Renato Strukelj: Il jazz deve ritrovare un suo pubblico

Musicista eclettico, in possesso di una solida preparazione di impronta classica, Renato Strukelj è una delle punte di diamante del jazz friulano. Pianista e arrangiatore di vaglia, ha presentato a “Udin&Iazz” il suo ultimo lavoro discografico, “Giammai”, con Maurizio Giammarco. E noi lo abbiamo intervistato proprio all’indomani dell’applaudito concerto svoltosi presso la Corte di Palazzo Morpurgo il 29 giugno scorso.  

-Come valuti la situazione del jazz nella tua regione, in Friuli?

“Attualmente in Friuli c’è molto movimento e quindi numerose proposte di carattere anche assai diversificato, non necessariamente legate alla tradizione, ma innovative e sperimentali. Sulle varie riviste leggo anche che il jazz proveniente dal Friuli viene apprezzato anche al di fuori della nostra regione e quindi sono ben orgoglioso di far parte di questo movimento”.

-In un tale contesto, ci pare di poter dire abbastanza positivo, che ruolo hanno avuto le autorità pubbliche? Cioè il jazz è in qualche modo sostenuto con appositi finanziamenti?

“Credo che un ruolo determinante l’abbiano svolto dapprima i musicisti con la propria tenacia e caparbietà; poi magari qualcuno s’è accorto che c’era del materiale da poter valorizzare per cui effettivamente qualcosa si è mosso. Comunque risulta sempre difficile trovare gli sbocchi perché spesso i primi passi bisogna farli da soli e le vetrine per i musicisti locali non sono molte. Ora ho potuto partecipare a questo Udin&jazz e per me è stata un’occasione molto importante, anche perché ho avuto modo di suonare con un grande nome del jazz quale Maurizio Giammarco”.

-Vista la reazione del pubblico, mi sembra che il concerto sia andato piuttosto bene…

“Sì, anch’io ho avuto la stessa sensazione e ne sono ovviamente felice. Ne ho parlato con Maurizio (Giammarco) e abbiamo convenuto sul fatto che nonostante siano stati fatti finora pochi concerti – quattro o cinque – il gruppo abbia sviluppato una bella intesa. In effetti, il mio trio completato da Simone Serafini al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, ha già una buona intesa di base e solitamente ognuno di noi fa molta attenzione a rapportarsi con l’ospite che accompagniamo, in questo caso Giammarco”.

-Tra l’altro vorrei dire che la sezione ritmica è una delle più collaudate non a livello regionale ma a livello nazionale…

“Sì, Luca e Simone hanno un’intesa straordinaria determinata dal fatto che sostanzialmente vivono assieme, provano e studiano insieme da una decina di anni, suonano in diverse formazioni, per cui si trovano a menadito. E questo durante i live si percepisce immediatamente: basta un’occhiata e qualsiasi problema viene risolto all’istante. Al riguardo c’è da sottolineare come, anche quando si suona a livello professionale, le cose riescano assai meglio se di base c’è anche un’intesa sul piano umano, caratteriale”.

-Come ti sei avvicinato alla musica e in particolare al jazz?

“Ho cominciato con gli studi classici, mi sono diplomato al Conservatorio di Udine ho provato la carriera concertistica, ma ben presto mi sono accorto di non essere adatto a fare il concertista classico. Quindi mi sono lasciato prendere dal jazz, passione che ho sempre coltivato perché mio padre, ex sassofonista, mi proponeva sin da piccolo l’ascolto degli standards. Ricordo che insisteva nel farmi affrontare brani di Cole Porter, George Gershwin, Hoagy Carmichael e soprattutto brani importanti come “Smoke gets in your eyes” ricchi di melodie suadenti e giri armonici affascinanti. Io ci provavo senza sapere esattamente come interpretare a dovere le sigle degli accordi più complessi. In seguito, studiando con Glauco Venier, che mi ha aiutato particolarmente nella prima fase, e poi con Renato Chicco che mi ha dato solidi consigli e spunti importanti per l’accompagnamento e l’improvvisazione, ho cominciato ad intravedere una strada percorribile. L’orecchio classico però mi portava spesso ad apprezzare in maniera particolare la musica di Bill Evans e forse questo ha paradossalmente rallentato un po’ il mio percorso”.

-In che senso?

“Nel senso che entravo nel grattacielo del jazz dal diciasettesimo piano, non dal piano terra … Trovavo le affinità tra Bill Evans e certi autori impressionisti quali Debussy, Ravel ,ma mi mancava un solido studio del linguaggio base, lo stride piano, lo swing, il bebop…insomma tutti quegli elementi che prima ancora di Bill Evans risultavano di fondamentale importanza nel pianismo jazz tra gli anni ‘40 e ‘60 . Quindi ho cercato di recuperare facendo un percorso a ritroso che è stato lungo e faticoso. Ho pensato di partecipare ai vari importanti seminari e workshop in Italia tra cui in particolare citerei quelli con Barry Harris e Kenny Barron. Contemporaneamente ho continuato ad ascoltare il filone evansiano, quindi Jarrett, Mehldau e ho frequentato workshops con Kenny Wheeler , John Taylor, Fred Hersch. Di conseguenza il mio modo di sentire e di suonare risulta ad oggi necessariamente composito e non saprei dire in quale percentuale sia basato sulla tradizione americana, nera, oppure si poggi maggiormente sullo stile europeo o neo-classico. Vorrei sottolineare però l’importanza che ha avuto per me John Taylor per la ricerca della “musica nella musica” , ovvero il desiderio di ricavare da ogni elemento musicale un contenuto superiore e profondo. Attualmente quindi, sono alla ricerca di un linguaggio personale basato su un equilibrio fra tradizione swing e bebop, Bill Evans, John Taylor, sperimentazione, musica classica”

-Frequenti ancora questo territorio?

Continuo a studiare musica classica e lo ritengo un fattore molto importante anche perché risulta determinante per lo sviluppo di una buona tecnica”.

-Ti sei mai cimentato nel campo della musica contemporanea?

“Se intendi contemporanea … diciamo “colta” … in realtà no; ho affrontato l’improvvisazione totale in campo jazzistico ma questa è altra cosa. Mi sono fermato alla musica del tardo ‘900. Al riguardo il musicista che amo in modo particolare è Alexander Skrjabin tant’è vero che alla prova di diploma ho portato una sua Sonata, la n.10 op.70, quindi l’ultima dell’ultimo periodo compositivo. Ricordo che nell’ affrontarla notavo delle attinenze con le armonie di Bill Evans e tutto sommato anche del jazz in generale, tanto che in molti casi per decifrare e rendermi più familiare il contenuto armonico della Sonata facevo largo uso di sigle jazzistiche. In effetti, analizzando la sonata attraverso le conoscenze armoniche jazzistiche ho potuto verificare quali fossero degli elementi comuni. Ho cercato di approfondire e provare a tracciare un filo conduttore tra Skrjabin ed il jazz ed ho individuato in Joseph Schillinger, un didatta e musicista russo, una figura di collegamento. Trasferitosi nei primi anni del ‘900 a New York, Schillinger ha portato con sè le innovazioni che a Mosca aveva sentito da Skrjabin: armonie estese…undicesime, tredicesime, accordi alterati, amore per il tritono… Ci sono degli accordi di Skrjabin che contengono addirittura tre tritoni, oppure poliaccordi formati da due o tre triadi diverse sovrapposte, o ad esempio il cosiddetto “Accordo mistico” che nel jazz potremmo paragonare ad una tetrade Lidia-Dominante. Joseph Schillinger è stato uno degli insegnanti di George Gershwin soprattutto nel periodo della composizione di “Porgy and Bess” e in quest’opera si individuano delle attinenze con la musica di Skrjabin come ad esempio nella sezione B di “I Loves you Porgy”, dove troviamo sette-otto accordi con quinte e none alterate in rapida successione che fanno suonare l’episodio molto “jazzy” ma al tempo stesso anche skrjabjniano!”.

-Se non sbaglio tu hai anche preparato un progetto piuttosto originale su Skrjabin…

“Si, ho preparato un progetto su Skrjabin che nasce proprio dal fatto che il mio sentire , dopo il diploma di musica classica, collegava i due mondi forse anche in maniera inconscia. Ho estrapolato dei temi , dei frammenti dalle composizioni di Skrjabin e li ho rielaborati in chiave jazzistica, cercando però immediatamente, come primo must, di evitare il kitsch che è sempre in agguato in operazioni di questo tipo. Ritmicamente ho cercato di usare molto poco lo swing”.

-Credo tu voglia riferirti all’album “Round about Skrjabin” inciso per Artesuono nel marzo del 2010 con Saverio Tasca al vibrafono e Giovanni Maier contrabbasso.

“Esatto. In questo album penso che ci sia solamente un 5-10 % di swing a scapito invece invece di un largo uso di soluzioni ritmiche in ottavi regolari. Il progetto è nato parlando con il contrabbassista Giovanni Maier ed il vibrafonista Saverio Tasca anche loro estimatori di Skrjabin. Successivamente ho dedicato due anni a ricercare ed elaborare il materiale per questo progetto.”

-Tutto ciò ha influito sulla tua maniera di comporre?

“Credo proprio di sì; l’ascolto attento, lo studio della musica di Skrjabin in qualche maniera ritorna nel mio approccio alla composizione e all’improvvisazione. Cerco però sempre di trovare un equilibrio, perché nel jazz ci sono comunque dei canoni ai quali bisogna in qualche modo sottostare; nonostante non sia una musica fatta di regole e dogmi, ci sono degli obblighi sottintesi e delle prassi che è bene rispettare. In questo la ritmica che ho attualmente ( Serafini e Colussi) mi aiuta molto perché conosce numerose stimolanti soluzioni di accompagnamento e quindi mi indirizza e mi sostiene nell’improvvisazione”

-Attualmente a quanti progetti lavori?

“Credo che si debba lavorare a tanti progetti per scoprire quali veramente siano quelli da portare avanti. Recentemente ho suonato con Ares Tavolazzi e Nico Gori e anche in questa occasione si è creato un buon feeling, ma per ora non abbiamo sviluppato un progetto preciso. Inoltre sono ancora attivo nel campo classico: in particolare in questo periodo ho un gruppo molto singolare composto da ben dodici pianoforti con cui affrontiamo un repertorio che va da Bach a Mussorgsky, finanche alla musica balcanica e al pop. Con questo progetto si cerca di avvicinare il pubblico alla musica classica. E’ un’esperienza assolutamente diversa, ma molto interessante perché ci sono, come dicevo, dodici pianoforti con altrettante partiture diverse”

-Gli arrangiamenti sono tuoi?

“No, sono prevalentemente di Valter Sivilotti, un compositore friulano molto bravo, e di altri pianisti che fanno parte di questo gruppo. Inoltre lavoro spesso con delle vocalist. Mi piace accompagnare e così suono spesso con cantanti e tra queste mi trovo particolarmente bene con Francesca Bertazzo che è una cantante/chitarrista di Bassano del Grappa. Mi piacciono molto i quartetti vocali nello stile “Manhattan Transfer” oppure “New York Voices”: uno dei miei sogni nel cassetto è di riuscire a formare una big band con un quartetto vocale… Peraltro talvolta mi piace suonare in gruppi senza batteria come nel progetto discografico che ho realizzato nel 2004 con Salvatore Maiore al contrabbasso e Kyle Gregory , trombettista e flicornista americano. Il titolo dell’album , “Liricordo”, riassume in una sola parola il tentativo di legare assieme due importanti aspetti musicali, il lirismo e l’accordo”.

-Quanti album hai inciso?

“Di jazz sostanzialmente quattro. Il primo album è stato registrato nel ’98 in trio con Luca Colussi alla batteria e Roberto Franceschini al contrabbasso; questo CD, dal titolo “Se” (Aua), è dedicato al mio paese di nascita, Cave del Predil, che si trova nella punta estrema dell’Italia a Nord-Est. Un paese singolare che si è sviluppato attorno ad una miniera. Ho vissuto la mia gioventù in questo paese ricco di iniziative ed attività culturali dovute al fatto che la miniera offriva molto lavoro e senso di aggregazione e di conseguenza c’era un’intensa vita socio-culturale: c’era una scuola di musica, balletto, teatro e penso che sia nata proprio da lì la mia passione per la musica; ho voluto dedicare questo disco al mio paese per celebrare questo strano ma validissimo connubio tra la fatica del minatore e la voglia di fare attività artistiche, musicali, teatrali. Poi c’è stato “Liricordo” (Splasc’h) nel 2004 con mie composizioni influenzate in modo particolare da un seminario con John Taylor e Kenny Wheeler . Nel 2010 è uscito “Round about Skrjabin” (Artesuono) su cui ci siamo già soffermati in precedenza. Per ultimo c’è “Giammai” (Artesuono), progetto con il quale credo di essere giunto ad un’efficace sintesi compositiva. E per questo lavoro di sintesi tra la complessità e la semplicità un “orecchio” di riguardo è andato anche nei confronti del pubblico cercando di non eccedere in complessità forzate fine a se stesse. E’ vero che nel jazz la ricerca, la sperimentazione e l’improvvisazione sono elementi di primaria importanza, ma ritengo ci sia bisogno di comunicare maggiormente con il pubblico, altrimenti finisce che ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli”

 

 

 

 

Addio, John

Articolo di Luigi Onori
Foto di Daniela Crevena

A volte le parole suonano vuote ed inutili, poca e fragile cosa per ricordare la pienezza e la bellezza della vita, in questo caso, del pianista inglese John Taylor. Amato, conosciuto ed apprezzato in Europa (profonda la sua unione con Norma Winstone e con Kenny Wheeler, altro grandissimo artista che ci ha lasciato) ed in Italia (tra gli altri ha collaborato intensamente con Paolo Fresu, Maria Pia De Vito e Diana Torto) Taylor è passato dalla musica alla morte nel giro di poche, drammatiche ore.

Il 17 luglio scorso stava suonando al Jazz Festival di Segré (Francia, Pays de la Loire) quando si è sentito male. Trasportato all’ospedale di Angers, non è stato possibile salvare il settantaduenne pianista inglese che  è spirato in breve tempo. Tra i tanti appuntamenti della sua estate concertistica 2015 c’era quello di Barga Jazz (28° concorso internazionale di Arrangiamento e Composizione per Orchestra Jazz, in Garfagnana) dove sarebbe stato celebrato nella sua veste, peraltro notevolissima, di compositore. Fin qui le notizie, alcune; poi – prima di tutto – c’è il dispiacere per la scomparsa di un musicista che chi scrive ha avuto la fortuna di sentire in tante occasioni: esse restano, in modo vivido,  impresse nella memoria sonora ed esistenziale. Ricordo, in particolare, un concerto in trio con Paolo Fresu e Furio Di Castri giocato sul filo rischioso ed avventuroso dell’interplay (ad Aosta); un bel recital su un progetto di Maria Pia De Vito (“Phoné”, Along Came Jazz Festival di Tivoli) in cui la vocalist e John  Taylor erano i trascinanti “motori”: lei con l’estroversa energia del suo canto, lui con sotterranea, solidissima opera di accompagnamento. Ancora un piano solo (probabilmente romano) di lucida nettezza, in cui l’artista inglese metteva in luce una ferrea, quasi implacabile razionalità costruttiva che, però, si abbandonava al trasporto dell’emozione e dei sentimenti. Ciò era evidente nel suo stile pianistico: asciutto, quasi tristaniano ma pronto a prendere un (controllato) volo sui sentieri dell’emozione ed a farsi eufonico e cantabile. Ed è emozionante ascoltare, come prima traccia mentre sto scrivendo, una sua bella composizione dal titolo “Consolation” (incisa dall rodato trio con il contrabbassista Palle Danielsson ed il batterista Martin France, dall’album “Whirlpool”, CamJazz 2007).

Taylor era nato a Manchester nel 1942 e a ventisette anni (1969) collaborava con i sassofonisti Alan Skidmore e John Surman. Alla fine degli anni ’70 iniziò a comporre per il suo sestetto e non gli mancavano impegni:  accompagnava la cantante Cleo Laine e lavorava con molti jazzisti internazionali scritturati nel noto club londinese Ronnie Scott ed il pianista era membro del quintetto di Scott. Un anno davvero importante nella sua carriera fu il 1977, quando fondò il trio Azimuth con la cantante Norma Winstone ed il trombettista-flicornista Kenny Wheeler: l’innovativa formazione “da camera” ebbe un notevole successo, documentato dalle registrazioni Ecm e da svariati tour in Europa, Usa e Canada. Negli anni ’80 l’intensa attività di Taylor lo vide sidemen in formazioni guidate da Gil Evans, Lee Konitz, Charlie Mariano, Enrico Rava e Jan Garbarek, in duo con il percussionista Tony Coe ed il sassofonista Steve Arguelles (uno dei suoi partner musicali più consolidati); numerose anche le commissioni compositive, dal coro inglese Cantamus alla Hannover Radio Orchestra.

Membro stabile di tutti gli ensemble di Kenny Wheeler (dal quartetto alla big-band), John Taylor ebbe modo di rinnovare la sua collaborazione con John Surman e, durante gli anni ’90, di far parte del prestigioso trio del batterista Peter Erskine (con il contrabbassista Palle Danielsson). <<La fortunata idea di collaborare con John Taylor e Palle Danielsson – ha scritto Erskine nella sua autobiografia “No Beethoven”, Arcana 2015 – ebbe come risultato quattro dischi caratterizzati dal grande affiatamento che crearono una vera e propria nicchia nel mondo della musica su disco. Non assomigliano a nessun altro disco che abbia mai ascoltato o realizzato (…) John Taylor è un ottimo musicista e un compositore prolifico>> (p.162)

Nell’ultimo quindicennio dell’intensa carriera del pianista e compositore si possono ricordare alcuni episodi salienti. Nel 2000 rinnovò la collaborazione con il trio Azimuth ed incise l’album “Verso” con Maria Pia De Vito ed il chitarrista Ralph Towner (Provocateur). Celebrò il suo sessantesimo compleanno nel 2002 con un Contemporary Music Network Tour che vide il nuovo trio con Marc Johnson e Joey Baron e La Creative Jazz Orchestra che eseguiva la composizione originale “The Green Man Suite” (premiata quale “Best New Work” dai BBC Jazz Award).  Dal 2004 registrò molti album (svariati per la CamJazz di Ermanno Basso) con Kenny Wheeler, Charlie Haden,  in trio con Danielsson/France. Come didatta John Taylor era stato docente di piano jazz al Cologne College of Music dal 1993 e nel 2005 era diventato “lecturer in jazz” alla York University.

Davvero imponente la sua discografia che conta incisioni in solo, in trio (Chris Lawrence / Tony Levin; Arguelles / Mick Hutton; Johnson / Baron…), Azimuth, in sestetto, in orchestra. Le collaborazioni discografiche lo hanno visto impegnato con Arild Anderson, Arguelles, Harry Beckett, Ian Carr, Graham Collier, Martin Drew, Peter Erskine, Gil Evans, Jan Garbarek, Mike Gibbs, Charlie Haden, Don “Sugarcane” Harris, Lee Konitz, Vince Mendoza, Enrico Rava, Ronnie Scott, Alan Skidmore, Stan Sulzmann, John Surman, Steve Swallow, David Sylvian, Colin Towns, Kenny Wheeler, Miroslav Vitous, Maria Pia De Vito, Diana Torto, Eric Vloiemans, Attilio Zanchi.

Mi limito a segnalare, per i nostri lettori, alcuni tra gli album degli ultimi anni.

Diana Torto / John Taylor / Anders Jormins, “Triangoli”(Astarte, 2008). Basato su una felice interazione tra i tre strumentisti e, soprattutto, tra musica e poesia, l’album vede una caratterizzante presenza di John Taylor. Scrive nelle note di copertina Claus Christian Schuster: <<Taylor, all’inizio di “Feel Day” crea un ambiente in cui – mirabile dictu – si comincia a operare fra Debussy e Webern una simbiosi non solo possibile ma inevitabile. E in ogni singola battuta delle sue composizioni il pianista inglese riesce a guardare in maniera creativa e personale all’eredità musicale degli ultimi secoli>>. Una autentica magia tra voce, piano e contrabbasso.

John Taylor, “Songs and Variations” (CamJazz, 2005); “Phases” (CamJazz, 2009). Due album per sondare ed apprezzare le capacità compositive e tecnico-strumentali-espressive di Taylor, in entrambi solo con il suo pianoforte. Il primo album è stato registrato nell’Artesuono Recording Studio di Cavalicco (Udine) da Stefano Amerio; il secondo ai Bauer Studios di Ludwigsburg da Johannes Wohlleben. Taylor è spettacolare sotto il profilo melodico, timbrico, ritmico ed armonico. <<Amo ogni cosa che fa… fantastico!>> aveva scritto nelle note di copertina del 2005 Kenny Wheeler, e dell’amico trombettista-flicornista è l’unica composizione tra le complessive ventitre firmata non dal pianista, l’ammaliante “Fedora”.

John Taylor, “Requiem for a Dreamer” (CamJazz, 2011). E’ una suite in sette parti (46 minuti circa) commissionata nel 2007 e presentata nel 2008 in un tour inglese con Julian Arguelles, Palle Danielsson e Martin France. La musica è dedicata ed ispirata al narratore americano Kurt Vonnegut ed al suo <<fictional ater ego, science fiction writer, Kilgore Trout>>. Fantascienza sonora.