I nostri CD. Tutti suonano Verdi
Le incursioni di jazzisti in territorio classico-sinfonico sono sempre state molteplici; meno numerose quelle nell’ambito della musica lirica. Ciò, probabilmente, perché il melodramma trae origine da poche realtà culturali ben identificate tra cui il nostro Paese. In quest’ambito Giuseppe Verdi rappresenta un’icona intoccabile, la sua musica una sorta di mausoleo in cui è arduo addentrarsi senza avere alle spalle una precisa cognizione di ciò che la sua musica ha rappresentato per tutto un popolo. Probabilmente è anche per questo che solo pochi jazzisti stranieri si sono cimentati con la sua musica (ricordiamo il “Coro di zingari” dal Trovatore rivisitato da Glenn Miller, Uri Caine che dedica la sua attenzione all’Otello e il sassofonista e leader Bo van de Graaf alle prese con l’Aida e , come fa rilevare Valentina Pettinelli andando più indietro nel tempo, in un titolo di King Oliver del 1923 compare un’ampia sequenza della Vergine degli Angeli dalla Forza del Destino di Verdi). Il discorso cambia completamente quando ci si riporta dentro i nostri confini ove troviamo molti jazzisti che si sono presi la briga di rivisitare le partiture verdiane. Da menzionare, tra gli altri, Marco Gotti, Danilo Rea, Salvatore Bonafede, Max De Aloe, Gianluigi Trovesi, Furio Di Castri in duo con Antonello Salis, Roberto Bonati, Massimo Faraò, Attilio Zanchi, Marco Castelli … Di recente sono usciti due CD dedicati a Verdi, ambedue di eccellente fattura nella loro diversità.
Cinzia Tedesco – “Verdi’s Mood” – Sony Classical
L’album in oggetto vede protagonista la vocalist Cinzia Tedesco attorniata da un gruppo di eccellenti musicisti quali Stefano Sabatini al piano, Luca Pirozzi al contrabbasso, Giovanna Famulari al violoncello e Pietro Iodice alla batteria. In scaletta alcune delle melodie più note del compositore da “La donna è mobile” (dal Rigoletto) a “Tacea la notte placida” (da Il Trovatore), da “Addio del passato” e “Amami Alfredo” ( ambedue da La Traviata), a “Va, Pensiero” (dal Nabucco), da “Mercé dilette amiche” (dai Vespri Siciliani) a chiudere con la toccante “Ave Maria” (dall’Otello) e “Sempre libera” (ancora da La Traviata). Insomma un repertorio da far tremare le vene dei polsi a chiunque: ebbene il quintetto l’ha affrontato con grande umiltà, partecipazione e intelligenza guidati dalla capacità di Sabatini di arrangiare partiture ben lontane dal jazz. In effetti Stefano si va sempre più imponendo alla generale attenzione come uno degli arrangiatori più originali della scena nazionale soprattutto per saper volgere in chiave jazzistica brani nati in contesti del tutto diversi. Ne avevamo già avuto una prova con quell’ “Essenze Jazz” di Eduardo De Crescenzo di cui vi abbiamo riparlato poco tempo fa; adesso ne abbiamo l’ennesima conferma con questo album in cui la sfida è stata ancora più difficile. Sfida vinta alla grande dal momento che i brani del “Cigno di Busseto”, così come vestiti da Sabatini, sono stati interpretati magnificamente dalla vocalist alla sua migliore prestazione: la Tedesco è infatti riuscita perfettamente a piegare i suoi notevoli mezzi vocali alle necessità dell’interpretazione nulla concedendo alla spettacolarità e cercando di rimanere fedele allo spirito originario. E al riguardo bisogna evidenziare come l’impresa sia stata resa possibile dall’intero gruppo che, oltre ad avvalersi dei già citati arrangiamenti di Sabatini, ha potuto contare sulla maestria strumentale dei singoli con la sezione ritmica impegnata a tessere il giusto impianto timbrico-cromatico impreziosito dagli assolo della Famulari.
Play Vardi 4tet – “Play Verdi” – Terre Sommerse edizioni
Di impianto completamento diverso questo secondo CD significativamente sottotitolato “Un viaggio tra i Preludi del Grande Maestro”. Le opere prese in considerazione sono “Aida”, “Luisa Miller”, “Ernani”, “Macbeth”, “Attila”, “Simon Boccanegra”, “Stiffelio”, “Un ballo in maschera”, “La forza del destino”, “La traviata”. Il quartetto con Andrea Pace al sax tenore, Nicola Puglielli alla chitarra, Piero Simoncini al contrabbasso e Massimo D’Agostino alla batteria, ha scelto di misurarsi con le partiture verdiane seguendo un approccio diversificato: così, in qualche caso (leggi Attila) si è preferito rispettare il tema, in altri brani si è cercata una jazzificazione della melodia, in altri ancora si è intervenuto sul ritmo cercando, comunque, come afferma Andrea Pace, di “rispettare il più possibile la polifonia e l’impianto verdiani, aprendo, dove si pensava possibile, a delle improvvisazioni”. Ed in effetti l’equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione è raggiunto senza sforzo apparente, grazie anche agli arrangiamenti di Pace e di Nicola Puglielli vero ispiratore del progetto. I due si sono mossi nell’ottica di trasformare in standard alcune pagine operistiche, procedimento, questo, adottato in passato dal jazz con brani tratti dal musical. Una fatica, quindi, ardua, complessa, una fatica che presuppone da un lato una grande conoscenza del materiale tematico, dall’altro una vera, genuina passione per questa musica; non a caso l’album risulta ben curato in ogni singola parte con il quartetto che si muove con competenza e affiatamento. Tutti e quattro i musicisti riescono ad esprimere appieno le proprie potenzialità transitando, con disinvoltura, da un’atmosfera all’altra senza che l’album perda in omogeneità e coerenza. Così l’ascolto risulta godibile dalla prima all’ultima nota. (altro…)
Voci lontane, sempre presenti
Tarquinio Merula, ci racconta il direttore Giovanni Acciai, è colui che a metà Seicento “inebriando la parola e il testo” creò “la poesia del linguaggio parlato”.
Nato a Busseto nel 1595 (piccolo borgo che nel 1813 darà i natali al ben più noto “fortunello”) Merula – di cui ricorre il trecentocinquantesimo anniversario dalla morte – è figura importante e rappresentativa di quella lunga fase di transizione che da Monteverdi porta a Vivaldi. Nucleo di questo stile è il rapporto espressivo che deve instaurarsi tra parola, senso e suono, cioè a dire: le amplificazioni poetiche del canto.
Il bel saggio incluso nel CD, a firma dello stesso direttore, ci informa ben altrimenti di quanto si possa fare in questo spazio non solo su una personalità, ma su un complesso periodo che pare quasi del tutto dimenticato, perlomeno dalle società di concerti nostrane. Dopo l’ascolto del disco, avendo pure – mi si perdoni l’auto-citazione e la digressione – frequentato in sala da concerto e d’incisione il repertorio italiano più misconosciuto, non di rado splendido, mi sono chiesto: in Italia siamo così ricchi culturalmente da permetterci di snobbare tesori come questa “Arpa Davidica”?
Merula è più noto per la musica strumentale, meno frequentata è la musica sacra e vocale: quest’ ”Arpa Davidica”, edita nel 1640, “con artificiosa inventione composta, la quale da tre, e quattro voci contrapuntizata obligata a non piu’ viste maniere con insolita vaghezza risuona, salmi, et messa concertati con alcuni canoni nel fine”, è un lavoro dalla gestazione complessa. I testi di questi “Salmi e Messe” sono tratti da quelli biblici del re Davide, come dal titolo si evince. Nel booklet, Acciai dipana una minuziosa disamina critica dello stile che lo ha prodotto. Basti ricordare qui almeno due elementi: la straordinaria espressività della musica, che “madrigalizza” il testo riuscendo a conferire realtà plastica alle immagini – stupende – dei Salmi e, per converso, la relativa esiguità del comparto vocale: poche voci sostenute da basso continuo.
Ma quale commovente resa sonora!
La lezione di Monteverdi si sente, come ricordo, come premessa. Tuttavia lo svolgimento musicale di Merula si fa presto largo nella sua propria peculiarità, con accenti nobilissimi. È un avventurarsi in un mondo “altro”, lontano, dai contorni eterodossi rispetto allo stile preponderante della musica sacra d’oggigiorno (ammesso e non concesso che tale musica oggi sia ancora reperibile all’ombra delle nostre chiese)
Giovanni Acciai è direttore di lunga esperienza e infallibile istinto: il gruppo da lui guidato, Nova Ars Cantandi, si rivela all’altezza della guida. Le strutture armoniche, raffinatissime, appaiono sempre chiare e, pur nella severità dell’accento, non mancano connotati persino amabilmente virtuosistici e affettuosi. Il CD edito da Archiv Produktion, anima “filologica” di Deutsche Grammophon, sarà salutato con gratitudine dagli ascoltatori più intelligenti e avventurosi, come da tutti coloro che vogliano ancora una volta toccare con mano una verità che mi sento di enunciare senza tema di smentita: partiture alla mano, non vi è ragione di considerare la musica italiana inferiore a quella di altre civiltà musicali a noi vicine.
Un plauso quindi anche all’etichetta, che in tempi di crisi ha coraggiosamente prodotto un lavoro che le fa onore, e al quale si augura un auspicabile successo di vendite.
Note Noire @ Zingarò Jazz Club, Faenza
Note Noire @ Zingarò Jazz Club, Faenza
Note Noire
Ruben Chaviano. violino
Roberto Beneventi. fisarmonica
Tommaso Papini. chitarra
Mirco Capecchi. contrabbasso
Mercoledì 23 marzo 2016. ore 22
Zingarò Jazz Club
Faenza (RA). Via Campidori, 11
web: www.twitter.com/zingarojazzclub ; www.ristorantezingaro.com
Mercoledì 23 marzo, alle 22, sul palco dello Zingarò Jazz Club si esibirà il quartetto Note Noire, formato da Ruben Chaviano al violino, Roberto Beneventi alla fisarmonica, Tommaso Papini alla chitarra e Mirco Capecchi al contrabbasso. La serata avrà inizio alle 22 ed è ad ingresso libero.
La musica non è mai pura conservazione e sempre trova la propria strada, come fa l’acqua, come fanno i popoli quando per necessità si muovono. Note Noire unisce nel proprio repertorio il mondo musicale mediterraneo e quello mitteleuropeo. La musica è il guado possibile tra queste due sfere così inconsapevolmente collegate da tradizioni sonore conservate riposte nelle abili, preziose mani dei musicisti zigani. Oltreconfine è il nuovo disco del quartetto e contiene brani originali, nuove melodie che attraversano suoni e colori delle antiche tradizioni. (altro…)
Enrico Pieranunzi ed Enrico Rava presentano i loro “songbook”
Enrico Pieranunzi autore di canzoni? E perché no; la notizia può stupire solo chi non conosce il multiforme e smisurato talento del pianista romano, oramai considerato una delle punte di diamante del pianismo internazionale. Certo non stiamo parlando di canzoni nel senso tradizionale del termine ma di un connubio tra parole e musica nel solco di una lunga e gloriosa tradizione jazzistica. Ebbene, proprio richiamandosi a questa tradizione, Enrico ha registrato uno splendido album dal significativo titolo “My songbook” con Simona Severini alla voce, Luca Bulgarelli al contrabbasso, Nicola Angelucci alla batteria e due guests, Rosario Giuliani al sax alto e soprano e Francesco Lento alla tromba.
In programma undici brani tutti musicati dal pianista che in molti casi ha scritto anche le parole; non è infatti un mistero che Pieranunzi ami moltissimo la poesia: di qui il ricorso a testi di personaggi illustri quali il poeta e scrittore afroamericano nonché esponente di primo piano della Harlem Reinassance, Langston Hughes in inglese e la grandissima poetessa Jacqueline Risset in francese. Di converso alcune personalità artistiche internazionali, affascinate dalle melodie del pianista, si sono offerte di aggiungere alla musica dei propri testi: è il caso di Duran, Morrish, Julie Goell (“Fairy flowers”), Zawadazki .
L’album, uscito nel gennaio scorso per Jando Music|Via Veneto Jazz, è stato presentato alla Casa del Jazz il 9 marzo scorso e, caso non troppo frequente, l’ascolto live per nulla è risultato inferiore all’ascolto dell’album.
Ad aprire le danze “My heart in a song” con testi di S. Duran cui ha fatto seguito uno dei brani più cari a Pieranunzi… e non solo a lui, “Night bird” inciso nel ’79 con Chet Baker, Maurizio Giammarco, Roberto Gatto e Riccardo Del Fra, così come “Soft journey” e “Fairy flowers” questi ultimi due mai prima registrati in versione vocale e che sono stati eseguiti durante il concerto romano. E bene ha fatto Pieranunzi a ricordare la lunga e straordinaria collaborazione con Chet Baker che tanti straordinari frutti ha dato, per cui è stato davvero emozionante risentire pezzi che hanno accompagnato la carriera artistica sia di Pieranunzi sia di Baker.
Ma il concerto romano non è vissuto, ovviamente solo nel ricordo del grande trombettista. Abbiamo , infatti, ascoltato altre perle dovute alla penna di Pieranunzi tra cui “Coralie” e “Io non saprò mai perché”; in ogni occasione il pianista ha duettato magnificamente con Simona Severini che si è confermata eccellente vocalist, dotata di una voce allo stesso tempo potente e intrigante e soprattutto di rilevanti capacità interpretative che le consentono di transitare con estrema disinvoltura da atmosfere di chiara impronta boppistica (“Night bird”) a pezzi di natura più intimista (“Just a song”) . In effetti questo album rappresenta il culmine di una collaborazione tra pianista e cantante che data dal 2012 quando insieme interpretarono “Futura” nell’album significativamente intitolato “Dalla in jazz”; successivamente i due si sono esibiti in numerosi concerti in Italia e in Francia per cui si può ben dire che questo album rappresenti il culmine della loro collaborazione .
E parlando sia del concerto sia del disco non si può non evidenziare la prova del collettivo con una sezione ritmica di eccellente livello e i fiati che quando sono stati chiamati in azione, hanno dato un contributo decisivo.
In definitiva un bel concerto e un gran bel disco che ci mostrano un altro lato della complessa e affascinante personalità del pianista romano e che portano all’attenzione di quanti ancora non la conoscono una vocalist di classe quale Simona Severini.
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Alessandro Galati: dal Giappone con amore
Alessandro Galati ha un curriculum quasi da capogiro ed è uno dei nostri Jazzisti più amati e conosciuti all’estero. Ha collaborato con nomi prestigiosi del Jazz internazionale (David Murray, Steve Lacy, Lee Konitz, Steve Grossman, Peter Erskine, Dave Liebman, Palle Danielsson, Bob Sheppard, John Patitucci, Michael Moore, Kenny Wheeler, Enrico Rava, Paolo Fresu, solo per citarne alcuni) ed ha una nutrita discografia al suo attivo. L’ anno scorso il suo “Seals” era stato premiato dalla rivista giapponese “Jazz Critique Magazine”. Quest’anno con “On a sunny day” il consenso di critici e pubblico è stato rinnovato.
Ne parliamo in questa intervista che Alessandro ha gentilmente concesso a noi di “A proposito di jazz”.
Alessandro, cominciamo subito a parlare del riconoscimento che hai ricevuto in Giappone da parte della rivista Jazz Critique Magazine per il tuo album “On a sunny day”, edito da Via Veneto Jazz, come miglior album strumentale. Per il secondo anno consecutivo, perche’ l’ anno scorso avevi vinto con “Seals” . Non capita a molti e non capita spesso ad artisti italiani.
E’ stata una sorpresona infatti. La stima del pubblico e della critica Giapponese (entrambi sono chiamati a votare nel poll indetto da Jazz Critique) mi commuove.
In Giappone ci sono fenomeni del pianoforte Jazz, ne cito due, Cihiro Yamanaka e Hiromi Hueara. Come pianista cosa pensi attragga del tuo stile, in un paese che ha pianisti jazz di fama internazionale?
Nell’era della globalizzazione tutti siamo “a portata di click”. Questo per noi musicisti e’ una fortuna perche’ abbiamo la possibilita’ di essere facilmente ascoltati anche in paesi lontanissimi. La mia musica e’ arrivata in Giappone prima di me, e probabilmente il mio stile compositivo ed esecutivo bene interpreta un ideale Asiatico un po’ “less is more”.
Come è suonare in Giappone? Arrivare li’, l’ accoglienza, l’ organizzazione, cosa ti piace, cosa ti incuriosisce, e c’e’ qualcosa che invece ti lascia perplesso?
Negli ultimi dieci anni sono stato a suonare in Giappone quattro volte. Sono estremamente gentili e super organizzati. Qualità che si fanno parecchio apprezzare quando si è da soli lontano da casa. Dopo un po’ di giorni però manca quel tipico guizzo improvvisativo che abbiamo noi Italiani nel risolvere i problemi.
Ci parli un po’ del tuo cd? Un cd in Trio. E’ una formazione che sembra esserti molto consona, spiegaci perché.
Il trio è da sempre la mia formazione ideale, quella con cui riesco ad esprimere al meglio la mia visione della musica. Fin dal mio primo cd “Traction Avant” con Palle Danielsson e Peter Erskine ho trovato nel trio la perfetta collocazione per le mie idee. Mi attira la formula comunicativa del trio, in cui tutti siamo egualmente responsabili degli equilibri che si avvicendano nella musica, mi piace sperimentare strutture, tempi, suoni diversi, senza mai dimenticare di tenere ben in vista il timone nella direzione della melodia, mia principale meta, un legame antropologico eminentemente Italiano.
Chi sono i musicisti che ti hanno accompagnato in questa avventura?
Il mio trio odierno è con Gabriele Evangelista al contrabbasso e Stefano Tamborrino alla batteria, musicisti dotati di una straordinaria sensibilità, due intelligenze fuori dal comune.
Nella tua musica, come stavi accennando, c’è una costante attenzione alla melodia…
Credo nella melodia a dispetto dei “tempi” (specie quelli composti) . Esemplifico: di questi tempi il jazz newyorkese, ad esempio, è andato tutto nella direzione della iper-complessità ritmica. Sembra esserci una tendenza quasi a vergognarsi della melodia. Io invece ho le mie convinzioni ben radicate riguardo a questo, una musica che non mi affascina principalmente sul piano della melodia tende ad annoiarmi presto: e questo indipendentemente da quanto possa interessarmi o meno sul piano ritmico, o persino su quello meramente armonico.
Come nasce un disco di Alessandro Galati?
Nasce dall’esigenza di mettere “nero su bianco” un pensiero, un’idea di bello. Mi piace calarmi nel processo di individuazione di un nuovo progetto discografico, mi eccita e ogni volta mi ci dedico con grande passione nonostante i tempi per la discografia non siano i migliori.
E in quanto tempo si realizza un disco di Alessandro Galati?
Dipende. Dall’inizio della composizione fino alla realizzazione ci possono volere mesi. In studio un paio di giorni tra registrazione e mix sono sufficienti.
“On a sunny day” è stato registrato e missato ad Udine da Artesuono, dal mago Stefano Amerio. Qual è il valore aggiunto di questa importante fase di realizzazione di un progetto?
Con Stefano Amerio c’è una sintonia perfetta. Lui sa esattamente cosa vuole un musicista e ogni volta mi sorprende sempre più. E’ una persona meravigliosa, generosa e altamente professionale. Ho avuto la fortuna di registrare con i migliori tecnici al mondo, da Bernie Kirsch a L.A. nello studio di Chic Corea a Jan Erik Kongshaug di Oslo ai meravigliosi studi della Sony di Tokyo. Ebbene, Stefano è senza dubbio a questi livelli con il pregio che è a Udine, è una vera fortuna averlo così vicino.
Sembrerebbe per te più facile farti conoscere in Giappone che in Italia. Quale potrebbe essere la difficoltà alla base di questo fenomeno?
I fattori potrebbero essere molti, il primo dei quali è che probabilmente io s(u)ono troppo Italiano per essere un Jazzista..
Dimmi due aggettivi positivi e due negativi per definire, da Jazzista, sia il Giappone che l’ Italia
Giappone: altamente professionali, cibo eccellente, nessuno parla Inglese, poco creativi
Italia: molto creativi, cibo eccellente, troppo filoamericani, molto mercato nero
Fai Jazz da molti anni. Dicci le soddisfazioni, le gioie, i rimorsi, i rimpianti.
Faccio ciò che ho sempre sognato di fare, il musicista improvvisatore. Ho suonato con moltissimi musicisti che hanno fatto la storia di questa musica, ho viaggiato e visitato molte nazioni straniere. Mi dispiace che in Italia il nostro lavoro non goda ancora dei diritti necessari, per questo credo molto nella nuova associazione midj, il cui lavoro per adesso sta dando frutti importanti.
Hai già in cantiere nuova musica?
Ho registrato un nuovo lavoro dedicato alla memoria del grande trombettista compositore scomparso Kenny Wheeler che dovrebbe uscire in primavera con il mensile Musica Jazz. Un tributo con musica interamente di mia composizione insieme a Simona Severini, Stan Sulzman, Stefano Cantini, Ares Tavolazzi, Enzo Zirilli.
La musica continua…