La storia di “Udin&Jazz” nei 100 scatti di Luca d’Agostino

i 100 scatti

Può la storia di un Festival lunga 25 anni essere adeguatamente compendiata in 100 scatti? Sì, se a scattare le foto è un professionista serio e competente come Luca Alfonso d’Agostino.

Abbiamo conosciuto Luca parecchi anni fa quando siamo stati invitati per la prima volta a “Udin&Jazz”; lo abbiamo ritrovato questi ultimi due anni pronto al sorriso, disponibile, collaborativo e appassionato come sempre… insomma, per dirla fuori dai denti, Luca è uno “che non se la tira…”.

Di converso basta guardare attentamente le sue opere per rendersi conto di come d’Agostino viva la musica: le sue foto mai sono statiche ma raccontano una storia, presuppongono un prima e lasciano immaginare un dopo. “La foto di spettacolo più bella – racconta – arriva quando conosci l’artista fino a sapere quando farà un determinato gesto, perché ci hai passato ore assieme e non ti sei limitato a 3 minuti sotto il palco”.

Per averne ulteriore conferma basta soffermarsi su questo interessante volume non a caso intitolato “i 100 scatti – 25 anni di Udin&Jazz” , scatti che sino a domenica 5 luglio sono stati ospitati dalla Galleria fotografica ‘Tina Modotti’ .

Il volume è diviso in quattro sezioni: la prima, “a/solo”, consta di 52 foto, ed è dedicata a ritratti di singoli artisti italiani e stranieri; la seconda ,intitolata “cerchio/quadrato/triangoli/diagonali”, è composta da 9 scatti in cui Luca evidenzia un gusto particolare per la “costruzione” dell’immagine; la terza, “dialogiche”, comprende 14 immagini  che a nostro avviso rappresentano forse la parte più significativa del volume in quanto “ritraggono” un elemento determinante per il jazz: l’intesa tra i protagonisti di questa musica; nell’ultima sezione – “paesaggi” – possiamo apprezzare 25 foto in cui si narra un’altra dimensione del jazz, quella del contesto in cui questa musica trova la sua ragion d’essere. Insomma una sorta di guida che prendendoci per mano ci permette di capire cosa questa musica ha rappresentato e ancora rappresenta nella realtà di oggi.

Il volume è corredato da una introduzione di Flavio Massarutto che lumeggia efficacemente l’importanza del festival udinese nei suoi 25 anni di storia sottolineando come questa manifestazione abbia saputo ben interpretare i tumultuosi cambiamenti che hanno segnato la storia recente di questa meravigliosa musica. Di qui, scrive ancora Massarutto, “scorrendo i programmi delle 25 edizioni si può cogliere l’incessante sforzo di proporre contesti e contenitori in grado di attrarre il pubblico”… ma nello stesso tempo “la ricerca di artisti innovativi”.

E il merito principale di queste scelte va senza dubbio alcuno al direttore artistico e vera anima del Festival, Giancarlo Velliscig, che interviene a chiusura del volume evidenziando da un canto come il racconto di questo quarto di secolo in musica trovi il suo filo d’Arianna e i suoi contorni precisi  nella memoria grazie ai tasselli disseminati da Luca d’Agostino, dall’altro il fatto che il festival sia stato determinante  nell’aver messo a contatto i grandi del jazz internazionali con i musicisti locali agevolandone la crescita. Il volume comprende anche l’elenco dei cartelloni di tutti questi 25 anni.

Come avrete capito, di foto importanti  ce ne sono tante, comunque alcune ci sembrano particolarmente significative: ecco quindi Jimmy Giuffre del ’93, McCoy Tyner con Michael Brecker del 1996, Amiri Baraka e Pharoah Sanders del 2008, particolarmente emozionante l’immagine di Petrucciani con Velliscig del ‘98, tutti personaggi celebri… ma c’è spazio anche per i giovani: Clarissa Durizzotto, Mirko Cisilino con Leo Virgili del 2012… così come non mancano le immagini attraverso cui si raccontano altri aspetti del jazz: nel 2014 il concerto di Pat Metheny a Villa Manin venne annullato a causa del maltempo e l’istantanea di Luca fa rivivere quei momenti, con il pubblico che si ripara e il palco desolatamente vuoto.

La Prefazione di Luigi Onori al volume Roberto G. Colombo: “Tracce sfumate”

E’ uscito nel giugno scorso un interessa te ed inconsueto volume del chitarrista e musicologo Roberto G. Colombo: “Tracce sfumate. Storie di jazz che le storie del jazz non raccontano” (Erga Edizioni, pp.152,  14 euro).

La prefazione al testo è stata scritta dal nostro collaboratore Luigi Onori e la pubblichiamo (con l’autorizzazione di Colombo) per segnalare le tematiche affrontate.


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Prefazione

Roberto G. Colombo ha già regalato ai cultori ed agli appassionati di jazz due approfonditi testi dedicati a Django Reinhardt (2007) – con la sua “via non americana al jazz”, uno dei temi centrali nella riflessione dell’autore – e a Charlie Christian (2009) all’interno di “una storia filosofica della chitarra jazz”.

In “Tracce sfumate” Colombo sceglie di raccogliere  sei saggi scritti tra il 2011 ed il ‘15, cui aggiunge un inedito degli anni ’90 (sul rapporto tra solismo e composizione). Passa così dai chitarristi-cardine della storia del jazz (quindi dalla “macrostoria”) ad una serie di “microstorie” che approfondiscono al microscopio argomenti storici, musicologici, organologici spesso tra loro intrecciati che hanno come oggetto musicisti sconosciuti, modelli di chitarra, album celebri… Proporre insieme i sette saggi è anche un’occasione per il lettore di vedere come dietro a studi più ampi ed organici ci sia un lavorìo critico-analitico che nutre ed alimenta le “macrostorie”; indagare su aspetti solo in apparenza secondari consente, in realtà,  di giungere a questioni fondamentali che riguardano il jazz nella sua complessità di musica del Novecento. Il saggismo di Colombo – docente di Filosofia e Storia, chitarrista, musicologo e compositore –  offre infatti una serie di “spaccati musical-discografici” ricchi di riferimenti sociali e critici, documentati con quel rigore estremo e quell’ampiezza dei dati ai quali l’autore ci ha abituato. Il tutto viene espresso con un linguaggio chiarissimo, che poco o nulla concede al letterario o all’aneddotico, anche se in alcune sue parti “Tracce sfumate” è di certo un libro per iniziati.

Al centro – materiale ed ideologico – del volume spiccano i saggi “To Free or Not to Free” e “Parker e i chitarristi”: il primo è lo studio più ampio e l’unico che non abbia come oggetto chitarristi e chitarre ma l’album di Sonny Rollins “Sonny Meets Hawk”  del 1963, studio caratterizzato da una prospettiva di indagine originale di cui si parlerà; il secondo passa in rassegna i chitarristi che hanno attraversato il bop, soprattutto nella sua fase iniziale, per rivelare uno strumentista quasi completamente sconosciuto (Ronnie Singer, morto nel 1953).

L’inizio e la fine del volume vedono, invece, le vicende esemplari di due chitarristi italiani (uno napoletano e l’altro siciliano) quali Henri Crolla ed Alfio Grasso nel loro agire in Francia e in Germania (“Un italiano a Parigi”; “Un italiano a Berlino”). Incastonati tra questi tasselli due saggi “organologici” che hanno come argomento “La chitarra ecumenica” e “La chitarra trasversale”, pagine in cui Roberto G.Colombo scava in modo approfondito e specifico tra liutai, pick-up, registrazioni.

All’interno di questo impianto generale è importante evidenziare un metodo di lavoro e di studio che si fonda su un ascolto attento, analitico e comparato delle fonti sonore, con riferimenti sempre puntuali. Altrettanto l’autore fa con le fonti documentarie italiane e straniere, svolgendo nei suoi scritti una preziosa funzione di divulgazione di una saggistica quasi mai tradotta in italiano; peraltro si sondano, in modo critico, anche le pubblicazioni su web con una precisa azione di filtro e “validazione”.  Ciò, tuttavia, non è volto a fini accademici o di referenzialità ristretta: Roberto G. Colombo con le sue “storie di jazz che le storie del jazz non raccontano” (come recita il sottotitolo del volume) mette in luce argomenti importanti quali la creazione di un jazz europeo non imitativo rispetto a quello americano, il ruolo svolto dalle comunità italiane (e non solo) nel melting pot sonoro americano, il processo di sviluppo artistico nelle sue fasi di crisi e contraddizione, lo scontro/incontro generazionale, i “modelli stilistici” ed il rapporto con essi.

Mi si consenta, ora, di percorrere velocemente i saggi per enuclearne i passaggi salienti, rimandando alla loro lettura integrale perché è questa che davvero conta.

“Un italiano a Parigi” parla di Henri Crolla, chitarrista napoletano vissuto nella Francia della Quarta Repubblica, un musicista che accompagnava, improvvisando, le poesie di Jacques Prévert ed era spesso al fianco di Yves Montand. Egli <<ha dimostrato che è possibile partecipare all’elaborazione di un jazz autenticamente europeo senza necessariamente essere plagiati da colui che ne è stato in qualche modo il fondatore (…) Reinventare Django Reinhardt per legittimare l’aspirazione a praticare la musica afroamericana nel vecchio continente: è stato questo il programma estetico di Henri Crolla, l’ideologo dell’universalità del jazz>>.

Nel dettagliato percorso de “La chitarra ecumenica” si ricostruisce la figura del liutaio dell’Illinois Bill Barker (chitarrista ed insegnante di jazz), esponente di una delle due linee di liuteria impostesi negli Stati Uniti: una linea svedese (a cui apparteneva) e una linea italiana. Egli, contro tutti i collezionismi, <<era convinto, infatti, che le chitarre andassero suonate, piuttosto che esposte o contemplate. La chitarra è, per definizione, strumento: mezzo, non fine. Strumento per esprimere la propria visione del mondo o, più semplicemente, se stessi>>.

“To Free or not to Free?” ha come suo fulcro l’incisione nel 1963 di “Sonny Meets Hawk” da parte di Rollins e Coleman Hawkins al sax tenore, Paul Bley al piano e sezione ritmica, dopo un’esibizione a Newport organizzata da George Wein. Colombo giunge alla registrazione dopo aver passato al setaccio i quattro anni che precedono l’incisione, indagando nelle carriere ed inquietudini dei tre musicisti di differenti generazioni. Si sofferma su Rollins, affascinato dal free jazz e <<dall’idea di poterne essere considerato un autorevole esponente. Ma c’era, in lui, come un freno inibitore che lo tratteneva (…) per dirla in termini freudiani, è un po’ come se il giovane Sonny avesse introiettato la figura del padre elettivo (Hawkins) senza più riuscire, in seguito, a sbarazzarsene>>. Analizza anche il padre del sax tenore ed il giovane pianista di origine canadese così vicino al “jazz informale” di Ornette Coleman. <<Tre percorsi diversi, ma, convergenti, conducono Sonny Rollins, Coleman Hawkins e Paul Bley a incrociarsi sul palco di Newport, per ritrovarsi una settimana dopo in studio di registrazione. Trattasi di rotte di collisione? Apparentemente, sì: futuro contro passato, allievo contro maestro, free come scelta (Bley) contro free come problema (Rollins) (…) Eppure tutti e tre i musicisti condividono la volontà di andare oltre il già noto, di superare se stessi, di contribuire ad un profondo rinnovamento del linguaggio musicale consolidato>>. Qui mi sembra risiedere una delle lezioni fondamentali del jazz, unita all’analisi dettagliata del travaglio che porterà Sonny Rollins a trovare un nuovo, dinamico, possente e meraviglioso equilibrio artistico.

“Parker e i chitarristi” passa in rassegna Tiny Grimes, Arvin Garrison, Remo Palmieri, Barney Kessel per giungere a colui che <<sembra possedere la chiave per tradurre fedelmente sulla chitarra le linee complesse di Bird. Si tratta di Ronnie Singer, morto suicida nel 1953 alla giovanissima età di 25 anni>>. Qui Colombo divulga le ricerche  del chitarrista Axel Hagen, cui si deve la riscoperta recente  di  Singer, basata su una manciata di registrazioni amatoriali dove appare <<il tassello mancante nella storia della chitarra jazz: un esempio inconfutabile di come lo strumento che era stato al servizio delle grandi orchestre da ballo potesse infine padroneggiare, complice la rivoluzione elettrica di Charlie Christian, persino un codice che sembrava essere stato formulato ad hoc per trombe e sassofoni>>. E’ opinione di Hagen – e Colombo è d’accordo – che <<la storia della chitarra jazz si sarebbe sviluppata diversamente se il talento di Ronnie Singer avesse avuto solo il tempo di fiorire attraverso una serie di registrazioni ufficiali>>. Ciò fu concesso (dal destino? dalla Storia? dagli uomini?) a Christian e a Jimmy Blanton ma non a Singer, morto di overdose.

Ne “La chitarra trasversale” oggetto d’indagine è la Gibson ES-300, in particolare quando nel 1946 l’usarono l’esperto George Barnes e <<il novizio>> Django Reinhardt che la impiegò per il tour americano ma che poco era avvezzo allo strumento elettrico. Di grande respiro è l’ultimo saggio – “Un italiano a Berlino” – in cui l’autore si serve delle tesi di Tom Williams per spiegare la costante presenza di italoamericani nelle vicende chitarristiche del jazz e della musica statunitense. Si parte dal “Concerto per mandolino e orchestra” di Antonio Vivaldi per arrivare alle ondate migratorie tra fine Ottocento ed inizio Novecento, gravide di strumenti a corda. Del resto sarà Nick Lucas (Lucanese) ad incidere nel 1922 i primi brani per sola chitarra. In riferimento a Joe Pass, che fu incoraggiato dal padre, Williams precisa che <<il patrimonio musicale italiano (folclorico, classico, operistico) avrebbe fornito il terreno favorevole perché venisse coltivato un talento naturale che, in  altre condizioni, avrebbe potuto essere trascurato (..) aggiungendo che (…) la chitarra (…) in una famiglia di immigrati può diventare una preziosa fonte di reddito  finanche uno strumento di promozione sociale>>. Colombo, dopo aver citato importanti chitarristi italiani quali il friulano Luciano Zuccheri e il pugliese Cosimo Di Ceglie, si sofferma sul siciliano trapiantato in Germania Alfio Grasso. Solista originalissimo, in apparenza senza modelli, si rifaceva – secondo lo studioso italiano – all’argentino trasferito in Europa (1929-1939) Oscar Alemàn.

Ora le “tracce” sono meno sfumate e la storia si è fatta più nitida.