Piaf che mi emozionavano molto. E la gente mi diceva che riuscivo a dare emozioni simili a quelle che dava Mia Martini.. il che per me rappresentava, come puoi immaginare, un complimento grandissimo. A quel punto, però, mi sono fermata a riflettere e ho voluto educarla questa voce che secondo me, e non solo secondo me, oltre ad essere troppo forte era anche troppo aggressiva. E per me un momento fondamentale è stato quando ho scoperto Caterina Valente”.

-Una grandissima vocalist… ma non solo: Caterina cantava in diverse lingue, ballava, recitava, suonava – e bene – la chitarra e incantava le platee davvero di tutto il mondo…
“Esatto. Io l'ho scoperta quasi per caso. In quei tempi non era così facile avere l'opportunità di ascoltare un'artista come Caterina Valente. Ricordo che la scoprii attraverso un documentario che riproponeva un programma di in cui lei duettava con Mina . Fu una vera e propria fulminazione. Di qui per me un momento di profonda riflessione seguito da una chiara decisione: dovevo studiare, approfondire, capire com'era possibile utilizzare la voce per dare quelle emozioni che la Valente riusciva a dare cantando. Intendiamoci: non ho la pretesa di essere arrivata a quei livelli ma mi sono impegnata molto”.

-Sei soddisfatta dei risultati raggiunti?
“Guarda è difficile rispondere a questa domanda. Comunque , quando mi sono resa conto della bravura della Valente, ho cominciato ad ascoltare di più le grandi cantanti di jazz quali la Sarah Vaughan, la Fitzgerald, Dinah Washington perché in Italia non riuscivo a trovare qualcuna simile a Caterina Valente”.

-Comunque è un fatto che la tua voce ti permette di passare con estrema disinvoltura dal registro più basso a quello più acuto.
“E' vero ed è una fortuna. Sono nata con questa fortuna ma poi, tramite lo studio, ho potuto raggiungere un'ottava più in basso che non avevo naturalmente e in alto un'ottava e mezzo. Poi ho studiato approfonditamente anche il canto polifonico per cui ho la possibilità di emettere contemporaneamente anche due, tre fino a quattro note quindi farmi il coro da sola”.

-Qual è stato in tutti questi anni il tuo rapporto con il jazz?
“Sin dall'inizio di forte attrattiva. Quando non lo capivo non c'era un rapporto di amore-odio: mi limitavo a contemplarlo, sempre con ammirazione. Insomma è stato sempre di grande scoperta, di grande ammirazione e di grande libertà . Ad esempio ancora oggi quando ascolto la Vaughan mi rendo conto di come il suo canto sia inimitabile, di come avesse una straordinaria e inimitabile capacità di toccare le corde vocali”.

-Tu hai un repertorio fatto sostanzialmente di canzoni, un repertorio pop ma hai la capacità di porlo in maniera jazzistica. Ciò è dovuto ad una tua inclinazione o all'apporto di Paul?
“No, ad una mia inclinazione. Se fosse per Paul dovrei aprirmi ad un repertorio più complesso, più articolato dal punto di vista armonico , più dichiaratamente jazzistico, magari composto anche da quegli standard che tutti conosciamo. Ma, almeno per l'oggi, io mi sentirei falsa verso me stessa e verso il pubblico perché non mi sento ancora pronta per misurarmi con armonie ancora più complesse e contorte. Ad esempio una sera, in un locale di New York il Bradley's alle quattro del mattino, mi sono trovata a strimpellare con Michel Petrucciani: lui mi ha adorata; ero seduta sullo stesso suo sgabellino lui suonava e io improvvisavo e questo è accaduto nella maniera più spontanea possibile. Son venuti fuori un “Estate”, un “Senza fine” che lui amava moltissimo, davvero straordinari, intensi, emozionanti nella loro semplicità. Sicuramente le sue armonizzazioni erano complesse ma in quel momento mi appartenevano perché era una cosa spontanea, naturale, immediata. Io non ho dovuto mistificare alcunché”.

A questo punto interviene Paul:
“Io penso che Mafalda abbia detto delle cose molto giuste eccezion fatta per un punto. Lei ha detto di non aver studiato jazz in modo formale; io ho studiato jazz al Conservatorio a Boston, il New England Conservatory; uno dei miei insegnanti era Jaki Byard e lui aveva studenti provenienti da diverse città; lui puntava il dito verso di me e diceva, rivolto a tutti, ‘vedete questo ragazzo? Lui ha lasciato New York per imparare il jazz'. Studiare il jazz è sicuramente importante, ma viverci, frequentare gente come Art Blakey , Roy Haynes, Jimmy Raney e molti, molti musicisti è davvero importante, forse ancora più importante. In questo senso Mafalda ha ‘studiato' molto in quanto dal 1996 a New York ha avuto modo di ascoltare moltissimi artisti, moltissimi vocalist tra cui, due volte indimenticabili Jimmy Scott… l'ho vista parlare con lui, ascoltare la musica… ha comprato un suo disco, l'ha studiato e tre mesi più tardi era riuscita a introitare la vera essenza del canto di Scott. Io penso che chiunque studi jazz formalmente debba cercare di raggiungere questo tipo di semplicità e la semplicità è qualcosa che viene solo dall'ascolto di molti musicisti; questa semplicità è il legame che lega il blues al jazz ed è qualcosa che non si può insegnare. Ad esempio questa semplicità, questo legame io li sento in Brasile dove vivo attualmente da molti anni; oggi si può parlare di jazz italiano, jazz francese, jazz scandinavo, naturalmente jazz americano ma forse, ricercando questa sorta di globalità, si sta perdendo qualcosa sul piano della personalizzazione ma credo che la qualità che tiene assieme il tutto è la semplicità.
Io non credo che vorrei che Mafalda studiasse formalmente… l'acquisizione di armonie complesse per lei avviene in modo spontaneo, naturale… ad esempio abbiamo avuto la fortuna di poter collaborare, in Brasile, con la leggendaria diva del Jazz Leny Andrade, per timbro vocale e talento paragonata a Sarah Vaughan tanto che quando canta a New York in platea siedono artisti come Liza Minnelli e Tony Bennett; in questo incontro Mafalda si è espressa con lo stesso vocabolario jazz nonostante ritmi e culture diverse”.

-Adesso torniamo a Mafalda; quando ti sei resa conto di avercela fatta e di poter vivere esclusivamente di musica?
“Negli anni '90 ho avuto diverse frequentazioni all'estero, in Francia, in Germania, in Turchia, Malta…sempre cantando in questa maniera un po' strana, diversa. Il fatto che presentavo un repertorio cantautorale italiano degli anni '60 e '70 mi apriva le porte per fare dei concerti però mi rendevo conto che cantando in italiano all'estero non avevo la possibilità di farmi capire e la cosa non mi piaceva soprattutto quando i testi erano importanti, di autori come Bindi, Bruno Martino, Tenco… Allora mi sono resa conto che cantando in modo diverso, magari fraseggiando… omettendo qualche parola e intonando la frase melodica principale con un filo di voce le persone entravano di più nella canzone…certo non capivano perfettamente il testo ma ne afferravano lo spirito.. ed era questa la cosa importante. Così si aprivano altre porte. Grazie a questa diversa modalità di trattare le canzoni, come ti dicevo negli anni '90 ho lavorato moltissimo in Europa. Sono partita dal lavoro che avevo all'Osteria dell'Orso, alla Cabala, dove tenevo uno show di un'ora dalla mezzanotte all'una che mi permetteva di pagarmi le spese e quindi di poter dire: ‘io ho un lavoro, riesco a mantenermi da sola'. Lì ho affinato il mio stile canoro acquisendo anche una certa presenza scenica che mi aiutava non poco a dialogare con il pubblico, così come con l'ingaggio ottenuto ad “Uno Mattina” su RAI 1 dove ero accompagnata da una formazione diretta dal primo violino dell'orchestra di Bucarest”.

-E il Brasile? Cosa è successo e perché hai deciso di lasciare l'Italia e trasferirti così lontano?
“Nel 1996 sono stata invitata in Brasile per effettuare sei concerti in un locale molto importante di Rio de Janeiro. Sono arrivata lì come una cantante ‘purista' italiana che avrebbe dovuto cantare, in modo canonico, le canzoni degli anni '60. Solo che arrivata lì ho cantato dei brani che non c'entravano nulla con le loro aspettative; quindi intonavo una canzone come “Sapore di sale” che sapevo essere ben conosciuta e amata anche là ma subito dopo mettevo brani chessò di Bruno Martino, Paolo Conte, Bindi che non erano altrettanto conosciuti. E a quel punto mi sono accorta di aver oltrepassato la linea: non ero più una cantante italiana che doveva portare un repertorio quadrato, chiuso ma avevo la possibilità di spaziare oltre. In tutto questo ero incoraggiata dal fatto che il pubblico veniva numeroso ogni sera: insomma, per fartela breve, ero andata per sei concerti (più due se andava bene) e ne ho fatti ben 374, tutti di fila. Ho fatto anche un disco al vivo seguendo le indicazioni della casa discografica – la Som Livre del gruppo Globo – ; l'ho fatto seguendo le indicazioni che dicevano loro, ma la cosa più importante è che, nel corso di queste serate, sono venuti a sentirmi molti tra i più grandi musicisti brasiliani come Nico Assumpçnao, Luìs Alves, Nequinho da Beija-Flor tra gli altri con i quali si instaurò un magnifico rapporto. E così ho avuto modo di lavorare nel corso degli anni con straordinari personaggi nei locali più famosi di Rio e São Paulo, spettacoli televisivi, incisioni e collaborazioni da Guinga a Hugo Fattoruso, da Paulo Moura a Bocato, da Filò Machado a Fabiana Cozza, da Simoninha a Toninho Ferragutti tra gli altri … insomma ero benvoluta da tutti e nel frattempo ero riuscita ad imporre l'identità del mio suono”.

-Hai fatto più volte cenno ai cantautori italiani. Qual è il tuo preferito?
“Senza dubbio alcuno Lucio Dalla con cui avevo un rapporto bellissimo. Ricordo che una volta ho preso una canzone di Lucio Dalla e con un vero e proprio re del samba –
Martinho Da Vila – l'abbiamo trasformato in un samba-pagode un po' jazzato; eravamo davanti a cinquemila persone e ad un certo punto devi improvvisare altrimenti è finita; questa esecuzione è stata poi inserita in un disco e in un dvd. Quando Lucio Dalla l'ha ascoltata è rimasto molto colpito e ha pianto. Io credo che Lucio sia stato l'unico ad aver portato il jazz, l'improvvisazione nella musica pop, con una verità e una trasparenza assoluta. Ad esempio io ho voluto portare per l'anno dell'Italia in Brasile un pezzo molto impegnativo come ‘Una Notte in Italia' di Ivano Fossati nonostante tutti, compreso Paul, me lo sconsigliassero vista anche la lunghezza del testo. Ebbene, quando io l'ho cantato e ho improvvisato mi sono ispirata a Lucio che resta il mio indimenticabile maestro”.

-Ma stando a quanto ho sentito durate il tuo concerto e anche ascoltando il tuo album mi sembra che anche Mina rientri fra le tue preferite. E devo dire che hai molto coraggio perché reinterpretare le canzoni della vocalist cremonese che sono oramai entrate nell'immaginario collettivo è un'impresa davvero improba e , devo dire, che te la cavi molto bene…
“Grazie ma effettivamente Mina è stata un altro faro per me. Devo dire che oltre alle grandi capacità vocali e interpretative Mina aveva la capacità di scegliere sempre dei brani assolutamente straordinari. Vedi, ad esempio, “Sacumdì, Sacumdà”: di Wilson Simonal considerato da molti il più grande cantante brasiliano che all'epoca arrivò a duettare anche con Sarah Vaughan”.

-Quando ti sei incontrata con Paul?
“Nel febbraio del 1996; lui era lì a Rio de Janeiro impegnato in un altro progetto; stava registrando a New York un disco per lui molto importante. Prima di registrare voleva però presentare il repertorio dal vivo: così, dopo alcuni concerti a New York, dietro invito è venuto a presentarlo in Brasile, in un locale storico a Rio chiamato “Mistura Fina”. Dopo questo concerto venne ad incontrare un suo amico , Raul Mascarenhas, flautista e sassofonista storico di Gilberto Gil che era parte integrante della band che mi accompagnava in quei 374 concerti al Paradiso di Rio de Janeiro. E' dovuto passare pero' un anno prima di iniziare a collaborare con lui perché era molto impegnato con il suo disco”.

Interviene ancora Paul:
“Io in effetti stavo a Rio e per me era un sogno in quanto avevo trascorso molti anni a New York suonando con musicisti brasiliani ma non ero ancora andato a Rio. Appena arrivato ho avuto la fortuna di poter riabbracciare, suonando anche insieme, il mio caro amico Armando Marçal con il quale avevo collaborato negli States quando lui viveva a Manhattan integrando la banda di Pat Metheny Nell'occasione alcuni miei cari amici mi invitarono nel locale dove cantava Mafalda così ebbi modo di conoscere questo straordinario personaggio che mi colpì immediatamente per la sua voce e per la sua fortissima personalità. Tornato a New York invitai Mafalda che venne a New York e le esposi le mie idee circa il modo in cui sviluppare le potenzialità di questa straordinaria voce. Tornata in Brasile lei fu chiamata a registrare un altro album e a questo punto mi telefonò chiedendomi se volevo essere il suo arrangiatore per questa nuova fatica discografica. Ovviamente accettai con sincero entusiasmo, così andai a Rio, facemmo il disco ed io tornai a New York. Dopo poco tempo Mafalda mi richiamò chiedendomi se volevo lavorare con lei in alcuni show; ancora una volta accettai senza indugio e così cominciò la nostra collaborazione che, come vedi, si prolunga felicemente fino ad oggi. Ovviamente tutto ciò è stato determinato anche dal fatto che pian piano mi sono ambientato in Brasile. Tieni altresì presente che già dieci anni prima avevo collaborato con grandi artisti brasiliani come Astrud Gilberto, Dom Um Romão, Edison Machado, Guilherme Franco e Bebel Gilberto. Devo confessarti che io avrei voluto essere un cantante nella maniera in cui Mafalda usa la propria voce; di qui una profonda intesa circa gli arrangiamenti da studiare per il suo stile vocale. Il meglio di tutto questo è venuto senza basso e senza percussioni: è vero che abbiamo lavorato anche con grandi musicisti ma abbiamo scelto la strada del duo e mi pare che funzioni abbastanza ”.

-Torniamo a Mafalda. Se non sbaglio hai trascorso anche diversi periodi della tua vita a New York. Quali frutti hai ricavato da queste permanenze nella Grande Mela e più in generale negli States?
“Io sono andata a New York sempre per motivi di studio, di apprendimento, di incontro, di collaborazioni. Per esempio, in un disco per me interessante che ho fatto nel 2007-2008 –‘Controvento'- , ho voluto seguire un estremo rigore nella registrazione vocale per la scelta degli amplificatori, della parte tecnica, della parte del mixaggio e finalmente della masterizzazione utilizzando un certo tipo di possibilità tecnologiche che il Brasile non offriva . Avendo, come si diceva, la possibilità di frequentare New York decisi di fare un investimento importante utilizzando uno studio tecnologicamente molto avanzato come il New York Noise. In un altro caso ho registrato un album con un famoso produttore musicale di Los Angeles Mr.Moogie Canazio che aveva lavorato con importanti voci come quella di Maria Bethânia, Sarah Vaughan, Caetano Veloso e Sérgio Mendes, tutto questo per cercare di capire come registrare la mia voce perché “catturarla” in studio non è impresa facile. Varie volte ho vissuto periodi a New York solo per gustarmi i grandi jazzisti che solo lì era possibile ascoltare e magicamente mi sono poi trovata a conoscerli personalmente scambiando opinioni e consigli come, ad esempio, Pat Martino, Les Paul, Bucky Pizzarelli, Billy Hart, Diane Schuur, Roy Haynes. L'ultima esperienza è stata al Birdland con musicisti che suonano lì ogni lunedì sera, oppure allo Zinc Bar con David Kikoski, Al Foster, Mundell Lowe e Victor Jones, al Metropolitan Museum of Art dove ho avuto l'opportunità di presentare un repertorio tutto incentrato sulla canzone napoletana e su una villanella del ‘500 che ho imparato sulle corde di Roberto Murolo , che per me è il João Gilberto della musica napoletana , abbiamo imbastito un'improvvisazione che ha scatenato applausi a scena aperta”.

-Partendo da queste premesse, perché non incidi un album più prettamente jazzistico?
“Sì, lo dovremo fare. Credo che i tempi siano oramai maturi per cui non escludo che entro fine anno entriamo in studio. Stiamo studiando il repertorio”.

Interviene Paul.
“Molto probabilmente ci sarà sempre la bossa; anche questo è jazz? Francamente non lo so. Se facciamo un album senza ritmi brasiliani ci sentiremmo come se avessimo una macchina senza una ruota”.

Mafalda:
“Ad onor del vero devo confessarti che ho un po' paura nel senso che non vorrei perdere l'identità che mi sono costruita fino ad oggi e così deludere il pubblico che fin qui mi ha seguito con grande affetto e partecipazione”.

-Dopo tutti questi anni in Brasile, quali sono gli episodi dal punto di vista sia artistico sia umano che ti sono rimasti particolarmente impressi?
“Dal punto di vista musicale quando siamo riusciti a portare la musica italiana nell'Auditorium Ibirapuera il più grande auditorio dell'America Latina, (che è un mausoleo del samba) palco storico per i grandi artisti dell' MPB e musica Jazz Internazionale, progettato da uno dei più grandi architetti del mondo – Oscar Niemeyer – noi siamo riusciti a far capire, con questo duo ‘eMPathia” che la musica italiana, con tutto rispetto, non è solo cuore e amore ma ha una ricchezza armonica e melodica che va ben oltre.
Purtroppo lo scenario musicale brasiliano a volte è molto classista e non apre molto volentieri le porte alla musica d'oltre oceano come quella italiana e francese. Noi con tanto sforzo, impegno e sacrificio siamo riusciti invece a farcele aprire queste porte e questa splendida esperienza è stata impressa in un DVD. Invece dal punto di vista umano la mia esperienza di vita in Brasile mi ha insegnato che nonostante molta gente non abbia di che vivere riesce a nutrirsi di musica come “Il Samba” diventato nella vita di milioni di persone una vera e propria filosofia di vita”.

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Interviene Paul:

“Il primo ricordo che mi viene in mente è quando ho registrato il mio disco ed è venuto a suonare il bassista Anthony Jackson; dopo l'incisione, su mia richiesta Anthony ha suonato alcune frasi del brano che preferiva ed è stato talmente bello che mi sono sentito trasportare fuori dal mio corpo; un'altra volta che ho sentito una sensazione del genere è stato quando, dopo aver provato e riprovato innumerevoli volte un concetto solistico prima di un concerto con Santi Debriano e Mike Clark senza mai esserne soddisfatto, mi sono detto: 'lascia perdere' e così sono salito sul palco, ecco, proprio in un momento magico dopo un fill di batteria di Mike ho riprovato questa sensazione di estraniarmi dal corpo, come se vedessi dall'alto le mie mani che volteggiavano sulla chitarra facendo esattamente quello che volevo; un altro ricordo che mi tocca il cuore risale al Settembre del '91 quando salito sul palco dell' Hollywood Bowl a Los Angeles per un tributo a Stan Getz per suonare con Astrud Gilberto mi sono ritrovato in compagnia di Roy Haynes, Gary Burton, Kenny Barron and George Mraz suonando tutti insieme!. THAT was a good day !”.

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