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Allievo di Paolo Delachi, Giulio Bas e successivamente di Alfredo Casella, Nino Rota (1911-1979) è stato uno dei più originali compositori italiani del secolo passato.

L'amnios che lo proteggeva risultò intriso di quella particolare sostanza denominata neo-classicismo, uno stile 'storico' di recupero e acquisizione delle forme del passato che qui si veste di un carattere nostalgico e infantile spesso colorato di ironia.
Eterno fanciullo, questo compositore ha sgambettato con passo leggero lungo un secolo funestato, anche musicalmente, da troppa seriosità. Indifferente alle diatribe di genere, ha preferito starsene chiuso nel suo guscio, appartato dal mondo reale, ostile ad autoinibizioni e a qualsivoglia formula coercitiva, mentre altri compositori soggiacevano più o meno felicemente all'ascia di Damocle di vari fondamentalismi.
Fin dal primo apparire la sua si connotò come l'espressione di un mondo garbato e favolistico, la cui coltivazione era forse inimmaginabile senza il supporto di un altro substrato culturale strutturalmente affine alla fiaba: il cinema, appunto.

Ecco spiegato, a mio modo s'intende, il sodalizio con Federico Fellini, che fu protratto finché Rota ebbe vita. Nonostante le esigenze imposte da un ruolo prevalentemente ‘di commento', alle linee fondamentali della propria poetica Rota non derogò mai. La sua produzione non sembra conoscere primi, secondi, o ultimi stili: i ritmi, le melodie, gaie e malinconiche insieme, l'idealizzazione del mondo circense, la strumentazione finto-poveristica da Stravinsky “minore”, il gusto per lo sberleffo “buono”, tutti questi elementi conferiscono al sofisticato piatto un sapore tipicamente “italiano” senza che ciò costituisca una limitazione, o gabbia espressiva in senso folcloristico.

Questo disco, pubblicato alcuni anni fa da Harmonia Mundi, lo consiglio come un'eccellente introduzione al suo mondo. Esso include, intelligentemente, due lavori dedicati al cinema e uno sinfonico.

Si inizia con la Suite dal balletto “La Strada” che ingloba materiale scritto per l'omonimo film felliniano del 1954 e contiene numeri perlopiù incentrati sul rapporto tra i due protagonisti, Gelsomina e Zampanò; vorrei citare in modo particolare l'ultimo quadro, “Solitudine e pianto di Zampanò”, schizzo drammatico che fa tornare alla memoria, e sembra eguagliare in forza drammatica, i migliori momenti del mirabile “Romeo e Giulietta” di Prokofiev.

In chiusura la famosa serie di “ballabili” scritti per “il Gattopardo” (1963) di Luchino Visconti. Il regista chiese espressamente a Rota non una pura musica di commento ma l'elaborazione di una vera e propria “Sinfonia del Gattopardo” senza pensare al film, alle scene.
Rota ripescò tra proprie vecchie composizioni e approntò piuttosto in fretta una partitura che venne registrata per la prima volta a in condizioni un poco fortunose, con una compagine orchestrale ” raccolta all'ultimo”.
A Visconti piacque questo carattere provvisorio dell'esecuzione, che nell'utilizzo cinematografico doveva rappresentare una festa in una casa privata; pertanto volle tenere come definitiva proprio questa registrazione, caso forse unico nella storia del cinema ed emblematico del maniacale realismo del regista.

I ballabili erano per la verità già stati usati per il film “Appassionatamente” (1954) di Giacomo Gentiluomo. Il motivo centrale di questa sequenza coreutica ormai passata alla storia è costituito dalla partitura inedita di un ‘Valzer Brillante' di Giuseppe Verdi, il cui manoscritto era stato donato a Visconti da Mario Serenerei, montatore del film, che l'aveva acquistato a Roma presso una biblioteca antiquaria. Un Verdi, possiamo dirlo con ammirazione? che sembra Rota.

Conclude il Cd, dal programma attraente quant'altri mai, il delizioso “Concerto-Soirée” (1962) per pianoforte e orchestra, dove parimenti par di vedere Claudia Cardinale e Burt Lancaster volteggiare, ma questa volta in sala da concerto.

Articolato in cinque danze che ricordano i “luoghi soavi e lepidi” di Jacopo Sannazzaro, l'opera accoglie nel pentagono della propria architettura fiori musicali profumatissimi, così belli che sembrano sorridere.
In questa composizione, che non conosce momenti di “stanca” e ci fa rammaricare che sia finita, avrete modo di apprezzare le qualità strumentali di Benedetto Lupo, capace di cogliere e restituire con passione la mutevole poesia del virtuosistico brano.
Ottima, senza meno, l'Orquesta Ciudad de Granada, diretta con sensibilità da Josep Pons, ma gli applausi più sinceri li strappa il pianista: lirico e, come dicono gli americani, “suave”.
L'interpretazione ideale di un Concerto che vorremmo si manifestasse più spesso anche nei cartelloni delle stagioni concertistiche italiane. Lo meriterebbero il brano, l'autore e anche il pubblico.

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