Manomanouche Trio @ Zingarò Jazz Club, Faenza

Manomanouche Trio
Nunzio Barbieri. chitarra acustica
Luca Enipeo. chitarra acustica
Pierre Steeve Jino Touche. contrabbasso

Mercoledì 21 ottobre. ore 22

Zingarò Jazz Club
Faenza (RA). Via Campidori, 11.
web: www.twitter.com/zingarojazzclub ; www.facebook.com/zingaro.jazzclub

Mercoledì 21 ottobre, alle 22, il palco dello Zingarò Jazz Club di Faenza ospita le atmosfere gipsy del Manomanouche Trio composto da Nunzio Barbieri e Luca Enipeo alle chitarre acustiche e da Pierre Steeve Jino Touche al contrabbasso. Il concerto avrà inizio alle 22 ed è ad ingresso libero.

Il progetto Manomanouche nasce nel 2001 dall’incontro di musicisti di differente estrazione, con l’intento di far conoscere ad un pubblico più vasto la cultura e la tradizione musicale degli zingari Manouches. Il trio ha consolidato negli anni uno stile sempre più personale, senza mai dimenticare le radici del Gipsy Jazz, grazie alla qualità della ricerca e alla sensibilità artistica dei suoi componenti.

Manomanouche si è affermato, nel corso degli anni, nel circuito dei festival jazz per la qualità della ricerca e per la loro sensibilità artistica. L’intensa attività concertistica li porta, da un lato, a consolidare uno stile sempre più personale e, dall’altro ad avviare collaborazione con molti artisti di livello nazionale ed internazionale. L’essenza dei Manomanouche è stata sempre caratterizzata da un originale e personale lavoro sul suono e sulle dinamiche: una musica, rigorosamente acustica, basata sull’improvvisazione, aperta alle contaminazioni, derivante principalmente dalla fusione di swing, folklore tzigano e melodia italiana. Il repertorio comprende arrangiamenti di brani di Django Reinhardt, alcuni standard e nuove composizioni originali.

I concerti dello Zingarò Jazz Club sono “accompagnati” dall’esposizione delle foto scattate da Lorenzo Gaudenzi ai protagonisti delle precedenti stagioni del club faentino.

Il prossimo appuntamento con lo Zingarò Jazz Club è in programma mercoledì 28 ottobre 2015 con il concerto del Fazzini-Fedrigo XY Quartet.

Lo Zingarò Jazz Club si trova a Faenza, in Via Campidori, 11.

A Ruvo di Puglia il Talos riafferma la propria identità

Minafra2 e Talos

Pino Minafra

Come altre volte sottolineato in questo stesso spazio, a nostro avviso i molti Festival di jazz che si svolgono nel nostro Paese hanno oramai perso buona parte della loro originaria valenza, eccezion fatta per quelle manifestazioni fortemente legate al territorio che quindi portano avanti istanze locali e/o producono qualcosa di duraturo che vada al di là dei concerti e/o ci aiutino a riflettere su vicende che vanno ben al di là del fatto meramente musicale.

Ad esempio – e anche questo l’abbiamo già scritto – il Festival di Udine si fa apprezzare soprattutto per il grande lavoro svolto nel promuovere i musicisti locali. Alla categoria dei festival “utili” va iscritto, a buon diritto, il Talos Festival di Ruvo di Puglia svoltosi dall’1 all’11 ottobre scorsi.

Quanti hanno letto l’intervista a Pino Minafra, ideatore, curatore, direttore artistico e vera e propria anima della manifestazione, si ricorderanno di quanto sia stato difficile organizzare quest’anno il Festival in mancanza, quasi assoluta, di fondi pubblici; ebbene, bisogna dare atto al musicista, compositore e arrangiatore pugliese, ed alla sua straordinaria squadra di volontari, di essere riusciti ad organizzare in poco tempo un cartellone di assoluto rilievo che risponde, appieno, a quelle caratteristiche cui prima si faceva riferimento. Nel libretto illustrativo del festival, Minafra scrive che è stata “una lotta incessante contro ignoranza , pregiudizi, immobilismo e oggi crisi economica, politica e feroce burocrazia”. Una lotta per riaffermare il diritto del Sud a non accettare un mondo violento aggressivo, schiavo di un mercato senza scrupoli e quindi desideroso di proseguire un proprio viaggio esistenziale.

In quest’ambito Minafra ed il suo Festival portano avanti, oramai da anni, una battaglia d’assoluta avanguardia: dare finalmente dignità alle bande che specie in Puglia rappresentano una realtà, viva e palpitante; proprio per questo si sta cercando di organizzare una serie di convegni per sensibilizzare – utilizziamo ancora le parole di Minafra – “politici ad alto livello affinché sia promulgata una legge che dia ai molti ragazzi che escono dal Conservatorio una certa tranquillità nel senso di poter trovare nella banda un’occasione di lavoro”. Di qui la proposizione, durante il Festival, di una serie di bande e formazioni giovanili che hanno caratterizzato i primi sette giorni della manifestazione.

Giovedì 8 ottobre è iniziata la fase finale (cui abbiamo assistito) che data l’incertezza del tempo è stata organizzata al Palazzetto dello Sport, certo non il luogo ideale per ascoltare dei concerti ma che tuttavia, quest’anno, grazie ad alcune modifiche, ci ha fatto ascoltare musica in buone condizioni.

In apertura di serata, l’8, il duo Louis Sclavis e Michele Rabbia… ed è stato davvero un bel sentire! Louis Sclavis è un clarinettista che non esiteremo a definire eccezionale; in possesso di una tecnica prodigiosa, posta comunque sempre al servizio dell’espressività, è in grado di produrre architetture sonore di grande respiro. La respirazione circolare, produrre un suono soffiato, suonare lo strumento senza bocchino e senza ance, ricavare note di senso compiuto solo picchettando sulle chiavi sono alcune delle tecniche che Sclavis ha messo in mostra in un colloquio serrato e entusiasmante con il compagno di avventura. Il tutto, come ci ha confermato lo stesso Sclavis in una breve intervista che pubblicheremo tra qualche giorno, all’insegna dell’improvvisazione più totale: nessun punto fermo, nessun appuntamento definito, ma solo la gioia di suonare, il lasciarsi trasportare dalla propria musicalità sicuri che il partner è lì pronto ad accogliere ogni tuo suggerimento e a farsi egli stesso protagonista di un nuovo segmento di percorso.

Ovviamente un discorso del genere postula che ambedue gli artisti siano di assoluto spessore… e così è stato. Michele Rabbia – ma non lo scopriamo certo adesso – è stato all’altezza della situazione dialogando magnificamente con l’artista francese. Grazie alla sua straordinaria fantasia, che gli consente di esprimere sulle percussioni una tavolozza coloristica di grande originalità, Rabbia si è dimostrato ancora una volta un vero e proprio poeta delle percussioni, un artista straordinariamente fertile e creativo.

In seconda serata la “Cypriana” con musiche di Nicola Pisani e drammaturgia di Maria Luisa Bigai. Ecco, quando sopra accennavamo a musiche che fanno riflettere, questa ne è un chiaro esempio. Quanti conoscono la storia di Cipro? Sicuramente non molti e siamo sicuri che l’ascolto di quest’opera avrà spinto molti a saperne di più. Ma come è nata “Cipryana”? Nel 2011, Yiannis Miralis, docente di strumento ed educazione musicale al Dipartimento delle Arti/Musica dell’Università Europea di Cipro, ebbe l’idea di realizzare un’opera per celebrare il cinquantesimo anniversario della Fondazione della repubblica di Cipro. Attraverso il coinvolgimento di varie istituzioni pubbliche è così nata questa partitura composta e diretta da Nicola Pisani ,valente sassofonista, compositore e arrangiatore nonché coordinatore del Dipartimento Jazz del Conservatorio di Cosenza. L’opera si basa su temi musicali tratti dal repertorio tradizionale cipriota ma inseriti in un contesto di musica contemporanea con momenti di drammaturgia, altamente evocativi, comprendenti poesie e testi di poeti greci e ciprioti nonché frammenti di lettere di condannati a morte altamente drammatici, selezionati ed elaborati da Maria Luisa Bigai , regista, attrice e docente di Arte Scenica presso il Conservatorio di Napoli. Alla testa dell’Orchestra Calabra e del Coro Polifonico Ottavio De Lillo anche a Ruvo la “Cypriana” ha ottenuto quel meritato successo che aveva già contraddistinto la sua esibizione a Roma nel 2012. In effetti Pisani ha confermato di avere un pensiero musicale profondo, originale che si evidenzia tanto nei momenti di composizione estemporanea quanto nella conduzione dell’orchestra guidata magnificamente attraverso i meandri di una partitura non facilissima. Di qui il bell’impasto di suoni, l’intreccio mirabile fra strumenti e voci e il perfetto inserimento di quei momenti drammaturgici cui prima si faceva riferimento. Alla fine più che meritata l’ovazione del numeroso pubblico .

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Venerdì 9 ottobre ben tre appuntamenti, Nel pomeriggio, presso la splendida Cattedrale, un duo di livello internazionale: la violinista Maya Homburger e il contrabbassista Barry Guy. I due, che fanno coppia sia sul palcoscenico sia nella vita, hanno presentato un non facile repertorio incentrato sulla connessione tra musica improvvisata e musica antica barocca. Un connubio sulla carta difficilissimo ma , come si è dimostrato, alla portata di questi due grandi artisti: lei è, infatti, unanimemente riconosciuta come una delle più grandi virtuose del violino barocco mentre Barry Guy è musicista che ha scritto alcune delle pagine più significative del jazz contemporaneo avendo guidato, tra l’altro, la “London Jazz Composer” e partecipando al trio di Evan Parker. Di qui un set di grande classe che ha entusiasmato gli spettatori purtroppo non particolarmente numerosi.

In serata apertura con un altro duo internazionale… ed anche in questo caso musica che fa riflettere. Sul palco c’erano, infatti il pianista ucraino Vadim Neselovskyi e il multistrumentista russo Arkady Shilkloper, come a dire gli esponenti di due nazioni in guerra che però sul palco, grazie alla musica, ritrovano le ragioni di una profonda unità. La musica proposta dai due artisti è stata davvero toccante, emozionante. Specialista di corno, flicorno e alphorn (leggi corno alpino) l’artista russo ha sciorinato il meglio del suo vasto repertorio costruito attraverso tanti anni di militanza in varie band e orchestre. Dal canto suo il pianista e compositore ucraino si è fatto conoscere dal pubblico del jazz suonando nei vari gruppi guidati da Gary Burton, esperienze cui da qualche anno ha affiancato l’attività di docente presso la Berklee College of Music. Vadim e Arkady collaborano oramai da alcuni anni e hanno inciso un album “Krai” esemplificativo della loro arte, sempre in bilico tra improvvisazione e scrittura. Equilibrio mirabile che si è potuto ammirare anche nel concerto di Ruvo in cui i due, oltre che suonare assieme, si sono pure esibiti in pochi ma succosi interventi in solo.

ucraino

Vadim Neselovskyi

In seconda serata i “Funk Off” su cui mi consentirete di non divulgarmi ulteriormente.

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Sabato 10 ottobre per motivi legati alla non giovanissima età, abbiamo disertato gli appuntamenti pomeridiani per presentarci in buona forma ai due impegnativi concerti serali. Alle 20 quello che sulla carta avrebbe dovuto essere uno dei concerti clou dell’intera manifestazione: il piano-solo di Franco D’Andrea. Il musicista meranese ha oramai raggiunto un livello di maturità e di consapevolezza dei propri mezzi espressi tali da porlo ai vertici del pianismo jazz non solo italiano. Di qui l’attesa con cui il vostro cronista attendeva questo vero e proprio evento. Purtroppo il pubblico, che solo la sera prima aveva assistito ai concerti in religioso silenzio, questa volta è stato quanto mai distratto disturbando non poco l’esibizione dell’artista. Il quale, comunque, ha suonato da par suo: una serie di piccoli , deliziosi bozzetti, in cui D’Andrea ha riproposto alcuni standards rivisti alla sua maniera, inframmezzati da brani più lunghi. Il tutto legato da una straordinaria capacità di costruire strutture, da un linguaggio affatto personale e da quel grande amore per la tradizione che D’Andrea ha sempre rivendicato.

In seconda serata la MinAfric Orchestra; sapientemente guidata da Pino Minafra, la compagine, che si avvale dell’apporto di straordinari solisti quali, tanto per citare qualche nome, Roberto Ottaviano, Sebi Tramontana, Carlo Actis Dato, Vincenzo Mazzone, Livio Minafra, ha entusiasmato il pubblico – solo pochi minuti prima poco attento – con un suono assolutamente originale che, come nelle intenzioni del suo ideatore e conduttore, richiama fortemente lo spirito non solo del nostro Sud ma di tutto il Mediterraneo. Di qui, nel repertorio scritto dai Minafra (padre e figlio) e da Nicola Pisani, il riemergere di atmosfere, situazioni, umori in cui, almeno per noi gente del Sud, è facile ritrovarsi. Assolutamente straordinaria la coesione dell’ensemble con un bilanciamento ben studiato tra parti scritte e improvvisazione per cui quasi tutti i musicisti – non solo i solisti sopra citati – hanno trovato l’opportunità di esprimere il proprio potenziale. Un tocco in più è stato fornito dal quartetto vocale “Faraualla”, composto da Gabriella Schiavone, Maristella Schiavone, Terry Vallarella e Serena Fortebraccio, che sia cantando a cappella sia esibendosi in seno all’orchestra hanno evidenziato una vocalità e una coerenza alle tematiche suggerite da Minafra assoluta. Insomma un magnifico concerto che pone l’orchestra e il quartetto ai vertici del jazz made in Italy.

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Domenica 11 ottobre giornata conclusiva. In mattinata presentazione dei tre album che sono in qualche modo scaturiti dal Talos Festival ( “Rebel Flames”, “Born Free” e “Minafric” ) su cui ci soffermeremo successivamente nell’ambito della rubrica “I Nostri CD”. Nel pomeriggio, al Teatro Comunale “In Sudafrica: Round About Township. Storie urbane e di liberta”, spettacolo multimediale con le foto di Pino Ninfa e le musiche di Nicola Pisani ai sassofoni e Vincenzo Mazzone alla batteria. Ed è stato un viaggio, spesso emozionante, in una realtà per noi così lontana e quindi non facilmente comprensibile; ma le foto di Pino Ninfa ci hanno raccontato in maniera chiara, senza retorica, la vita di quelle lontane periferie urbane in cui la gente di colore cerca ancora oggi una propria dimensione senza alcunché perdere della propria dignità. Dal canto loro, sulla scorta delle immagini, Pisani e Mazzone hanno improvvisato una colonna sonora tanto suggestiva quanto pertinente.

La serata conclusiva era dedicata all’Albania e si articolava attraverso diverse situazioni tutte egualmente godibili, a tratti trascinanti. I primi a salire sul palco sono stati i componenti dell ‘ “Albanian Iso Polyphonic Choir” i quali si sono esibiti a cappella nella riproposizione di brani tradizionali. Il coro ci ha personalmente emozionati data la splendida vocalità di tutti i loro componenti e francamente avremmo preferito ascoltarli di più. Invece, dopo qualche pezzo, è salito sul palco, ad accompagnarli al piano, l’eccellente Robert Bisha, musicista vulcanico e di eccellente tecnica.

Successivamente ecco la Fanfara di Tirana, una brass band tra le migliori dell’intera area balcanica; in grado di scaricare sull’ascoltare una micidiale potenza di suono, l’orchestra ha conquistato i pubblici di tutta Europa riproponendo, in versione aggiornata , il patrimonio folkloristico albanese. Dopo una buona mezz’ora della loro esibizione, alla Fanfara si sono uniti i Transglobal Underground, ovvero uno scatenato gruppo inglese che si caratterizza per la capacità di mescolare suoni moderni e suoni etnici, reggae e jazz, con un sapiente uso dell’elettronica. A completare il tutto la voce di Hysni (Niko) Zela , definito un vero e proprio patrimonio della cultura albanese e per questo nominato ‘Gran Maestro delle Arti’. Così, la già trascinante musica degli albanesi si è fusa con l’irriverenza degli inglesi in una sorta di ribollente calderone che ha finito con l’entusiasmare molti giovani i quali si sono assiepati sotto il palco e hanno accompagnato la fase finale del concerto ballando con allegria.

 

 

Il suggestivo piano solo di Tigran Hamasyan

Le foto sono di Daniela Crevena

Basilica di Santa Maria maggiore, 13 ottobre 2015

Questo evento incastonato nelle tante e importanti iniziative della XIII edizione di Bergamo Scienza, subisce un inaspettato cambio di programma: il concerto previsto nella splendida basilica di Santa Maria Maggiore, Tigran Hamasyan pianoforte e The Yerevan State Chamber Choir, diventa un concerto di piano solo: i coristi sono fermi a Parigi per problemi di visto. Un po’ di delusione inizialmente c’è. Ma ascoltare Hamasyan è sempre un’ esperienza particolarmente suggestiva.
Non certo perché ci si imbatte nella “contaminazione” (termine a me inviso) tra musica armena e Jazz, non certo per un sapore “esotico – orientaleggiante”,un po’ da cartolina: c’è ben poco di strategico nel suono di Hamasyan, non c’è alcuna volontà di operare commistioni stupefacenti per strappare applausi. Hamasyan è armeno, ha un forte legame con la sua terra, e la musica che fa è la propria musica, forte uno stile personale e ben riconoscibile. E’ un’esperienza intensa perché evocativa, perché straniante, perché quei suoni apparentemente lontanissimi ci appaiono però più vicini e familiari di quanto immaginavamo. Questa dualità crea una tensione emotiva particolare che è davvero difficile spiegare.
I brani di questo bel concerto sono tratti dal repertorio religioso (che Hamasyan avrebbe dovuto suonare con il coro), qualche standard, e pezzi originali. Si comincia a capire il clima dai primi minuti di musica: accordi sospesi e intervalli aumentati, con momentaneo appoggio su accordi maggiori per poi ripartire con un andamento che si percepisce come circolare, cullante, e che lascia un po’ trasognati.
L’ armonia prevale sulla melodia, il suono e lo spessore sono quasi sempre pieni, e ad ascoltare vengono in mente suonatori di oud, ma anche certa musica tradizionale sarda, e il blues anche, e il medio oriente. E’ un rievocare dato dalla profondità della musica stessa, e non da una volontà oleografica predeterminata: è musica che involontariamente evoca ciò che c’è di comune, forse di archetipico tra culture lontane.
Hamasyan differenzia moltissimo il ruolo della mano destra da quella sinistra, che , molto spesso, ha una funzione re iterativa, ipnotica. Il suo reiterarsi riporta ad una atmosfera tradizionale e in alcuni casi rituale: è come se essa fosse la parte più “armena”, il vero legame sonoro con le origini di questo musicista che riesce, paradossalmente, ad essere musicista del mondo proprio in virtù di questa forte relazione con il suo paese. Ha una sicurezza dell’ esplorare propria di chi ha un porto sicuro dove tornare.
La mano destra improvvisa, ma da un punto di vista più ritmico che melodico: spesso la melodia è ristretta a piccole cellule di poche note, magari con un intervallo complessivo molto piccolo, anche di un solo tono, che può essere percepito addirittura come un abbellimento, un mordente o un piccolo trillo. I diversi episodi rimangono sempre legati l’ uno all’altro da un sottile filo residuo, che può essere una cellula ritmica, una nota ribattuta, un accordo dissonante.
Non che non esista melodia. In uno dei brani, presumibilmente facente parte del repertorio abitualmente eseguito con il coro, Hamasyan canta all’ unisono con il pianoforte. Siamo in 4/4 ma il tema comincia in battere e non in levare come immagineremmo noi europei, dunque si dipana metricamente nelle battute dando la sensazione di tempo asimmetrico, e creando una tensione affascinante.
In Hamasyan prevale il registro grave, l’ armonia sula melodia, eppure queste non sono regole assolute, poiché specialmente quando affronta brani tradizionali la melodia è netta ed è incorniciata da arpeggi, note tenute in modo che svetti su tutto e rimanga a lungo nell’ aria.
Quando arriva lo standard, “Someday my prince will come”, è proprio la melodia che rimane come unico tenue baluardo del brano originale, perché la mano sinistra ha un andamento cromatico assolutamente non coincidente con ciò che armonicamente ci si aspetta. Ma da un certo punto in avanti “l’ accompagnamento” si limita ad una nota per battuta secondo un disegno melodico – armonico sempre uguale (ritorna la reiterazione) che si incunea in maniera inusuale con l’ improvvisazione: chi ascolta è portato a seguire istintivamente quel disegno della mano sinistra che si ripete all’ infinito, ma allo stesso tempo è attratto dalle evoluzioni della melodia create dalla mano destra.
Si potrebbe scrivere tantissimo ancora su Tigran Hamasyan: ma il consiglio è di andarlo ad ascoltare lasciandosi trasportare dalla sua musica. Se avete la fortuna di non dover scrivere un articolo e spiegare cosa accade, godetevi questa esperienza appena potete, perché davvero è uno di quei casi in cui una sana inconsapevolezza permette un viaggio che riserva momenti di vero stupore.