Monte-Carlo Jazz Festival. Largo ai crooners

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Ciò che stupisce quando Mario Biondi, dalla voce così superbamente grave, attacca il suo recital è la sua straordinaria somiglianza con Barry White. Tutto nelle intonazioni vocali, i ritmi, la musica fortemente intrisa di soul, di funk e di rhythm’n’blues, la scrittura melodica delle canzoni, ci ricorda l’immensa creatura d’un successo planetario degli anni ’70 « You Are The First, The Last, My Everything », conosciuto per la sua taglia imponente e i fiumi di sudore che imperlavano il suo viso quando era sulla scena. Come il suo “antenato” l’elegante vocalist italiano, crooner muscoloso, si indirizza quasi unicamente alle donne, sa affascinarle,, catturarle, farle vibrare grazie a questa voce grave, e tuttavia bella, adescatrice. Il tutto sostenuto da una musica di qualità che ben restituisce quell’universo particolare del r&b dei decenni trascorsi.

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Da quando è apparso sulla scena del jazz vocale all’inizio del 2010 Gregory Porter ha conosciuto una carriera folgorante, restando sempre fedele alle radici del jazz, vale a dire blues e gospel, e conservando una profonda devozione per il suo nume ispiratore, Nat King Cole. Come il suo ‘predecessore’, egli riesce, attraverso brani originali o la ripresa di successi funk, a trasmettere al pubblico la sua emozione in modo molto toccante. La sua voce di tenore, dal timbro chiaro, limpido, talvolta acuta e sensibile, è come un organo dal fascino irresistibile. Egli esprime tutta la profondità del suo canto quando interpreta le sue composizioni come « On The Way To Harlem », « Hey Laura » e si esprime in duo con il suo pianista, Chip Crawford, in « Wolf Cry ». Senza mai dimenticare il suo modo molto personale di rivisitare e far swingare dei successi soul o funk come « Papa Was A Rolling Stone », « Hit The Road Jack » o ancora lo standard « I Fall In Love To Easily ». Ma il concerto raggiunge il suo acme quando Gregory intona il successo che l’ha fatto conoscere al grande pubblico, « 1960 What ? ». Ascoltando questa voce così pastosa e meravigliosa si capisce immediatamente che Gregory Porter, che conosce bene anche lo scat, possiede tutte le qualità che ci si augura di trovare e di scoprire in un cantante di jazz. Insomma un uomo che vive attraverso le sue canzoni.
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Malgrado il tempo che passa Paolo Conte nulla ha perduto della sua bella voce grave del suo charme e soprattutto del suo stile coì particolare ed originale. Accompagnato da un’ orchestra composta da una decina di musicisti, , il pianista/compositore e poeta italiano – che si è man mano trasformato da cantante in fine dicitore – riprende alcune delle sue canzoni che l’hanno reso famoso e attraverso le stesse fa vivere al pubblico fiumi di emozioni e di sentimenti forti .Così, in rapida successione, ascoltiamo « Come di », « Dancing », « Le chic et le charme » e soprattutto « Diavolo Rosso », una lunga melodia dalle origini dell’Europa dell’Est condotta da un’infaticabile chitarrista in cui lo swing la fa da padrone assoluto. Una sorta di ritorno ai suoi primi amori per il jazz.
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Proveniente dal rock e dal blues, Hugh Coltman si è innamorato del jazz e soprattutto dell’universo musicale di Nat King Cole. Per rendere omaggio a colui che era l’archetipo del crooner e allo stesso tempo pianista di assoluto livello, il vocalist britannico ha voluto, con bravura ed anche una certa originalità, reinterpretare i grandi successi di Nat King Cole come « Sweet Lorraine », « Mona Lisa », « Smile » (un brano composto da Charles Chaplin) che trovano così una nuova giovinezza. E che dire della stupefacente interpretazione di « Nature Boy » (divenuto uno standard del jazz) in cui il batterista Raphaël Chassin ha offerto un solo che, partendo da una bella dolcezza e souplesse, è venuto crescendo in potenza, prima di ritornare alla melodia e rilanciare tutto lo charme del brano. Grande arte!