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In qualsivoglia branca artistica il titolo di “Padre nobile” non lo si concede, certo, con facilità; ma nel campo del jazz made in Italy, e ancor più propriamente del jazz siciliano, tale titolo spetta di diritto a Claudio Lo Cascio. Pianista, compositore, arrangiatore, didatta, organizzatore, l'artista palermitano può vantare una serie di primati difficilmente eguagliabili: è il primo in Italia, nel 1958 a tenere a Palermo ,in un Conservatorio di Musica, due concerti di jazz; a partire dal 1961, unico in Europa, enuncia una teoria che all'inizio viene quasi derisa per essere, poi, nei decenni successivi, accolta universalmente vale a dire la possibilità di utilizzare in chiave jazzistica temi del folklore musicale italiano ed europeo (folk-jazz) dandone una eloquente dimostrazione nel disco OLEODOTTI A SUD EST registrato in quintetto nel 1975; nel 1962 è ancora tra i primissimi nel nostro Paese a realizzare un'esperienza di third stream music col “New Jazz Quartet” assieme ai solisti dell'”Orchestra Sinfonica dell'EAOSS”; nel 1976 un'esperienza importantissima per tutto il mondo del jazz non solo siculo, purtroppo naufragata per l'insipienza dei politici: recupera una delle più antiche ville del ‘700 palermitano, Villa Pantelleria, che fino al 1990 diventa la sede del “Centro Django Reinhardt”, un centro culturale interdisciplinare in cui il jazz ha una collocazione assolutamente paritaria con la musica sinfonica, lirica, elettronica e folk….una sorta di quei cantieri culturali che sarebbero sorti successivamente; nell'ottobre del 1991 riceve la cittadinanza onoraria di New Orleans.
Lo abbiamo intervistato incontrando un uomo, un artista ancora fortemente legato alle vicende del suo universo musicale, un uomo che non le manda certo a dire.

-Lei è stato protagonista attivo della scena jazzistica italiana, e siciliana in particolare, per un lungo lasso di tempo. Da questo suo osservatorio privilegiato, come valuta l'evoluzione del jazz in Italia? Ha rispettato le sue aspettative o si attendeva qualcosa d'altro?
Dopo il fenomeno del free, ritengo che il jazz sia morto avendo esaurito la spinta propulsiva che aveva prodotto per circa un secolo l'evoluzione di questo particolarissimo linguaggio con il cambiamento dei vari stili: New Orleans, Dixieland, Chicago, New York, Swing, Be-Bop, Cool, Hard-bop etc…

-Ma è possibile una qualche forma di rinascita?
Forse, ma a determinante condizioni, che ho già espresso in un mio libro (La mia vita per il jazz): innanzitutto assimilare profondamente la musica di Thelonious Monk che da tutti i jazzisti è stata quasi sempre aggirata, scavalcata ma non assorbita contrariamente a quanto accaduto con la musica di Charlie Parker; in secondo luogo occorre una pratica quotidiana della improvvisazione ma su tempi dispari: un secolo di storia del jazz si è sviluppato, nonostante l'avvicendarsi dei vari stili, sui tempi pari, estendendosi poi lentamente al ¾ ed in ultimo, per effetto della grande popolarità raggiunta da “Take Five” di Dave Brubeck al 5/4. Tutto ciò mentre in un'ampia parte dell'Europa, anche per effetto di eventi politici ben noti, si sviluppava una produzione jazzistica articolata su tempi che andavano ben oltre il 5/4 arrivando ai 7/8 e 9/8 frequente nei pezzi del polacco Urbaniak, fino al 21/8 usato dallo jugoslavo Petrovich. Al riguardo non bisogna dimenticare che questa tendenza è stata favorita da una cultura musicale di massa attenta anche alla musica popolare ed ai suoi complessi e molteplici ritmi: Bela Bartòk docet. In terzo luogo bisognerebbe forse riprendere gli esperimenti di “third stream music” che sono stati abbandonati per motivi culturali ed economici nonostante tesori di energie spesi da artisti quali John Lewis e Gunther Schuller in America e André Hodeir e Werner Heider in Europa. Infine è necessario ridare al jazz per orchestra quello spazio che dapprima in USA e poi un po' ovunque è stato ridotto praticamente a zero per motivi meramente economici. Insomma è forse legittimo sperare che quando il settore della cultura e dell'arte sarà finalmente considerato dalla politica meritevole di riconoscimento e sostegno, la situazione possa migliorare.

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-Lei è stato tra i primissimi, al mondo, a promuovere sin dal 1961, un connubio tra jazz e musica folk, suscitando all'epoca aspre critiche. Come si sente oggi che questa commistione viene non solo comunemente accettata ma addirittura considerata una delle strade da seguire per lo sviluppo del jazz?
La mia teorizzazione al riguardo la misi a punto in un opuscolo “Il jazz nelle scuole” che ritengo valido ancora oggi. In buona sostanza fin dal 1958, epoca dei miei primi esperimenti di jazz basato su temi folklorici siciliani, svedesi e sardi, ho avvertito la necessità, in misura sempre più cosciente ed analitica, di dare un senso più autentico alla mia musica di jazzista non americano ma europeo, italiano, siciliano. In effetti attraverso studi etnomusicologici effettuati comparativamente su musiche popolari di diversi Paesi , distanti fra loro non solo geograficamente, ho trovato delle sorprendenti parentele non riscontrabili nelle musiche “colte” di questi stessi Paesi. Di qui la convinzione che il jazz autentico non possa non essere contro un rituale del fare musica che assegna alla musica stessa un ruolo di evasione, di intrattenimento provvisto di alibi culturali. Da un punto divista più strettamente musicale, la “diversità” della tematica musicale folklorica a contatto con il jazz ha dato risultati positivi ben oltre il prevedibile per incisività, freschezza e originalità di invenzione, oltreché per quello slancio emotivo che nella autenticità e sincerità di espressione scaturisce dai motivi di contenuto cui ho fatto riferimento. Ecco, queste acquisizioni sono oggi patrimonio di tutti e per rispondere alla sua domanda ne sono ovviamente molto contento anche se non posso dimenticare come alla fine degli la critica ridicolizzò i miei primi esperienti in materia.

-Lei è sempre stato un personaggio scomodo anche per l'aver considerato assai rilevante il ruolo sociale dell'artista. Ecco, nella società di oggi, quale dovrebbe essere il ruolo del jazz?
Il sistema, grazie alle sue notevoli capacità di integrazione, riesce spesso a subordinare e a integrare quelle espressioni artistiche da esso ritenute eversive, magari decretandone il successo allo scopo di limitarne la forza di provocazione e da cui, in certi casi, cerca addirittura di trarre motivo di arricchimento esteriore nonché di rafforzamento della propria egemonia culturale attraverso dimostrazioni di apparenti aperture al nuovo. Partendo da queste premesse, a mio avviso l'artista, e nella fattispecie, il musicista jazz dovrebbe rendersi alfiere del “jazz alternativo” in contrapposizione al “jazz di consumo” e cioè di una musica che senza porsi aprioristicamente alcun problema di gradevolezza e di commerciabilità rappresenti nella sua concezione e nella sua destinazione l'esatta antitesi della concezione estetico-consolatoria della musica come piacere per pochi eletti.

-A lei si deve una delle iniziative culturali più significative registrate in Sicilia: la creazione, nel 1976, a Villa Pantelleria, del Centro Django Reinhardt ovvero uno spazio in cui fare jazz… e non solo. Avventura che si risolse negativamente per la solita incuria e miopia della classe politica. Il ricordo di questa storia le brucia ancora adesso?
La risposta a questa domanda è molto semplice: sì

-Vuol ricordarci gli episodi legati all'attribuzione della cittadinanza di New Orleans?
Mi scuserà, ma devo prenderla un po' alla lontana. Nel 1991 con i miei “Sicilia Jazz Dixielanders” registrai l'album JAZZ D.O.C. che, nell'ottobre dello stesso anno, ebbi l'opportunità di presentare in alcune città degli Stati Uniti tra cui New Orleans. Ora, nella città del Delta, oramai da tempo , si era trasferito un mio vecchio amico , Silvano Amenta, che vi aveva avviato una proficua attività turistica. Per cui, all'annuncio della mia visita, mi assicurò la massima assistenza. E così fu, nel senso che, giunto a New Orleans, trovai un calendario fitto di appuntamenti, di incontri, di visite, di interviste televisive. Il momento culminante e più emozionante fu quando , il 23 ottobre, mi venne consegnato il diploma di cittadino onorario di New Orleans da parte di Joe Maselli che era stato delegato a ciò dal sindaco, Sidney Barthelemy, oper i miei meriti jazzistici.

Claudio Lo  Cascio

-Come è nato il Lo Cascio jazzista e quali le tappe più significative della sua carriera specie agli esordi?
Il mio primo impatto con il jazz fu assolutamente negativo; era la musica trasmessa dalle truppe americane che avevano occupato a Palermo gli studi dell'EIAR di piazza Bellini. La storia cambiò a partire dall'anno scolastico 1949-50, quando iniziai al Liceo “Umberto”, la mia vita di studente. Determinante la lettura della prima edizione italiana di “Il Jazz” di Jain Lang corredato da una discografia essenziale compilata da Roberto Leydi. Fu il primo passo verso la conoscenza del jazz. Cominciai ad ascoltare qualche disco, impresa allora difficilissima in quanto i pochi 78 giri disponibili erano preda dei collezionisti. Fino a quando un giorno convinsi il comm. Antonino Fiore, direttore del negozio di Palermo della Ricordi, ad importare esclusivamente per me alcuni dischi pubblicati dalla “His Master's Voice” inglese dei Red Hot Peppers di Jelly Roll Morton. Ecco questo fu il mio apprendistato con la musica jazz. Mi appassionai e cominciai a studiare da autodidatta ben conscio del fatto che non si potevano ottenere grandi risultati senza un'adeguata preparazione musicale sia teorica sia tecnica. I primissimi passi come pianista risalgono a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.

-Tornando ancora indietro nel tempo, cosa ha significato per lei e più in generale per il jazz siciliano la creazione a Palermo dell' Hot Club Jazz?
Come Lei può ben immaginare, gli Hot Club Jazz che si costituirono non solo a Palermo sono stati importantissimi per la diffusione del jazz nel nostro Paese. Tenga presente che all'epoca di appassionati ce n'erano veramente pochi… per non parlare di quanti ascoltavano questa musica con una certa competenza. Comunque, tornando alla mia città, nel 1947 venne creato il primo Hot Club Palermo, naturalmente a mia insaputa data la mia sordità di allora verso il jazz. Ma questa esperienza ebbe vita breve. Per tutti i primissimi anni Cinquanta l'Hot Club fu tormentato da una serie di alterne vicende legate da un canto alle discordie tra i suoi componenti, dall'altro alla difficoltà di avere una sede congrua; così nell'aprile del 1953 l'attività dell'Hot Club cessò del tutto e gli anni successivi furono caratterizzati da una stasi completa del jazz a Palermo, interrotta soltanto da un'epica jam-session svoltasi all'Hidalgo Moka nel febbraio del 1956 a cui parteciparono, venuti appositamente da Roma, Nunzio Rotondo ovviamente alla tromba, Sandro Serra al sax tenore, Tonino Ferrelli al contrabbasso e Pepito Pignatelli alla batteria mentre Enzo Randisi fu chiamato all'ultimo momento per sostituire Umberto Cesari al pianoforte.

-Tra le tante sue esperienze come musicista, quali sono gli artisti che ricorda più volentieri?
Stephane Grappelli e John Lewis. In particolare, sotto la direzione di quest'ultimo, ho effettuato una tournée assieme all'Orchestra Sinfonica del Teatro Massimo di Palermo con un programma di third stream per quartetto e orchestra. Ed ancora, ho organizzato con il mio “Modern Art Quartet”, con Lewis pianista ospite, un concerto nell'aula magna della Facoltà di Lettere. Fu un'esperienza indimenticabile,

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