Vinicius Cantuaria La forza dell’interpretazione

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Tenere viva l’attenzione del pubblico per oltre un’ora semplicemente con chitarra acustica e voce , su un repertorio affascinante, ma fin troppo omogeneo, come il songbook di Antonio Carlos Jobim, è impresa certo non facile. Bisogna, quindi, dare atto a Vinicius Cantuaria di aver portato a casa , lunedì sera, alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, una performance di sicuro livello. Non a caso il pubblico l’ha lungamente applaudito e lui ha risposto generosamente concedendo due bis.

Il concerto, inserito nell’ambito del Roma Jazz Festival, ci ha dunque confermato un eccellente chitarrista e un vocalist che fa dell’interpretazione il suo punto di forza. In effetti Vinicius non è certo dotato di grandi mezzi vocali, spesso sui registri gravi lo abbiamo sentito piuttosto incerto, ma a queste carenze ha sopperito con una grandiosa musicalità e una capacità interpretativa non comune. In effetti la lettura di Jobim da parte di Cantuaria è interessante in quanto si svolge su due piani: da un canto c’è l’amore, l’affetto dichiarato per questo grande compositore le cui opere vengono quindi eseguite con grande rispetto quasi filologico; dall’altro c’è però la personalità di Vinicius che alle volte si allontana dal modello per proporne una visione diversa, senza nulla perdere dell’originaria valenza. Esemplare, al riguardo, il modo in cui ha saputo porgere un brano celebre come “Felicidade”.

Ma tutto ciò non lo scopriamo certo adesso: chitarrista, cantante, percussionista, compositore  di talento, Vinicius (classe 1931) può vantare collaborazioni celebri con artisti del calibro di  David Byrne, Arto Lindsay, Laurie Anderson e Bill Frisell. Originario di Manaus , città amazzonica, è, però, cresciuto a Rio de Janeiro, che ha lasciato a metà degli anni ’90 per  trasferirsi a New York, dove tuttora vive. Profondamente influenzato dalla bossa nova e da tutto il panorama musicale brasiliano, Cantuaria è oggi uno dei musicisti brasiliani maggiormente considerati in tutto il mondo . Ciononostante solo adesso si è deciso ad incidere tutto un album dedicato all’illustre compatriota Antonio Carlos Jobim, segno evidente del rispetto verso questo artista e delle difficoltà insite in un’operazione del genere. Comunque l’album, in cui Cantuaria è affiancato da stelle di primaria grandezza provenienti non solo dal mondo del jazz come il chitarrista Bill Frisell , il pianista Ryuichi Sakamoto , i vocalist Joyce e Melody Gardot, i chitarristi Chico Pinheiro, Celso Fonseca e Ricardo Silveira, il bassista Jyoji Sawada , Ryoji Orihara al basso elettrico e Ayumi Hashimoto al violoncello, sta ottenendo uno straordinario successo di pubblico e di critica. E proprio sulla scorta di quest’album e quindi del mondo di Jobim, Cantuaria ha costruito questo spettacolo in splendida solitudine che sta proponendo alle platee internazionali ivi compresa Roma. Così, lunedì, in rapida successione, abbiamo ascoltato una ventina di composizioni di Jobim, tra cui “Ligia” , “Só danço samba”, “Eu não existo sem você” “Ela è carioca”, “Insensatez” … fino alla celeberrima “Garota de Ipanema”, tutte accolte da un pubblico evidentemente fine conoscitore della bossa nova e di Jobim.

Rosalba Bentivoglio Incanto di pietra lavica

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Artista di grande spessore, vocalist che si è fatta apprezzare anche al di fuori dei confini azionali, Rosalba Bentivoglio è rimasta fortemente legata alla sua terra. Di qui una scelta tanto impegnativa quanto, dal punto di vista artistico, non del tutto gratificante: restare nella propria terra, continuare a vivere nella natia Catania. Qui, ovviamente, ha proseguito la sua attività di jazzista a tutto tondo, affiancando una intensa attività didattica.
L’abbiamo intervistata di recente affrontando tutta una serie di tematiche molto delicate e abbiamo trovato una donna, un’artista intelligente, coraggiosa, ben consapevole delle proprie motivazioni, che n on ha alcun timore ad esprimere in modo chiaro, inequivocabile, le proprie idee.

-Come pensi sarebbe stata la tua carriera se avessi lasciato Catania, la Sicilia?
Intanto ti dico che qui in “provincia” risulta essere un plus valore il fatto di vivere o di rientrare dopo aver vissuto all’estero (o anche solo in nord Italia); ciò che viene da “fuori” dà più lustro, e forse non abbiamo ancora dismesso la famosa valigia con cui i nostri genitori partivano cercando riconoscimenti e fortuna fuori dal proprio Paese e magari rientrare poi con accento “estero” per essere ricollocati in modo più consono. Infatti se noti le varie presentazioni di musicisti siciliani, guarda caso, hanno tutti residenza all’estero. Comunque io ho vissuto un periodo a Parigi e in Germania a Monaco e devo dirti che si lavora bene e tutto procede in base alle tue capacità artistiche, cioè l’opposto di quello che avviene da noi. Il Jazz in Italia soprattutto in Sicilia è ancora lontano dalle nuove prospettive musicali a cui da tempo si accenna o più timidamente si cerca di parlare, forse più per un atto dovuto che per convinzione vera e propria. Della parola “difficoltà” ultimamente ho fatto il mio punto di forza; cercando di evitare l’autocommiserazione. In un Paese come il nostro in cui l’unica forma d’arte è l’apparire e dove certezza è la mancanza di strutture, di professionalità e competenze; l’indifferenza poi, completa il quadro, soprattutto per chi ha fatto delle scelte diverse. Io ho bisogno del mio luogo, dell’energia che sprigiona l’Etna e a cui spesso attingo come forma d’ispirazione. Io ho scelto di continuare a vivere a Catania, in Sicilia, per affermare me stessa nel luogo d’origine e perché sono legata alla mia terra, al mio mare, e al mio vulcano. Certo oggi questa scelta fatta anni fa mi sta stretta, penso che il vivere all’estero mi avrebbe dato di più e sarebbe stato più utile alla mia carriera; Catania, la mia città è risultata essere avara con me, con chi si è sacrificata per essa per rappresentarla al meglio.

-Come si è evoluto il Jazz nell’isola?
Come sai sono stata presidente per la Sicilia orientale dell’organizzazione ASMJ (Associazione Siciliana Musicisti Jazz) associazione nata dalla scissione dall’AMJ a livello nazionale perché non ci sentivamo ben rappresentati, comunque dopo poco tempo e dopo aver prodotto 2 cd , il progetto è naufragato; ma in quel periodo ho toccato con mano le reali necessità e disagi dei musicisti isolani, e primo tra tutti la latitanza delle istituzioni, mentre un secondo e non sottovalutato problema è quello degli organizzatori, che a volte coincidono con la figura di musicisti e che purtroppo tengono un’egemonia di potere forte e formano quadrato verso quelli che vengono visti come outsider. Da un punto squisitamente stilistico invece, credo che si cominci ad avere (oserei dire timidamente) l’esigenza di rinnovarsi (nel rispetto di alcuni parametri culturali che oggi si attenzionano più di ieri). Francesco Cafiso ad esempio ha dato una particolare valenza al jazz in Sicilia e pur essendo molto giovane ha bruciato molte tappe, maturando esperienze con gli artisti giusti e nei luoghi idonei. Forse non dovrebbe restare in Sicilia, la Sicilia orientale è bella ma forse lo lega troppo, io lo vedrei più a New York, Parigi o ad Oslo, luoghi più giusti per un artista come lui, tra l’altro ancora giovane, ed affiancarsi ad artisti e collaboratori interessanti e soprattutto innovativi nei suoni . Per le onorificenze, le targhe e le direzioni artistiche c’è ancora tempo. Con Francesco ci siamo sempre ben rappresentati sul palco, abbiamo avuto una lunga collaborazione con l’Orchestra jazz del Mediterraneo di Catania. Certo che oggi nell’era dell’informatica e con le nuove tecnologie a nostra disposizione è stato possibile uno scambio e una informazione a cui prima non eravamo abituati. E’ vero anche che la facilità di approdare e usufruire di tecnologia ha creato uno spazio antitetico al reale sviluppo creativo in cui il mezzo, la macchina, prende il sopravvento sull’intelletto umano. Quindi si dice che in Sicilia un’evoluzione o crescita nell’ambito jazzistico è avvenuta, anche se credo sia sempre sotto le briglie delle esigenze commerciali, dove i nomi o i cartelloni contano più del reale sviluppo di un intelletto artistico. Chi come me da anni si occupa di ricerca e contaminazioni non trova un mercato o interesse capace di sostenerli.

-In Sicilia esistono realtà diversificate che fanno capo a molte realtà locali; secondo te esiste una buona collaborazione o, come sostiene qualche tuo collega, ognuno va per i fatti suoi?
Rispondo subito con un no, non credo che in Sicilia esista una buona collaborazione tra le varie realtà dell’isola, ognuno ha il proprio giro di artisti e, come dicevo prima un piccolo gruppo di musicisti-organizzatori creano egemonie; ma credo che un problema simile esista anche fuori dal nostro territorio come ad esempio Roma che risulta essere una città chiusa, non ci si esibisce se non sei nel giro giusto, ad esempio sai che in tanti anni di attività io non sono mai stata invitata ad esibirmi alla Casa del Jazz ? La mia esibizione a Roma ( a parte la partecipazione a trasmissioni musicali radiofoniche in Rai, con Tony Scott e la conduzione di Adriano Mazzoletti) io ho cantato al Music Inn.

-Il mondo del jazz è stato, tradizionalmente maschilista…cosa puoi dirci al riguardo con specifico riferimento alla realtà siciliana?
Che i pregiudizi nel rapporto tra musicisti sono tutt’oggi presenti; esiste di fatto una discriminazione tra musicisti maschi e musiciste femmine, le femmine vengono viste più come vocalist che devono stare li sul palco in bella mostra a cantare e fare soffrire (musicalmente) i musicisti che le accompagnano. Diciamo che le donne non vengono viste come musiciste e compositrici complete al pari degli uomini, ma sono, anche se spesso più brave dei maschi, un orpello, un abbellimento al gruppo composto da maschi.

-Tu sei una eccellente vocalist … ma anche una compositrice di vaglia; qual è tra i due il vestito che ti senti meglio addosso?
Ambedue, perché quando compongo penso già al canto, mi esprimo con il canto, ma la composizione è la mia espressione interiore; l’intelletto, il sogno, che poi il fuoco del canto concretizza. La voce è l’unico legame tra silenzio e parola e come nei suoni invisibili di Italo Calvino voglio avere sufficiente simbolicità per andare a ricostruire quelle relazioni sommerse; interessante perciò mettere in scena tanto la sperimentazione che avviene nell’ambito colto, come ricerca sul linguaggio, anche visivo, quanto liberi passi che vengono presi nel territorio delle spericolate improvvisazioni vocali. Un bagliore rende limpido e visibile colore e forme, ed è in quest’attimo, intensa ed ispirata che libero me stessa nel non tempo.

-Come si svolge il tuo percorso compositivo?
Così come lo scrivere un libro per un filosofo è un atto del tutto personale, allo stesso modo per me è la realizzazione della mia musica nella quale la mia visione e l’utilizzo del linguaggio non viene inficiato da speculazioni commerciali, ma rappresenta sempre ciò che sono e penso in “questo momento”, fondamentalmente su un’ispirazione, una traccia sulla quale lavoro e inserisco l’armonia, mentre in altre seguo un determinato passaggio armonico che può fare scaturire una melodia evocativa. Altre volte è l’evocazione stessa, anche visiva o una emozione vissuta ad ispirarmi e da li scattare la scintilla compositiva. A volte le composizioni le completo con un testo, altre le lascio libere di vagare. Se dovessi descrivere con un’immagine il pensiero delle mie composizioni mi ritrovo trascinata in un vortice di suoni e colori che in modo forte e diretto mi fanno rivivere i colori e le composizioni di W.Kandinsky. Equilibri dinamici quelli che traccio in musica, così come Kandinsky traccia in pittura. La ricerca è un atteggiamento verso un qualche cosa, una tradizione, un linguaggio, un luogo, delle convenzioni. I suoni, come macchie di colori contrastanti ma in perfetto equilibrio fra loro , è così che nelle mie composizioni musicali inserisco un intelletto compositivo. Percio’ la maggior parte delle mie composizioni sono senza parole, con atmosfere minimaliste, e la voce e’ utilizzata come strumento che prende spunto per le proprie sonorita’, dalla natura e da suggerimenti ritmico-musicali da radici fonetico-linguistiche della mia cultura. Sono alla ricerca di una sinestesia in musica. Utilizzo la voce come un sintetizzatore vocale umano per reinventare la tecnica e l’arte del cantare ad ogni mia nuova composizione. Sviluppo elaborazioni di nuove vocalità che rievocano immagini da sogno e si snodano in susseguirsi d’invenzioni creative, di spazi sonori, di tempi, colori, citazioni letterarie. La mia è una musica estremamente evocativa. Equilibri dinamici sono quelli che cerco in musica ed utilizzo il linguaggio musicale per esprimere me stessa. Una “musica nuova” tipizzata da sperimentazione vocale proveniente da dimensioni oniriche e surreali che esprima la metafora della vita.
I Luoghi di Eolo, In the Wind he comes e Cieli di marzo si muovono con moods cangianti come gli stati d’animo ed il vento ne è il collante.
Il vento nell’essere come rinnovamento, “soffio” come corrente di vita, afflato di energia, filo conduttore che unisce il corpo umano all’universo, e il linguaggio canto implica una visione del mondo in cui non esiste più alcuna differenza tra microcosmo e macrocosmo.

– Tutti ti riconoscono una grande sensibilità interpretativa non disgiunta da una tecnica molto solida. Come sei giunta a questi risultati? Quali le tappe fondamentali della tua formazione?
Sin da bambina ho provato grande attrazione per il canto. Col passare del tempo è diventata una necessità esprimermi con la voce. E’ soprattutto attraverso questo mezzo che oggi cerco di realizzarmi. Nel jazz si ritrova quella libertà di espressione. L’ascolto di Someone to watch over me di George Gershwin col testo di Ira Gershwin, cantato da Sarah Vaughan ha fatto scattare in me la molla che è diventata una vera passione per il canto jazz. Giovanissima ho avuto esperienze rock e pop (westCost con Joni Mitchell) per poi indirizzare la mia passione verso il jazz, passando per il canto lirico in conservatorio. Poi quello che conta ( e che gli allievi oggi comprendono poco) è cantare, quindi tanta ma tanta esperienza sul palco, dove avvengono incontri, scontri e collaborazioni. L’arte è un percorso paritetico alla vita, non si sa quando comincia ma si sa che non finisce mai.

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Monte-Carlo Jazz Festival. una decima edizione aperta e prestigiosa

Marcus Miller

Marcus Miller

Fedele alla sua politica d’apertura e d’innovazione, Jean-René Palacio, il direttore della manifestazione e della SBM (Société des bains de mer) attribuirà una ‘carte blanche’ al contrabbassista/compositore Avishai Cohen. Colui che era stato scoperto negli anni ’90 da Chick Corea e che successivamente ha affermato il proprio stile non etichettabile dal momento che trae spunto da diverse fonti, jazz, hard-bop, world, musiche tradizionali,  pop…, presenterà il 26 novembre una creazione originale durante una serata di gala, sotto gli ori della magnifica sala Garnier dell’Opera, con la partecipazione del suo Trio abituale (Nitai Hershkovits, piano e Daniel Dor, batteria) e  l’Orchestra Filarmonica del Principato che aveva già avuto l’opportunità di accompagnare a due riprese – nel 2008 e nel 2013 – il multistrumentista Marcus Miller.

Bassista elettrico, specialista del clarinetto basso, compositore, arrangiatore e leader, Marcus Miller premiato diverse volte nel corso della sua oramai lunga carriera, presenterà il suo nuovo album “Afrodeezia” assieme a musicisti gnawa e africani. Un incontro che, questa estate a “Jazz à Juan” aveva dato luogo ad una musica estremamente festosa, colorata e ricca di groove.

Se il festival aprirà le sue porte con “James Farm”, il gruppo del sassofonista Joshua Redman (23 novembre), la parte più interessante sarà forse quella riservata alle voci maschili e femminili. Dal lato femminile sono attese Melody Gardot, la cui voce carezzevole si è recentemente orientata verso il soul, la diva classica  Barbara Hendricks che ha fatto registrare un ritorno alle sue radici, in particolare agli spirituals, al gospel al blues e la giovane vocalist belga Selah Sue. (altro…)

Avishai Cohen e il germe dell’ originalità

Fotogallery: Cristina Zuppa

Avishai Cohen: contrabbasso e voce

Eden Ladin: pianoforte

Daniel Dor: batteria

Ciò che colpisce da subito di questo trio voluto dal contrabbassista israeliano Avishai Cohen è l’ originalità e l’ intensità del suono, e il singolare assetto dei ruoli reciproci: in fondo il trio è la formazione classica del Jazz, eppure Cohen ne scardina le dinamiche, senza ricorrere a trite sperimentazioni infarcite di asperità, o dissonanze, a passaggi ostici.
La novità non è facile da decrittare, da spiegare, perché l’ascolto è totalmente coinvolgente: non è facile  analizzare lucidamente cosa stia accadendo.   Il contrabbasso di Cohen è la parte fondante del trio, naturalmente: i brani cominciano creando  una base ritmico armonica , costruita dal pianoforte di Ladin  con arpeggi ricchi, veloci, rotondi,  e dalla grande batteria di Dor  fortemente e creativamente intrecciata al pianoforte. Un substrato pulsante, spesso con reiterazioni di piccole  cellule tematiche, su cui si inserisce   il possente, propositivo, incantevole suono del contrabbasso  di Avishai Cohen.
Il suo contrabbasso è il cuore del Trio. Eppure questa preponderanza non prevede la sudditanza  del  pianoforte e della batteria nel ruolo di semplici “accompagnatori”.
Avishai Cohen è parte di un fluido, paritetico progredire dinamico. Non ha un ruolo di solista. E’ il cervello del gruppo, entra da leader inizialmente ma poi non fa che cucirsi insieme agli altri disegnando un’ unico flusso sonoro. Questa strana e affascinante percezione del prevalere del contrabbasso pur se non prevale il contrabbasso è la caratteristica  di un concerto appassionante.
Se devo trovare una metafora per descrivere ciò che accade è come se si vedesse una macchina da cucire realizzare un ricamo prezioso su una stoffa già di per se finemente ricamata. Quel ricamo che seguiamo nel suo compiersi: è il contrabbasso , mentre si inserisce su pianoforte e batteria. Ma come l’ ago procede in avanti ci si rende conto che il disegno via via compiuto è armonico, e che quel ricamo ne è il completamento , e non il motivo principale.
Abbiamo ascoltato episodi alternati in contrasto tra morbidezze, lirismi quasi classici  e ritmi  serrati e sincopati, suggestivi richiami alla musica tradizionale israeliana, sottesi o espliciti, piccoli preludi del pianoforte di Eden Ladin, capace di essere incisivo ma anche ipnotico, la batteria di Daniel Dor andare da una leggerezza inaudita delle spazzole alla potenza deflagrante dei tom e della cassa, e non solamente durante i suoi splendidi assoli. Il contrabbasso di Avishai Cohen ha una carica trascinante, che emerge anch’essa in assoli densi di suono, di idee, di soluzioni armonico ritmiche.
I brani sono provvidenzialmente brevi, non sono strutturati partendo da particolari temi melodici da sviluppare o su cui improvvisare. E’ musica intensa, significativa, emozionante, di grande atmosfera, personalissima. E’ un Jazz straripante di cultura, che non viene “citata” dai musicisti per  ottenere raffinatezze formali: è un substrato metabolizzato, vissuto, e che per questo dà luogo ad un’ espressività intensa. Un’ ondata travolgente di suoni.
Il bis è un “All the things you are” che in quando standard stranoto reimmette il trio in binari più tradizionali.
Tre musicisti eccellenti,  un leader che merita la sua fama e le collaborazioni con veri e propri giganti del jazz. Se non lo avete ancora ascoltato dal vivo, fatelo appena possibile.

Alfredo Rodriguez e Dhafer Youssef al Roma Jazz Festival

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Funambolico e trascinante: questi gli aggettivi che mi vengono in mente dopo aver ascoltato martedì 17 novembre, in occasione del Roma Jazz Festival, il trio di Alfredo Rodriguez completato da Reiner Ruano al contrabasso e Michael Oliveira batteria, per la prima volta nel nostro Paese.
Alfredo Rodríguez (classe 1985) è un talentuoso pianista cubano, che prosegue degnamente la tradizione dei grandi, grandissimi pianisti cubani tra cui, in questa sede, basti ricordare Gonzalo Rubalcaba.
Formatosi nel prestigioso conservatorio “Manuel Saumell” de L’Avana, Rodriguez è stato scoperto nel 2006 al Montreux Jazz Festival da Quincy Jones che l’ha accompagnato nella sua crescita artistica; nel 2009 si è trasferito negli States dove è proseguita la collaborazione con Quincy Jones che gli ha prodotto , nel 2012, il primo album “Sounds of space”, cui ha fatto seguito nel 2014 “The Invasion Parade” ambedue per la “Mack Avenue Records”. In pochissimi anni Rodriguez è così riuscito ad imporsi alla generale attenzione grazie ad alcune prestigiose collaborazioni e alle performances in alcuni dei più grandi festival internazionali insieme a vere proprie leggende del jazz come Wayne Shorter, Herbie Hancock e McCoy Tyner.
E il perché di tanto successo è stato facile capirlo ascoltandolo nella Capitale: il suo è un pianismo ricco, spumeggiante, mai banale in cui si possono ascoltare echi provenienti dai grandi della tastiera quali Bill Evans, Jeitk Jarrett, Thelonious Monk… ma in cui è altresì assai facile scorgere le profonde influenze della musica cubana e in special modo di Chucho Valdes. Il tutto amalgamato e filtrato attraverso la sua specifica sensibilità sì da giungere ad uno stile del tutto personale caratterizzato da un uso frequente delle due mani all’unisono, dal frequente utilizzo di tutte le ottave dello strumento, da frequenti cambi di ritmo, da linee melodiche alle volte sghembe ma sempre affascinanti, da spessi clusters… mentre dal punto divista compositivo i suoi brani appaiono ben strutturati, contrassegnati alle volte da una ipnotica ripetitività di piccoli nuclei tematici . Da non trascurare, infine, la grande originalità nell’arrangiare brani altrui, elemento che abbiamo particolarmente ammirato nella riproposizione di due celeberrimi brani quali “Quizás, Quizás, Quizás” scritto dal musicista cubano Osvaldo Farrés nel 1947, e “Guantanamera”, resa famosa dal cantante e compositore cubano Joseíto Fernández a partire dalla fine degli anni ’40.
Insomma un gran bel concerto: peccato che, probabilmente anche a causa delle targhe alterne, non ci fosse un pubblico molto numeroso. (altro…)

“Vespro della Beata Vergine” di Claudio Monteverdi

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Di fronte a persone che mostrano, con conseguenze nefaste, un’infatuazione per la morte (terroristi islamici da un lato, guerrafondai dall’altro) che può dire la musica, in un’epoca nella quale le armi sembrano imporre al genere umano, assuefatto ad ogni genere di brutalità, persino le mode intellettuali?

Prendiamoci due ore del prezioso nostro tempo per ascoltare, tacitati i cellulari, il vertiginoso “Vespro della Beata Vergine” di Claudio Monteverdi e faremo almeno ingresso in un mondo diverso, dove le barriere di genere e di religione sono abbattute.

Pubblicato nel 1610 il Vespro si annuncia come opera sacra, ma destinata alle stanze dei Principi. Ingloba in sé diverse modalità profane, inclusi cinque “concerti” non strettamente funzionali alla pratica del Vespro stesso, una novità assoluta per l’epoca. Composizione monumentale per soli, coro e gruppo strumentale, in esso l’aspetto intimo e raccolto della preghiera si manifesta in una scrittura di chiara matrice teatrale.

I testi magnificano l’umile figura di Maria rivolgendosi in realtà all’Uomo, agli impulsi dell’uomo, chiamando a raccolta le forze sue più nobili e ispirandogli un anelito alla trascendenza che prescinde da qualsivoglia schema religioso, di partenza o d’arrivo.
E’ musica pura ma insieme contenutistica, all’altezza di abbracciare anche oggi le anime di tutti, dei ragazzi uccisi a Parigi venerdì 13 novembre 2015 come dei terroristi del Bataclan, sotterrati con i loro tetri sogni di morte; delle vittime e dei carnefici di questa comunità, provvisoriamente sconfitta, chiamata Mondo. E’, nel senso più alto del termine, musica del Perdono, ove si celebra la più completa e irrimediabile disfatta del Male. (altro…)