I nostri CD

I NOSTRI CD

Omer Avital – “New Song” – Plus Loin Music 4568
Quintetto di tutte stelle questo guidato dal contrabbassista Omer Avital, con il trombettista Avishai Cohen, il sassofonista tenore Joel Frahm, il pianista Yonathan Avishai e il batterista Daniel Freedman . Israeliano di origini yemenite da parte di madre e marocchine da parte di padre, Avital è uno di quei personaggi che hanno scritto la storia del jazz israeliano assieme a quel Avishai Cohen che non a caso figura anche in questo album. La sua è una cultura composita, poliedrica: amante del jazz conosce a fondo il blues, il gospel, il soul, così come la musica afro-cubana, i ritmi di estrazione africana… ma da artista, da uomo che vive il suo tempo, inserito in una realtà difficile come quella del suo Paese, non disconosce certo le sue origini. Di qui molti elementi della cultura araba che fatalmente si ascoltano nelle sue composizioni i cui titoli, d’altro canto, evidenziano assai bene questa sua attitudine a rivolgere lo sguardo sia verso l’occidente sia verso l’oriente: “Hafla”, “Tsafdina”, “Maroc” ad esempio richiamano il mondo arabo così come “Ballad for a friend” o “Small time shit” si rifanno a paesaggi, situazioni a noi più vicine. Ma non è solo una questione letteraria ché la musica rispecchia in qualche modo quanto su accennato. Così ad esempio il brano d’apertura, “Hafla”, si muove su coordinate che richiamano espressamente una melodia tradizionale israeliana coniugata con un linguaggio jazzistico ben evidenziato dal solismo di Avishai Cohen. Viceversa nella title track l’atmosfera è più chiaramente e inequivocabilmente jazzistica , con una dolce cantabilità evidenziata dal pianismo di Yonathan Avishai e ancora dalla tromba di Cohen con il leader che si produce in un accompagnamento tanto propulsivo quanto discreto unitamente alle spazzole egregiamente manovrate da Freedman. Con “Tsafdina” siamo sul versante afro-cubano sorretto da un pertinente backghround vocale e da un coinvolgente dialogo pianoforte-batteria che conduce all’assolo conclusivo di Cohen… e via di questo passo in un alternarsi di atmosfere che si protrae sino alla fine dell’album impreziosito da una mescolanza di colori, sapori, timbri che costituisce la forza dell’album. Ultima notazione: i brani sono tutti di Omer Avital.

Tim Berne’s Snakeoil – “You’ve Been Watching Me” – ECM 2443
You've beenTim Berne è musicista “pericoloso” nel senso che se, tanto tanto ti azzardi non dico a parlarne male ma a dire che la sua musica non ti scalda più di tanto, ecco che le vestali “del vero jazz” si ergono indignate a tacciarti nel migliore dei casi di incompetente…altrimenti sei un venduto al soldo di qualche casa discografica concorrente. Ma abbiamo le spalle larghe e quindi sfideremo l’ira di chi ne sa più di noi per dire che Tim Berne è sicuramente un grande musicista ma altrettanto sicuramente che la sua musica non è in cima alla nostra personalissima scala di preferenze. Questo è il terzo album che Berne, con il suo nuovo gruppo “Snakeoil” incide per la ECM: nel 2011 il primo “Snakeoil” , nel 2013 il secondo “Shadow Man” (2013), ed ora questo “You’ve Been Watching Me”, registrato a dicembre del 2014. Il gruppo è rimasto sostanzialmente lo stesso vale a dire con il clarinettista Oscar Noriega, il pianista/tastierista Matt Mitchell e il batterista Ches Smith cui si aggiunge il chitarrista Ryan Ferreira. Come al solito le composizioni di Berne sono caratterizzate da strutture estremamente complesse nel cui ambito l’artista riesce a raggiungere un notevole equilibrio tra le parti d’assieme e lo spazio lasciato ai singoli solisti. Solisti che sono tutti dei fuoriclasse: a parte il leader che ben si ascolta in tutti i brani, Oscar Noriega si fa apprezzare a partire dal brano di apertura, “Lost In Redding”, mentre il chitarrista Ryan Ferreira da vita e spessore alla title track; notevoli l’ utilizzo del vibrafono da parte di Ches Smith e l’impiego delle elettroniche da parte di Matt Mitchell che forniscono al tutto una timbrica e un colore nuovo. I brani sono tutti piuttosto lunghi e si avverte, sempre, la grande conoscenza che Berne ha dell’universo musicale inteso nella sua globalità dal momento che è possibile percepire una serie di influenze che vanno ben al di là del mondo jazz.

Ketil Bjørnstad-“Sunrise. A Cantata On Texts By Edvard Munch”- ECM 2336

Il pianista, compositore, scrittore e poeta Ketil Bjørnstad è una sorta di icona nell’ambito del mondo culturale norvegese e ben a ragione ove si consideri che si tratta di un artista che ha fatto dell’integrità, della sincerità d’espressione la sua particolarissima cifra stilistica. A tali regole non sfugge quest’ultimo album registrato a Oslo nell’aprile del 2012: si tratta di una commissione in quanto il lavoro è stato chiesto al compositore dai responsabili del Nordstrand Musikkselskap Choir in occasione del suo settantesimo anniversario, nel 2011, lavoro che è stato poi eseguito in concerto presso l’Auditorium dell’Università di Oslo; qiì, dietro al palco, si può ammirare il dipinto di Munch intitolato “The Sun”. Ed è proprio a Munch che è dedicata questa composizione in cui è racchiuso molto dell’animo norvegese. Come spiega lo stesso Bjørnstad nelle note che accompagnano l’album, Munch non si limitava a dipingere ma scriveva sia per meglio illustrare i suoi quadri sia per esprimere le proprie emozioni, i propri stati d’animo che ondeggiavano sempre tra un cupo pessimismo e la speranza della luce, speranza e delucidazioni che, ipotizza Bjørnstad, il pittore forse avrà trovato solo alla fine della sua esistenza. Bjørnstad ha cercato di trasporre in musica queste sensazioni, questi sentimenti: si è quindi avvalso di alcuni di questi scritti per costruirvi delle splendide melodie che sembrano fuori dal tempo e dallo spazio nella loro dolce cantabilità. Ad eseguire magnificamente queste partiture sono l’Oslo Chamber Choir, diretto da Egil Fossum, la vocalist Kari Bremnes e musicisti di diversa estrazione come il violoncellista Aage Kvalbein, l’alto sassofonista Matias Bjørnstad, il contrabbassista Bjørn Kjellemyr, il percussionista Hans-Kristian Kjos Sørensen e lo stesso Bjørnstad al pianoforte. L’atmosfera generale è chiaramente riconducibile ad un mix tra musica colta e musica pop mentre , oggettivamente, i riferimenti al jazz sono piuttosto labili.

Tore Brunborg – “Slow Snow” – Act 9586-2
Questo è l’album d’esordio in casa ACT del norvegese Tore Brunborg che già conoscevamo dalla fine degli anni Novanta quando incise, tra l’altro, due ottimi album, “Orbit” in compagnia del batterista Jarle Vespestad e “Lines” con Vigleik Storaas ( Key ),Olaf Kamfjord ( Bss ) e Trond Kopperud (Drs). Anche in questo debutto con la ACT, Brunborg evidenzia appieno tutte le sue qualità sia di eccellente polistrumentista (sax tenore e pianoforte) sia di compositore (il repertorio è composto unicamente da sue composizioni). Si tratta, insomma, dell’ennesimo jazzista talentuoso che la Norvegia sta producendo in questi anni, ed è una sorta di miracolo ove si pensi a quanto poco numerosa sia la popolazione che vive da quelle parti. Ed in effetti anche gli altri musicisti che accompagnano Brunborg sono norvegesi: Aivind Aarset alla chitarra, Steinar Raknes al contrabbasso e Per Oddvar Johansen alla batteria ed elettronica. Ciò detto, va sottolineato come la musica di Tore, seppure si inserisce in quel filone di “jazz nordico” che abbiamo imparato a conoscere ed ammirare nel corso di questi ultimi decenni , presenta tuttavia qualche particolarità. Così ritroviamo quegli spazi ampi, quella tessitura sofisticata, quella cura del suono , quelle atmosfere sognanti , quel caldo lirismo che caratterizzano in linea di massima la produzione dei musicisti norvegesi, ma accanto a ciò ascoltiamo episodi , ad esempio “Tune In” e “Light A Fire Fight A Liar”, in cui la musica si fa più dura, spigolosa quasi a voler reclamare una più precisa identità . E via di questo passo in un alternarsi di situazioni che, lungi dal significare disomogeneità, illustrano al meglio le qualità e dell’ensemble e dei singoli. Così se è vero che le luci sono focalizzate sul leader , è altrettanto vero che non mancano occasioni per evidenziare il talento degli altri: si ascolti l’assolo di Raknes in “History”, mentre Eivind Aarset, uno dei grandi innovatori della chitarra, si fa apprezzare in diversi momenti. Dal canto suo Johansen fornisce un drumming preciso e propulsivo per tutta la durata dell’album.

Terry Lyne Carrington – “The ACT Years” – ACT 9588-2
Preparare una compilation è impresa oggettivamente difficile in quanto si tratta di scegliere tra diverse opzioni e realizzare un album che possa raggiungere lo scopo prefissato. Scopo che può essere di natura differente a seconda che si tratti di lumeggiare un periodo particolare, uno stile, l’attività di una casa discografica o quella di un artista. E’ il caso di questo album la cui protagonista è la celebre batterista Terry Lyne Carrington; sulla scena oramai da molti anni, la Carrington è a ben ragione considerata la migliore batterista-compositrice jazz oggi in esercizio, come d’altro canto affermato da Dizzy Gillespie che l’ascoltò agli inizi della carriera e successivamente confermato dal Grammy ottenuto nel 2011 con “The Mosaic Project” . In effetti Terry Lyne possiede tutte quelle doti che fanno un grande batterista: eccellente tecnica, senso del tempo, forte propulsione ritmica, fantasia, capacità di creare un tappeto ritmico cangiante a seconda delle necessità del solista…
In questo album possiamo ascoltare dodici brani tratti da tre CD “Jazz Is A Spirit” del 2002, “Purple : Celebrating Jimi Hendrix” di Nguyên Lee ancora del 2002 e “Structure” del 2004. La batterista figura accanto ad alcuni dei più bei nomi del jazz mondiale, da Herbie Hancock a Greg Osby da Kevin Eubanks a Wallace Roney, da Terence Blanchard a Gary Thomas… alla vocalist Aida Khann. Insomma un’ottima occasione non solo per rivisitare il drumming della Carrington, ma anche per ascoltare artisti che hanno scritto pagine indimenticabili. In tal senso particolarmente stimolante “Samsara (for Wayne) con Herbie Hancock, Kevin Eubanks, Gary Thomas e Bob Hurst.

Keith Jarrett – “Creation” – ECM 2450
A maggio, in occasione del settantesimo compleanno di Keith Jarrett, sono usciti per la ECM due album. Il primo, live, contenente due Concerti del Novecento per pianoforte e orchestra è già stato recensito su questo sito, con la solita competenza ed arguzia da Massimo Giuseppe Bianchi. Del secondo parliamo adesso. “Creation” raccoglie nove improvvisazioni in piano-solo registrate durante concerti tenuti a Tokyo, Toronto, Parigi e Roma in un breve arco di tempo che va dal 6 maggio all’11 luglio del 2014 e scelte dallo stesso Jarrett – per una volta senza l’apporto di Eicher – sì da farne una sorta di suite. Ora è indubbio che, al netto delle tante bizze che hanno contrassegnato gli ultimi anni della sua carriera, Jarret rimane un pianista straordinario, un artista che quando ritiene di aver trovato le condizioni giuste è in grado di sciorinare musica di ineguagliabile bellezza e valenza artistica. Ci è riuscito anche in questo album? L’interrogativo non è retorico dal momento che la cronaca ci racconta di alcune performances di Jarrett non proprio memorabili. Ecco, questo CD non può certo essere annoverato tra i capolavori del pianista anche se siamo, sempre, su livelli alti. Il fatto è che l’aver scelto improvvisazioni da diversi concerti ha sì fornito all’album una sua omogeneità ma non sempre questo è un fatto positivo. Nel caso in oggetto, infatti, molto si è perso di quella varietà di situazioni che spesso si registra nei concerti di Jarrett quando il pianista, nelle sue improvvisazioni, riflette l’umore del momento, l’ispirazione momentanea creando quel clima di incertezza, straordinariamente coinvolgente, che caratterizza le sue esibizioni. Ad esempio ricordiamo perfettamente una performance a Roma in cui ad una prima parte francamente noiosa fece seguito un secondo tempo di straordinaria brillantezza. Insomma forse non siamo molto lontani dal vero affermando che probabilmente il meglio di sé Jarrett lo ha già dato.

Leszek Możdżer & Friends – “Jazz at Berlin Philarmonic III” – ACT 9578-2
Jazz at the Berlin PhilarmonicIl pianista Leszek Możdżer, classe 1971, è uno dei maggiori esponenti del jazz polacco. Ha cominciato a studiare pianoforte all’età di cinque anni fino al raggiungimento del diploma al Conservatorio Stanislaw Moniuszko di Gdańsk nel 1996. Avvicinatosi al jazz, all’età di 18 anni, inizia la sua carriera con il gruppo del clarinettista Emil Kowalski . Nel 1991 è con il gruppo Miłość (« Amour »). Un anno dopo è premiato all’ International Jazz Competition Jazz Juniors che si svolge a Cracovia. Per questo album registrato live alla Berlin Philharmonie si presenta con il suo trio abituale completato dal contrabbassista svedese Lars Danielsson e dal batterista israeliano Zohar Fresco, con l’aggiunta dell’Atom String Quartet. Il repertorio è basato in massima parte su originals del leader che evidenziano appieno le grandi doti di questo artista. In possesso, come si accennava, di una solida preparazione di base innervata da una cultura classica, Leszek si esprime con un linguaggio che coniuga efficacemente stilemi jazzistici, echi folk con modalità proprie della musica classica, in cui si avverte, evidente, l’influenza dell’eroe nazionale della musica polacca, Chopin . Il tutto impreziosito da un sound affatto particolare che attribuisce all’intero album un’atmosfera suggestiva; in effetti il trio, che ha raggiunto una grande intesa cementata da molti anni di stretta collaborazione, è completamente sintonizzato sulle idee del leader che riesce a fondere il sofisticato gioco di batterista e contrabbassista all’interno di un puzzle cameristico in cui l’Atom String Quartet riveste un ruolo tutt’altro che secondario. E non è certo un caso che molti critici pongano quasi sullo stesso piano il Kronos Quartet e l’Atom String Quartet data la straordinaria capacità improvvisativa dei componenti quest’ultimo gruppo. Si ascolti, al riguardo, le romantiche sonorità del quartetto in “Love Pastas”   (altro…)