Michele Rabbia. La poesia delle percussioni

©FOTO Andrea Boccalini

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Ad onta del suo cognome, Michele Rabbia è uomo pacato, tranquillo…oseremmo dire dolce. E questo aspetto della sua personalità si riflette perfettamente nella sua musica. In effetti Rabbia ha della batteria e delle percussioni in genere una concezione totalmente diversa dal comune sentire. Di qui nessuna cronometrica scansione del tempo, nessuna esibizione muscolare, nessun fuoco pirotecnico su pelli o metalli, nessun accenno a climi afro-cubani o atmosfere del genere ma la tessitura di un tappeto sonoro prezioso per timbrica ed inventiva, un tappeto che mai si pone in
posizione subordinata rispetto ai compagni d’avventura essendo Michele perfettamente in grado di reggere un confronto paritario con qualsivoglia altro artista soprattutto quando la musica scorre fluida e lasciata alla libera improvvisazione.
Abbiamo conosciuto Rabbia parecchi anni fa durante un concerto a “La Palma” (bel locale della Capitale chiuso nel 2007) con gli Aires Tango. Da allora ne abbiamo seguito la costante crescita fino a ritrovarlo oggi come uno dei più richiesti percussionisti europei soprattutto nell’ambito della musica improvvisata. Ed ecco come Rabbia ha risposto alle nostre domande.

Qualcuno ti ha definito poeta delle percussioni. Pensi che questa definizione ben si attagli alla tua musica?
-Sono grato a colui che ha utilizzato parole così elevate per descrivermi, ma forse è
un po’ esagerato… Il mio modo di pensare in musica e di conseguenza di trasferire sensazioni ed emozioni sullo strumento ha a che fare più con un aspetto coloristico, timbrico e meno muscolare. Sono affascinato dal suono/rumore così come lo sono dal gesto, parte imprescindibile per me nel cercare di fare musica e forse ciò che ne scaturisce è un atto più garbato e giocato su sfumature e colori. La mia visone musicale è in un certo senso una ricerca volta a maneggiare lo spazio sonoro.

In questa visione così particolare, c’è qualche musicista cui ti sei particolarmente ispirato e, nell’ambito dei batteristi-percussionisti italiani, c’è qualcuno che, a tuo avviso, si avvicina in qualche modo al tuo modo di intendere le percussioni?
-Sono state moltissime le figure a cui mi sono ispirato, anche se la maggior parte di loro non rientrano nella sfera batteristi-percussionisti, comunque, per citare alcuni nomi: Tony Oxley, Paul Motian, Max Roach, Nanà Vasconcelos, Pierre Favre, Le Quan Ninh, Anthony Cirone, Paul Lovens e molti altri. Rispondendo alla seconda parte della tua domanda, sicuramente Roberto Dani. Ma come dicevo, una grande fonte di ispirazione mi è venuta da artisti come Pe Lang o Zimou che creano installazioni sonore di grande bellezza o da figure come quella di Carmelo Bene. Quest’ultimo mi ha fatto comprendere l’importanza del suono inteso come peso e relazione, ricordo la prima volta che ascoltai l’incipit del Manfred di Lord Byron e come la voce di Bene e la grande orchestra sinfonica avessero lo stesso peso specifico, la stessa consistenza. Il lavoro fatto da Carmelo Bene sulla voce, le sue possibilità espressive e l’uso dell’amplificazione non inteso solo come potenza, ma come colore aggiuntivo mi hanno completamente rapito. Penso anche che una sorgente da cui ho davvero attinto sia la musica classica contemporanea, dove il lavoro minuzioso sul suono e tutte le sue sfumature mi abbiano fornito un enorme bagaglio di informazioni .

Tu sei giunto al successo pieno in questi ultimi anni, quindi non giovanissimo. Quando sei riuscito a sintetizzare efficacemente tutto questo lavoro di ricerca cui prima facevi riferimento?
Il percorso si è basato sulla ricerca del suono inteso come materia grezza da elaborare e da inserire successivamente nei vari contesti musicali. “La musica è l’arte dei suoni” e con questa affermazione ho posto le basi per sviluppare la mia filosofia musicale. Ad essa va’ aggiunta la passione per la danza che ancora nutro e dalla quale ho incorporato il gesto che genera l’azione musicale. Un altro elemento fondamentale è la figura di John Cage che a mio avviso ha permesso alla musica di sconfinare, di travalicare i confini, rendendo lecito l’utilizzo di materiali extra-musicali e di dare dignità musicale al rumore. Infine l’utilizzo del computer, che oggi considero uno strumento a tutti gli effetti, mi ha offerto la possibilità di estendere il mio bagaglio sonoro, di manipolarlo e/o integrarlo con i suoni acustici. Penso che il mio lavoro “Dokumenta Sonum” sia un po’ la sintesi di questo mio percorso.

Tu sei reduce da un lungo tour…vuoi parlarcene?
Lavorare con grandi musicisti è sempre fonte di ispirazione e questo tour con Andy Sheppard ai sassofoni, Eivind Aarset alla chitarra e Michel Benita al contrabbasso è stato per me un viaggio musicale e umano meraviglioso. Andy è un grande band leader perché è riuscito a far eseguire la sua musica lasciando un ampio spazio per l’improvvisazione ad ognuno, permettendo, anzi, richiedendo le nostre specifiche caratteristiche artistiche. Questo ha creato un terreno molto naturale sotto un profilo esecutivo e il suono del gruppo ha preso una forma molto definita sin dall’inizio.

Attualmente, quali sono i progetti che ti vedono coinvolto?
Ho appena terminato un breve tour in duo con il percussionista Norvegese Ingar Zach. Era da molto tempo che cercavo un partner che utilizzasse il mio stesso strumento e devo dire che lavorare con Ingar è stata una fantastica possibilità. Abbiamo un’estetica molto simile, ma una diversa espressività e questo è stato per me uno stimolo eccezionale. Ho concluso la realizzazione di un disco dedicato alla figura di Giacinto Scessi con Daniele Roccato al contrabasso e Ciro Longobardi al pianoforte. Questo trio mi ha permesso di entrare più in contatto con la musica contemporanea e di lavorare con un pensiero e un approccio differente da quello che di solito utilizzo nel linguaggio a me più consono della musica improvvisata.
Un’altra formazione con cui ho registrato da poco è quella del violinista francese Regis Huby con Marc Ducret alla chitarra e Bruno Angelini al pianoforte. In questo caso si tratta di musica molto scritta e arrangiata, ma creata perfettamente per questa formazione. Inoltre, continuo le mie collaborazioni “storiche” con musicisti come Stefano Battaglia, Dominique Pifarely, Eivind Aarset, Maria Pia De Vito, Antonello Salis, Aires Tango e tante altre. (altro…)

Comincia male il 2016. Ci lasciano Bley e Boulez

Paul Bley

Non si può certo dire che questo 2016 sia iniziato sotto i migliori auspici per il mondo della musica. Nel giro di pochissimi giorni se ne sono andati il pianista e compositore canadese Paul Bley (il 3 gennaio) e il compositore, pedagogo, direttore d’orchestra francese Pierre Boulez (il 5 gennaio). La loro età avanzata (83 anni l’uno, 90 l’altro) e lo stato di salute non proprio florido lasciavano presagire quanto è accaduto… ma il fatto che ci abbiano lasciati quasi contemporaneamente ci induce a sperare che il nuovo anno non prosegua su questi ritmi… anche perché di musicisti anziani ce ne sono tanti ma ancora perfettamente in grado di regalarci qualcosa di buono!
Bley e Boulez, due straordinari personaggi, accomunati, oltre che dalle iniziali (P. B.), da una grande, grandissima passione per la musica, per la ricerca, passione che li ha portati a raggiungere vette per cui la loro memoria resterà indelebile nella storia delle arti al di là di qualsivoglia etichetta.
Certo, per il resto, erano personalità diverse, con modalità espressive diverse, con risultati musicali diversi….
Ho avuto la fortuna di conoscere Paul Bley nei primissimi anni ’80 e in quelle poche volte in cui ho avuto l’opportunità di parlargli mi hanno sempre colpito la sua lucidità di analisi, la sua capacità di guardare al passato per andare avanti, alla ricerca sempre di qualcosa di nuovo. Ed anche per questo Bley rimane uno dei più grandi pianisti che la storia del jazz possa vantare.
Scevro da qualsivoglia cliché o manierismo, il suo pianismo risulta essenziale, anche se coinvolgente per l’efficacia del tocco, la capacità di creare tensione, la valenza ritmica sempre presente anche se spesso non evidenziata, come se viaggiasse sottotraccia e avesse perciò bisogno di un ascolto più attento del normale.
Caratteristiche queste che si avvertono, anche se in maniera diversa, in tutti i suoi oltre cento dischi, a partire dai primi album degli anni cinquanta fino all’ultima registrazione effettuata nel 2008 a Oslo, e da cui è tratto l’eccellente album “Play Blue” pubblicato nel 2014 dalla ECM, album che ci restituisce un Bley ancora in forma perfetta, in grado di evidenziare appieno la sua arte pianistica. Arte la cui influenza è stata enorme non solo sui pianisti di jazz ma su tutta l’evoluzione di questo genere musicale: Bley è stato, infatti, uno dei pochissimi capace di trovare delle modalità espressive assolutamente originali che pur guardando al futuro non rinnegassero il passato.
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