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Seij Ozawa è uno dei migliori direttori al mondo. Specialista tra l'altro del repertorio novecentesco, che sa tradurre in esecuzioni di appassionata esattezza, nel settembre 1984 formò sotto la propria leadership l'orchestra denominata Saito Kinen per commemorare Hideo Saito, famoso insegnante nipponico.
Costituita da strumentisti giapponesi provenienti da ogni parte del mondo, essa ha proseguito la propria attività principalmente sotto la guida dello stesso Ozawa, incidendo dischi ed effettuando tournées di successo in tutto il mondo.

Ozawa è un appassionato cesellatore, un maestro del decorativismo, amante del particolare, del dettaglio che aggetta dalla struttura principale. Il motore di ogni sua scelta musicale sembra essere il senso dei colori, che egli ha vivissimo; ma è anche una mente organizzativa che sa restituire le più lambiccate strutture in immagini chiare, nelle quali consiste l'interezza del pensiero dell'autore prescelto. Perfetto, quindi, per condurre felicemente in porto il “Bambino e i sortilegi” che può ben dirsi il capolavoro scenico del grande autore basco, anche soltanto per l'orchestrazione davvero stupenda (ogni studente di composizione trarrebbe gran profitto da un'analisi approfondita di questa partitura).

E' poi il tono singolare, in bilico tra vaudeville e opera comica, a costituire il fascino di questo microdramma, che Beniamino dal Fabbro definì ”una sorta di geniale e personale compendio di tutte una serie di ispirazioni musicali infantili” , da Schumann, a Musorgskij giù giù fino allo stesso , che con il balletto ‘Ma Mére l'Oye' già si era avventurato nei recessi della fiaba.

Qui abbiamo un bambino che si addormenta dopo aver distrutto, in quel furore ricreativo tipico delle piccole pesti, una certa quantità di giochi: i quali poi, in sogno, si rianimano rancorosi, perfino assetati di vendetta, finché un gesto di spontanea pietà del bimbo nei confronti di uno scoiattolo ferito non li placa, facendo guadagnare al pargolo il perdono “coram populo” o, come sarebbe meglio dire in questo caso, “coram matre”.
Maurice Ravel è spesso assimilato al movimento impressionista ma, già lo si disse anche su queste pagine, nulla è più sbagliato. Egli è un orologiaio, un artista della puntasecca, appassionato di meccanismi di precisione, un seguace spirituale del primo positivismo, uomo del settecento piuttosto che letterato tardo-romantico alla Debussy. La sua musica sembra coniata sul modello mozartiano, tuttavia stringe legami anche con il jazz e la musica leggera del tempo (ben superiore a quella di oggidì). Ravel mai riproduce il reale così com'è; c'è sempre un mondo ulteriore rispetto a quello che si esibisce.
Oltre al tono misterioso, che prima si evocava in riferimento allo stile, questa deliziosa operìna risulta affascinante anche per il particolare ‘declamato' richiesto ai cantanti, sorta di recitativo volto a creare una specie anticonvenzionale di straniamento.

La compagnia di canto (Susan Graham, Isabel Leonard, Jean-Paul Fouchécourt e altri) è qui all'altezza del compito, l'orchestra e il direttore eccellenti. Tra i numeri musicali, degni di nota, spicca un “duo miaulé” che fa degnamente il paio con quello più noto di Rossini. Il libretto di Colette è gustoso quanto praticamente intraducibile.
Nell'opera vengono impiegati strumenti obsoleti quali gli eoliofoni e il flauto di loto, oltre ad oggetti eterodossi come la raganella a manovella, la frusta, i crotali, un ceppo di legno, persino una grattugia per il formaggio.
Completano questo CD Decca altre due altre celebri opere raveliane: Shéhérazade, poema di ispirazione orientale su testo di Tristan Klingsor, ancora con l'ottima Susan Graham, Alborada del Gracioso, trascrizione autografa dell'omonimo, vertiginoso brano incluso nel ciclo pianistico “Miroirs”.

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