The Jazz Years, una collana per conoscere il jazz

Milea davis the jazz years

Da quattordici settimane in edicola si trova un Cd di jazz. “Uno solo? E che novità!”, potrebbe rispondere qualcuno. La novità è che l’iniziativa editoriale “The Jazz Years. I grandi album” de “Il Corriere della Sera” ha pregi di solito non riscontrabili nelle operazioni che passano attraverso le edicole; se ne parla da questo sito ora che si è giunti al 14° su ventiquattro album, proprio per non essere accusati di fare promozione o altro.
Qui a far la differenza sono le scelte: invece di mandar in circolazione compilazioni più o meno riuscite o riedizioni più o meno valide, si è deciso di selezionare degli album (pubblicati in origine in vinile) e di riproporli in Cd, mantenendo il “senso profondo” del disco come narrazione sonora in vari capitoli (le tracce), impaginata secondo una precisa sequenza. In tutto si è realizzato unendo da un lato la nota testata giornalistica ed il suo gruppo editoriale (“area collaterali”), dall’altro la Sony nella persona di Luciano Rebeggiani, direttore classica & jazz. Con circa tre dischi per decennio, “The Jazz Years” arriva dagli anni ’20 (Louis Armstrong, Bessie Smith) fino agli anni ’90 (Dave Douglas, Wynton Marsalis), coprendo un arco temporale e stilistico notevole.
Gli “anni del jazz” vengono, in questo modo, rievocati attraverso album ed artisti, senza un ordine cronologico nelle uscite ma con un disegno complessivamente e storicamente valido pur necessariamente incompleto (soprattutto per motivi di cataloghi discografici: non possono esserci né Charlie Parker né John Coltrane). Per ogni Cd è riprodotta la copertina originale in una veste grafica nuova e con un apparato semplice e curato. Ogni uscita prevede un libretto di sedici pagine, con un testo più generale di Ariel Pensa ed uno più musicalmente specifico di Claudio Sessa (redattore e direttore di “Musica Jazz” nel secolo scorso, oggi docente in conservatorio e storico della musica che ha in uscita il volume “Improvviso singolare. Un secolo di jazz”, il Saggiatore, il 25 giugno prossimo). (altro…)

Classica. Ballades, di Jean-François Antonioli. Viaggio al centro della musica

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Scrive Metastasio nel libretto delle “Cinesi”, musicato da Gluck: ”Chè quel che si fa bene, è sempre nuovo”. Tale massima l’apporrei a guisa di sottotitolo sulla copertina di questa recente uscita discografica di Jean-Francois Antonioli per l’etichetta klanglogo.

Pianista svizzero con al suo attivo numerose incisioni dedicate in particolar modo ad autori di area francofona (Cras, Honegger, Debussy) con i quali dimostra particolari affinità culturali e direi estetiche, egli governa con l’intelletto dita davvero capaci di servire la musica.

Vorrei soffermarmi su questo punto. Il professionismo è una gran cosa e bisogna suonar di tutto, se si è pianisti. Cionondimeno uno dei meriti dei migliori artisti, quelli dal pensiero più elaborato (penso a Pollini e Michelangeli) consiste anche nel saper scegliere il proprio repertorio con oculatezza.

Antonioli ha un suono pianistico corrispondente alla propria estetica d’impronta post-simbolista, nella quale il timbro non è soltanto evocatore di immagini atte a suscitare libere associazioni di pensiero, ma categoria ben precisa del racconto musicale.
Come a dire: quella determinata frase può essere suonata sì in tanti modi, ma soltanto in funzione di “quel” preciso colore non perderà il proprio significato!
Il pianoforte, ben lo sappiamo, non è strumento molto ricco timbricamente ma, per converso, dimostra di possedere una camaleontica capacità imitativa se a guidare le dita vi sono un cuore e un’intelligenza vigili, come avviene in questo caso. Il pianoforte come nessun altro “immagina” la musica.

Questo pianista è nemico giurato dell’effetto, dei lenocinii. Vuole che la musica risplenda per la propria forza autonoma che egli con arte richiama alla vita; i suoi mezzi del resto, in tale ottica sottratti all’esibizione, finiscono con l’emergere ancora di più.
Prendiamo a esempio Chopin: siamo qui di fronte a uno Chopin purificato, non asettico.
Il polacco del resto era uomo riservato, schivo. Faceva riferimento a Bach e al contrappunto, anche se viene considerato, a torto, uno dei compositori meno contrappuntistici ma il fatto è che il “suo” contrappunto, come quello di Schumann per altre vie, è privo di macchinismo, “bruciato”: invisibile, ma presente come l’anima a guidare le azioni del corpo.

La Ballata è un componimento poetico che affonda le proprie radici nella letteratura popolare. Fondata sul meccanismo della ripetizione, tipico della tradizione orale, mostra perspicue affinità con la musica, che pure ha bisogno di reiterazioni per agganciarsi alla memoria.
Chopin ne scrive quattro, e in esse ripropone la forma letteraria assai fedelmente, riempiendola di suoni anziché di parole e trascurando i riferimenti contenutistici.

Avviene lo stesso anche nelle splendide quattro Ballate op. 10 di Johannes Brahms con l’eccezione della prima, quella “ossianica” tratta esplicitamente da un’antica ballata scozzese, “Edward”, che rappresenta il dialogo serrato tra una madre e il figlio che finisce col confessare l’omicidio del padre. Brahms, lo si diceva in altro luogo, nasce dal cervello di Minerva e la sua musica è già prepotentemente matura in queste opere giovanili, che potrebbero anche essere quelle del commiato.
La pertinenza stilistica con la quale Antonioli conduce la narrazione è, anche con questo autore, encomiabile. (altro…)