Tempo di lettura stimato: 3 minuti

ornette_coleman

Nell’immaginario di ognuno di noi ci sono artisti, personaggi che consideriamo immortali, al di fuori di qualsivoglia dimensione spazio-temporale. Poi un giorno, magari mentre stai cenando, ti accorgi, per l’ennesima volta, di esserti sbagliato: l’anonima voce di uno speaker televisivo rilancia la notizia della morte di Ornette Coleman; all’inizio speri di non aver capito bene, ti avvicini al televisore, alzi il volume e hai la conferma: anche Ornette ci ha lasciati, andando a suonare in luoghi altri davanti a sterminate platee.
Ecco così ho appreso della dipartita di uno dei più grandi innovatori del XX secolo, un artista che ha dato la stura a quello che può a ben ragione essere considerato il “jazz moderno” ben oltre la non esaustiva etichetta di “free jazz”.
Come altre volte in queste tristi occasioni, piuttosto che tracciare un profilo di Coleman – cosa che in queste ore stanno facendo altri meglio di quanto possa fare io – preferisco lasciarmi prendere dai ricordi e trasmetterveli così come vengono.
Ecco quindi che mi torna in mente la prima volta, parecchi anni fa, che ascoltai Ornette in un concerto: il suono del suo sax mi colpì come un pugno nello stomaco; il suo sound era ben più aspro e tagliente di quanto si potesse apprezzare nei dischi e soprattutto mi stupì la contrapposizione tra quella musica così rivoluzionaria, sotto certi aspetti furente, e l’atteggiamento del musicista sul palco, un uomo che irradiava pace e tranquillità.
Ricordo, altresì, la prima volta che lo ascoltai al violino: all’inizio ne rimasi totalmente straniato e devo confessare che impiegai un po’ di tempo per capire come anche quella fosse una modalità del tutto connaturata all’artista e completamente funzionale a ciò che Ornette voleva esprimere.
E poi l’ascolto dei dischi, tanti e tutti di immenso livello: da “Shape of Jazz to Come” l’album del ‘59 che lo impose alla generale attenzione rappresentando un momento di rottura con il bebop, allo storico “Free Jazz” dei primissimi anni ’60 con Eric Dolphy, Donald Cherry, Freddie Hubbard, Charlie Haden, Ed Blackwell, Billy Higgins e Scott La Faro; da “Chappaqua Suite” con Pharoah Sanders, David Izenzon e Charles Moffett del ’65, al doppio live al “Gorden Circle” di Stoccolma del ’65 con David Izenzon e Charles Moffett che segnò un nuovo inizio nella strepitosa carriera del sassofonista texano; da “Song X” con Pat Metheny, Charlie Haden, Jack DeJohnette e Denardo Coleman del 1985 a “Sound Grammar” con cui nel 2007 ottenne il Pulitzer … tanto per citare qualche titolo.
Insomma una stima verso l’artista che è andata crescendo anno dopo anno e che mi ha portato a non disertare molti dei suoi concerti romani.
Eccoci quindi il 19 luglio 2003 All’Auditorium Parco della Musica, in occasione del Dolce Vita Jazz Festival; Ornette suona con Denardo Coleman batteria e Charnett Moffet contrabbasso ed è un bel sentire. Ornette è in gran forma; il suo sax alterna belle frasi melodiche a lunghi assolo in cui si riascolta la foga dell’innovatore, di colui che seppe abbattere qualsivoglia barriera armonica e ritmica staccandosi completamente da quel songbook americano che aveva costituito il terreno d’ispirazione per molti jazzisti. Dal canto suo la sezione ritmica lo asseconda magnificamente. E così non mancano sprazzi di assoluta improvvisazione in cui Ornette imbraccia prima la tromba e poi il violino. E con quest’ultimo strumento ci regala il brano più lungo e forse più suggestivo dell’intero concerto con Moffett che suona il contrabbasso con l’archetto a disegnare atmosfere di rara intensità. Tra gli altri concerti che ricordo, quello dell’8 maggio 2005 sempre all’Auditorium Parco della Musica; di questo appuntamento ricordo come rimasi particolarmente colpito di quanto la musica di Coleman mi fosse oramai familiare e di come fossi ora in grado di percepire completamente la bellezza delle linee melodiche disegnate ed eseguite da Ornette.

Ornette Coleman 2

L’ultimo, il 25 giugno 2009 con Coleman che apre l’annuale edizione di “luglio suona bene”; con Ornette (sax contralto, tromba e violino) , Albert McDowell basso elettrico, Anthony Falanga contrabbasso e Denardo Coleman batteria. Ad onta dei suoi (allora) 79 anni Ornette sembra non aver perso alcunché dell’originaria freschezza e soprattutto della voglia di suonare. Di qui un flusso sonoro mai eguale a sé stesso in cui l’anziano leader prosegue lungo la strada da lui stesso tracciata diversi decenni or sono. Nella musica di Coleman è ancora una volta facile individuare quella che poteva forse essere considerata la sua principale cifra stilistica: il totale coinvolgimento di tutti i musicisti. Nei suoi gruppi non esiste gerarchia e tutti contribuiscono in egual misura al buon esito finale. In estrema sintesi si potrebbe osservare che le performances colemaniane si sviluppano per piccoli nuclei tematici di cui, di volta in volta, s impadroniscono i vari musicisti. In tal modo si instaura una sorta di colloquio che non necessariamente coinvolge tutti i musicisti allo stesso tempo: così, ad esempio, tornando al concerto romano, si poteva notare come, ad un certo punto, da un lato dialogavano batteria e Ornette, dall’altro contrabbasso e basso elettrico. In questo intreccio di suoni ovviamente molto spazio viene lasciato all’improvvisazione così come appaiono evidenti certi passaggi ben studiati: si ascoltino con attenzione i finali dei pezzi.
E il discorso potrebbe proseguire… ma forse è meglio chiuderla qui.
Ciao Ornette! Un bacio!.

Articoli scelti per te:

Ti è piaciuto l'articolo? Lascia un commento!

Commenti

commenti

Shares