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Ralph Alessi – “Quiver” – ECM 2438
QuiverAtmosfere intimiste, a tratti liriche, note centellinate con grazia: questo il clima che si respira ascoltando l‘ultimo lavoro di Ralph Alessi, a nostro avviso l'opera più matura e convincente finora prodotta dal trombettista. A tre anni di distanza dall'eccellente “Baida”, inciso sempre per la ECM con Jason Moran al , Drew Gress al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria, Alessi si ripresenta con lo stesso quartetto, eccezion fatta per Jason Moran sostituito da Gary Versace. E ovviamente il suono cambia in quanto i due pianisti sono differenti per tecnica e modalità espressive. Ma, come si accennava in apertura, la compattezza del gruppo non ne risente, anzi! Il quartetto si muove con grande disinvoltura grazie anche alla intelligente scrittura di Alessi: alla sua penna si devono, infatti, tutti gli undici brani in repertorio in cui l'artista californiano è riuscito a ben equilibrare pagina scritta e improvvisazione lasciando ad ognuno ampia libertà di esprimersi. Si ascolti, ad riguardo, “Smoothy Descent” in cui per lunghi tratti la tromba tace lasciando tutta la scena al trio pianoforte, contrabbasso, batteria. Ovviamente in molte altre situazioni è Alessi a tornare in primo piano, con un suono limpido ma allo stesso tempo variegato, un'assoluta padronanza della dinamica, un fraseggio ben articolato che pur prendendo le mosse dal post-bop sfocia spesso nella musica contemporanea, evidente retaggio del background di questo musicista, figlio di un trombettista classico e di una cantante d'opera, ed egli stesso trombettista classico prima di incontrare Charlie Haden. I brani sono tutti interessanti ma forse una menzione particolare, oltre al già citato “Smoothy Descent” la merita “Do Over” l'unico brano up- tempo dell'album impreziosito dal bel lavoro di Nasheet Waits alla batteria.

Jon Balke – “Warp” – ECM 2444
WarpPianista e compositore visionario e suggestivo, il norvegese Jon Balke è al suo secondo album in solo per la ECM dopo ‘Book of Velocities' del 2007. Le coordinate su cui si muove rimangono sostanzialmente le stesse, vale a dire una musica che trova da un canto nel sound dall'altro in strutture piuttosto labili e mai chiaramente definite le sue principali fonti di ispirazione. Così non è un caso che il pianoforte appaia ‘preparato' con alcuni oggetti piazzati sulle corde o che lo strumento sia stato trattato in fase di post- produzione per ottenere uno specifico suono. In realtà, come illustrato nelle specifiche dell'album, il pianoforte di Balke è stato registrato al Rainbow Studio di Oslo, le immagini sonore sono state registrate ed elaborate da Balke e Audun Kleive, mentre registrazioni aggiuntive sono state integrate durante il mix dell'album all'RSI Studio di Lugano nel settembre del 2015. Ma tutto ciò per nulla nuoce all'omogeneità dell'album ché il procedere dello stesso evidenzia proprio l'intento dell'artista di avanzare verso una specifica direzione, ben conscio delle difficoltà che si incontrano: « Come sempre » spiega Balke « più si esplora e si scopre, più si vuole andare avanti anche se le cose non sono poi semplici. E' un processo interessante ». Di qui la diversa natura dei brani: alcuni sono veri e propri frammenti come “Mute” o “Geminate”; altri hanno un andamento più complesso e completo come “This Is The Movie”; altri ancora – “Bolide” – hanno un evidente sapore impressionista che denuncia una profonda conoscenza del mondo classico… e via di questo passo in un mutar di atmosfere, inserite in uno spazio in costante fluttuazione a tratti di grande, grandissimo fascino. E' questo il caso di “Kantor” in cui oltre al piano si ascolta in sottofondo una voce e un suono che sembra provenire da un organo.

Avishai Cohen – “Into The Silence” – ECM 2482
intothesilenceAlbum di rara intensità ma allo stesso tempo di grande delicatezza e liricità questo album che vede protagonista il trombettista israeliano Avishai Cohen, nativo di Tel Aviv ma oramai da tempo residente negli States. Con questo disco Cohen fa il suo debutto da leader per la ECM alla testa di un gruppo completato dall'altro israeliano Yonathan Avishai al piano, già al fianco del trombettista in molteplici occasioni, dal bassista Eric Revis, già membro autorevole del quartetto di Branford Marsalis, dal batterista Nasheet Waits e dal tenorsassofonista Bill McHenry che si è fatto conoscere suonando, tra gli altri, con Paul Motian e Andrew Cyrille. Album di grande delicatezza, dicevamo, e ciò si spiega avendo riguardo alla genesi dei sei brani in repertorio, dedicati alla memoria del padre di Avishai, David scomparso nel 2014. La musica scorre così con semplicità, arrivando davvero a toccare il cuore di chi ascolta, come una sorta di ricordo struggente di chi non si rivedrà più e di cui avverti la mancanza, sottolinea lo stesso artista, soprattutto quando “la voce di una persona che hai amato non è più accanto a te, e allora comprendi cos'è il silenzio, l'assenza”. Di qui l'importanza riservata al silenzio, che in questo caso rappresenta, per l'appunto, l'assenza. Di qui la logica conclusione dell'album con un pezzo intitolato “”Life And Death – Epilogue”. Ciò detto, dal punto di vista musicale, Cohen è riuscito ad esprimere compiutamente questi pensieri; la sua tromba, spesso sordinata, disegna suadenti linee melodiche con trasporto ed essenzialità, richiamando esplicitamente il Davis degli anni '60, con un sound originale e privo di vibrato . I pezzi, tutti dovuti alla sua penna, sono ben strutturati e “scritti” lasciando quindi non molto spazio alle improvvisazioni; eppure anche in un tale contesto particolarmente rilevante è stato l'apporto del pianista Yonathan Avishai che ha spesso dialogato con il trombettista riuscendo ad esprimere appieno le atmosfere, le nuances volute dal leader: non è un caso che il già citato brano di chiusura sia interpretato dal pianista in splendida solitudine.

Avishai Cohen – “From Darkness” – Sunnyside / Razdaz Recordz –
From darknessIl jazz israeliano annovera due Avishai Cohen: il primo (classe 1978) è il trombettista di cui sopra, il secondo (classe 1970) è il contrabbassista, compositore e vocalist protagonista di questo album. Cohen, da quando ha fatto parte del sestetto “Origin” di  Chick Corea  (dal 1996 al 2003), ha sviluppato una propria poetica che lo pone come personaggio unico nel pur variegato panorama del jazz internazionale. Questo “From Darkness” è il suo quindicesimo album da leader ma presenta una particolarità: dopo “Gently Disturbed” del 2008 è il secondo album che Cohen incide in trio, nonostante, per sua stessa ammissione, “la mia musica sia sempre stata scritta – ed eseguita – per il trio”. A riportarlo su questa strada l'incontro con altri due straordinari musicisti, il pianista Nitai Hershkovits e il batterista Daniel Dor: il primo collabora con Avishai Cohen a partire dall'album “Duende” del 2012 mentre il secondo è entrato nel mondo del compositore israeliano all'inizio del 2014. Ma l'intesa fra pianista e batterista è stata immediata tanto da far dichiarare al leader che “tra i due si è creato uno spazio che dona forza ai momenti condivisi in scena: sanno portare la musica in luoghi e prospettive che non avrei mai immaginato”. E per averne conferma basta ascoltare l'album in oggetto: la musica scorre fluida, senza un solo attimo di stanca, corroborata da una empatia tale da avere la sensazione che i tre riescano a fondersi in un unicum di rara compattezza. Il pianismo di Hershkovits nulla concede allo spettacolo, basandosi spesso su nuclei tematici reiterati alla ricerca di una essenzialità nelle cui pieghe si celano mille sfumature; il drumming di Dor appare propositivo seppur mai invadente con quel tocco di fantasia e di ricerca timbrica che impreziosisce il tutto. Ovviamente in primo piano resta la figura di Cohen sia come strumentista sia come compositore: dieci degli undici brani in programma sono suoi, cui si aggiunge il celebre “Smile” di Charlie Chaplin porto in maniera tanto personale quanto convincente. La pubblicazione di “From Darkness” è accompagnata da un tour in giro per il mondo, che toccherà anche l'Italia, il 19 marzo, con un concerto all'Auditorium Gazzoli di Terni per “Visioninmusica”.

Hugh Coltman – “Shadows – Songs of Nat King Cole” – Okeh
shadows-songs-of-nat-king-coleNel mondo del jazz, così come nel mondo dell'arte in generale, ci sono personaggi che rappresentano vere e proprie icone, difficili quindi da imitare o da approcciare. Nat King Cole appartiene a questa categoria, personaggio giustamente passato alla storia come grande pianista ma soprattutto raffinato vocalist. Bisogna, perciò, dare atto a Hugh Coltman, cantante e armonicista brillante, di aver avuto un gran coraggio a registrare un CD contenente alcune delle migliori interpretazioni di Cole. L'ammirazione di Coltman per questo artista viene da lontano, viene da quando bambino ne ascoltava i dischi assieme alla sua mamma che lo considerava uno degli artisti preferiti. Di qui l'idea, coltivata a lungo, di affrontare questa sfida e rendere così omaggio sia alla madre sia a Nat King Cole. In effetti Coltman è artista di rara sensibilità, che ama mettersi alla prova, passando dal blues con il suo gruppo “The Hoax”, al pop con artisti quali Nouvelle Vague, Babet o Mayra Andrade fino ad arrivare al jazz con China Moses o il pianista Eric Legnini che l'ha invitato a partecipare al su album “Swing Twice”. Ed ora Coltman ha ricambiato il favore dato che in questo “Shadows” figurano proprio Eric Legnini alle tastiere e agli arrangiamenti, Misja Fitzgerald Michel alla chitarra, Laurent Vernerey al basso, Franck Agulhon o Raphaël Chassin alla batteria, Pierrick Pedron al sax alto, Nicolas Liesnard all'organo Hammond e Freddy Koella alla chitarra. Supportato da questo ensemble di ottimi musicisti, Coltman, come si accennava, ripropone sia alcuni dei più grandi successi di Nat King Cole come “Nature Boy”, “Mona Lisa”, “Smile” sia brani meno conosciuti ma non per questo meno preziosi come “The Shadows” , “Small Towns are Smile Towns” o “Morning Star”. Ma, a prescindere dal pezzo interpretato, Coltman dimostra di aver ben assimilato la lezione del suo predecessore: il suo stile è sempre misurato, rispettoso dell'originale, con una voce calda, suadente, spesso emozionante anche se non priva di una certa tensione, quella stessa tensione che – sostiene Coltman – Nat King Cole deve aver provato vivendo ed esibendosi in un periodo e in un Paese in cui i neri non avevano certo vita facile.

Lars Danielsson
& Cæcilie Norby – “Just The Two Of Us” ACT 9732-2
Liberetto II ACT 9571-2
Liberetto IIIl contrabbassista e multistrumentista svedese Lars Danielsson, vincitore del prestigioso ECHO Jazz 2015 come miglior contrabbassista dell'anno in Germania,  si conferma con questi due album artista dalla spiccata sensibilità e versatilità.
Nel primo presenta l'oramai collaudato duo con la moglie danese Cæcilie Norby, vocalist del tutto particolare in quanto nel suo repertorio accanto a standards jazzistici figurano alcuni dei brani più significativi della musica pop degli ultimi 30 anni. Non a caso l'album si apre con uno dei brani più importanti di Joni Mitchell “”Both Sides Now””, per chiudersi con uno dei pezzi più noti di Leonard Cohen, “”Halleluja”. In mezzo undici brani scritti in massima parte dai due (insieme o singolarmente) con altre due composizioni di Abbey Lincoln (“And It’s Supposed To Be Love”” e “”Wholly Earth””) e una di Carl Nielsen e Nikolai F.S. Grundtvig. Il clima è particolarmente raccolto, con la Norby che ancora una volta evidenzia il suo strumento allo stesso tempo potente, caldo ma ricco di sfumature con intonazioni blues e Danielsson che riesce a trarre dai suoi strumenti (basso, cello, percussioni e marimba usata solo nel già citato primo brano della Lincoln) le note giuste per evidenziare al massimo sia le capacità canore della compagna di strada sia la bellezza melodica e armonica dei brani presentati che per nulla risentono dell'organico così scarno. Insomma si tratta dell'incontro straordinario tra jazz e canzone a dimostrazione del fatto che davvero la musica non conosce confini se ad eseguirla sono artisti di spiccata levatura.
”Liberetto II”, come dice lo stesso titolo, è la prosecuzione del felice primo episodio del 2012, e vede Lars Danielsson con gli stessi musicisti di tre anni prima, vale a dire Tigran Hamasyan al pianoforte, John Parricelli alla chitarra elettrica e Magnus Ostrom alla batteria, mentre questa volta manca la tromba di Arve Henriksen. In alcuni brani figurano, inoltre, in qualità di ospiti Mathias Eick alla tromba, Cæcilie Norby, Zohar Fresco voce e percussioni e Dominic Miller alla chitarra. Danielsson e compagni seguono la strada tracciata nel primo album, vale a dire una sapiente miscela di jazz da camera, musica popolare, input derivanti anche dalla musica colta.
Di qui una musica curata in ogni particolare, affascinante, elegante… si potrebbe anche dire sofisticata in cui la pagina scritta sembra avere la netta prevalenza sull'improvvisazione, tanto che gli interventi solistici sono per lo più sacrificati sull'altare dell'esecuzione collettiva. Tutto ciò, però, nulla toglie alla freschezza dell'album impreziosito dalla maestria di tutti i musicisti e dalla consistenza del materiale tematico scritto in massima parte dallo stesso leader. Purtroppo c'è ancora chi, dinnanzi ad ascolti di questo genere, si pone il problema se si tratti o meno di jazz, come se la cosa fosse importante per stabilire la qualità della musica. Musica che a mio avviso, in questo caso è di elevata qualità rispondendo ad alcuni requisiti che ci sembrano imprescindibili: coerenza, sincerità d'ispirazione, compattezza dell'organico. I brani sono tutti assai godibili ma se proprio dovessimo citarne qualcuno, vi inviteremmo ad ascoltare con particolare attenzione “Miniature” e “Africa”, veri e propri saggi di bravura di Danielsson rispettivamente al violoncello e al contrabbasso. Ultima ma non certo secondaria considerazione: questo album ha vinto l'Echo Jazz 2015.

Tord Gustavsen – “What Was Said” – ECM 2465
What was saidIl pianista, compositore e arrangiatore norvegese Tord Gustavsen è artista ben noto al pubblico italiano non fosse altro che per i precedenti sei album incisi per la ECM a partire dal 2003 con “Changing Places”. Dopo aver esplorato le possibilità espressive del classico trio (piano, batteria, contrabbasso) e del quartetto (trio più sassofono) questa volta Tord ha cambiato totalmente strada e si presenta con un organico assolutamente rivoluzionato composto dal fido batterista Jarle Vespestad e dalla vocalist tedesca-afghana Simin Tander. In repertorio tredici inni tratti dal repertorio tradizionale norvegese, con testi tradotti dal poeta B.Hamsaaya in Pashto, lingua parlata in Afghanistan ed in Pakistan; ma la Tander canta anche in inglese testi del mistico persiano Jalal al-Din Rumi e del poeta americano Kenneth Rexroth. La scelta di questo repertorio non deve stupire più di tanto ove si consideri che la maggior parte dei musicisti norvegesi sono molto legati al loro patrimonio musicale: non a caso lo stesso Gustavsen, nella presentazione dell'album, afferma che questi inni hanno costituito per lui una sorta di standard in cui era immerso sin da quando ha cominciato a studiare musica. E tutto il fascino di questa musica quasi senza tempo si irradia attraverso l'arte del trio che trascende qualsivoglia definizione trasportando l'ascoltatore in una dimensione “altra” in cui concetti come jazz, avanguardia europea, sperimentalismo perdono significato per cedere il passo ad una percezione che scava nel profondo. Certo il ritmo è del tutto assente, le atmosfere sono omogenee e la musica si dipana lungo coordinate ben precise ma tutto ciò, a nostro avviso, costituisce un valore aggiunto in quanto i tre si concentrano sul loro modo di intendere l'espressività musicale alla ricerca di una sintesi tra patrimonio folcloristico scandinavo, linguaggio jazzistico ed espressività araba.

Tigran Hamasyan
“Mockroot” – Nonesuch
“Lus i Luso” – ECM 2447
Lus i LusoTigran Hamasyan è certamente pianista di grande spessore, in possesso di tecnica sopraffina e di una buona capacità compositiva. Ma ancora non convince del tutto in quanto dalle sue produzioni discografiche, come le recentissime due che vi presentiamo in questa sede, non si capisce la via su cui intende incamminarsi
In “Mockroot”, il primo album per l'etichetta Nonesuch, Tigran si presenta alla testa di un gruppo con Sam Minaie basso elettrico e Arthur Hnatek batteria ed electronics cui si aggiungono in “The Roads That Bring Me Closer To You” Gayanée Movsisyan alla voce e in “Song For Melan & Rafik” l'altra voce di Areni Agbabian oltre a Ben Wendel sax, Chris Tordini basso e Nate Wood batteria. E già dall'organico si comprende come questa volta l'artista armeno abbia voluto prendere le distanze dal precedente album “Shadow Theater” per abbracciare una musica influenzata dall'elettronica, con un forte impianto ritmico. Di qui il ruolo fondamentale giocato dal batterista Arthur Hnatek, la reiterazione di piccole cellule melodiche a volte quasi ossessiva e l'aggressività con cui spesso Tigran percuote i tasti del suo strumento. E queste caratteristiche le ritroviamo in tutti i brani, eccezion fatta per “To Love” e “Lilac” brani delicati e lirici, quasi di impostazione neoclassica e “The Roads That Bring Me Closer To You”. Anche in questo album, comunque, non manca un preciso riferimento alle sue radici armene testimoniato dalla riproposizione di due brani tradizionali “Kars 1” e “Kars 2”.
Di impianto totalmente diverso “Lus i Luso” che segna il debutto in casa ECM del pianista armeno; affiancato dallo Yerevan State Chamber Choir diretto da Harutyun Topikyan, Hamasyan si avventura in una impresa quanto mai ardua: riattualizzare l' antica e vasta tradizione musicale di stampo cristiano ortodosso. In particolare Hamasyan ha selezionato inni e canti liturgici armeni di autori quali Grigor Narekatsi, Nerses Shnorhali, Mesrop Mashtots, Mkhitar Ayrivanetsi, Grigor Pahlavuni, Komitas, arrangiandoli per voce e pianoforte. Un repertorio, quindi, di complessa interpretazione anche perché comprende musica che va dal quarto al diciannovesimo secolo: un vero e proprio atto d'amore verso la sua terra compiuto con sincera devozione. E i risultati, sul piano musicale, sono eccellenti: queste antiche melodie riacquistano vita grazie ai preziosi arrangiamenti dell'artista senza perdere un'oncia dell'antico rigore, del pristino fascino. E' davvero affascinante ascoltare questi brani così come sono stati rivestiti da Tigran che usa al meglio sia il suo strumento sia le splendide voci del coro. Così' l'ascoltatore è trasportato in una dimensione “altra” che non conosce tempo e spazio; si ascolti ad esempio come in “Ov Zarmanali”, una composizione che risale al dodicesimo secolo, il suono del pianoforte e le voci del coro si amalgamano in modo perfetto sì da produrre un sound di straordinaria modernità Ed è sicuramente questo l'Hamasyan che il vostro cronista predilige. Il tour del progetto “Luys i Luso” ha avuto inizio il 24 marzo 2015 con una prima a Yerevan, per poi proseguire con spettacoli in 100 chiese in Georgia, Turchia, Libano, Francia, Belgio, Svizzera, Repubblica Ceca, Inghilterra, Germania, Lussemburgo, Russia e Stati Uniti. L'intero tour sono registrati da una troupe televisiva sotto la supervisione di Emily Mkrtichian, Alex Igidbashian e Tigran Hamasyan ed uscirà come film nel 2016.

Mette Henriette – “Mette Henriette” – ECM 2460/61 2 CD
Mette HenrietteProseguendo nella sua meritoria attività di promuovere nuovi talenti, la ECM ci presenta, in questo doppio album d'esordio, la giovane sassofonista, compositrice ed improvvisatrice norvegese Mette Henriette. Nata nel nord del Paese, nella splendida Trondheim, Mette si avvicina alla musica ascoltando flamenco, Coltrane e Ayler; sulla scorta di queste influenze comincia a studiare sassofono e a comporre; dopo una serie di positive esperienze, viene ascoltata da Manfred Eicher che la invita ad incidere per la ECM. Ed ecco quindi questo progetto che risente chiaramente dei suddetti input e che appare ben strutturato ed articolato anche perché assume due volti differenti : nel primo CD con Mette Henriette suonano il pianista Johan Lindvall e la violoncellista Katrine Schiøtt mentre nel secondo CD troviamo un ensemble di tredici musicisti tra cui alcuni nomi ben noti agli ascoltatori ECM quali il trombettista Eivind Lønning, il batterista Per Oddvar Johansen ed i membri del Cikada Quartet. Diciamo subito che per capire ed apprezzare questo tipo di musica un primo ascolto non è sufficiente: non si colgono le mille sfumature che invece rappresentano la bellezza e la ricchezza di questa realizzazione. In effetti quello immaginato da Mette è una sorta di tappeto sonoro non etichettabile in cui input provenienti sia dal jazz sia dalla musica si mescolano dando vita ad un unicum su cui si innesta la voce originale e mai invadente del sassofono della leader con evidenti differenziazioni a seconda dell'organico usato. Così in trio l'atmosfera è raccolta, intima, a tratti onirica mentre con il gruppo più ampio si evidenzia la straordinaria capacità della Henriette di far coesistere forma e libertà .

Vincent Peirani – “Living Being” – ACT 9584-2
Living BeingCome forse ricorderanno i lettori di “A proposito di jazz”, il vostro cronista è un appassionato della fisarmonica per cui ogni nuovo album di qualche fisarmonicista rappresenta quanto meno un motivo di interesse . Se poi il musicista è di classe elevata quale il francese Vincent Peirani, allora l'interesse si trasforma in qualcosa di diverso. Partendo da queste premesse, occorre innanzitutto dire che “Livin Being” non tradisce le attese: Peirani è considerato la stella emergente del jazz francese degli ultimi due anni e l'ascolto dell'album giustifica appieno tale considerazione. Musicista eclettico, capace di coniugare la passione per il jazz con quella per la musica folk, senza trascurare la musica classica, Peirani in questa occasione guida un quintetto completato da Emile Parisien sax soprano e tenore, Tony Paeleman fender rhodes e effects, Julien Herné basso elettrico e effects, Yoann Serra batteria, tutti musicisti coetanei con i quali ha condiviso la passione per la musica sin da giovanissimi. E la cosa si avverte immediatamente data l'intesa con cui i cinque si muovono nel declinare un repertorio piuttosto variegato, con omaggi a Jeff Buckley e Michel Portal, che ha lanciato lo stesso Peirani, e brani del fisarmonicista, tra cui anche due movimenti di una suite in cinque parti. Di qui una musica ben arrangiata che oltre al già citato affiatamento evidenzia vaste aperture solistiche in cui ognuno dei cinque trova il proprio spazio con una menzione particolare, oltre che per il leader sempre originale nell'uso del proprio strumento, per il sassofonista Emile Parisien con il quale Peirani ha costituito un duo ascoltato anche nella Capitale durante l'ultima edizione del Roma Jazz Festival. Tra i nove brani, particolarmente interessanti “On The Heights” e “Workin`Rhythm” impreziosito da un fitto ed entusiasmante dialogo tra fisarmonica e sax soprano.

Howard Riley, Jaki Byard – “R & B” – Slam 2100
R&BLa Slam si è caratterizzata come etichetta di musica moderna, spesso sperimentale e comunque lontana da ciò che comunemente si intende per jazz classico. Ovviamente , come ogni regola, anche questa soffre la sua brava eccezione rappresentata dall'album in questione registrato dal vivo durante un concerto al Pendley Manor Jazz Festival il 7 luglio del 1985 da due pianisti, l´inglese Howard Riley e l´afroamericano Jaki Byard, già celebre e celebrato per aver suonato , tra gli altri, con Eric Dolphy e Charles Mingus. In programma quattro standards e due original, “Open” e “Space”, a firma dei due. In realtà l'eccezione di cui sopra è solo relativa in quanto i due artisti riescono nell'impresa di fornire, per ogni brano, due versioni nel corso della stessa esecuzione: una prima in cui il materiale tematico viene trattato in modo quasi tradizionale, una seconda in cui i due improvvisano liberamente spesso stravolgendo del tutto le melodie. Il concerto si apre con “Body and Soul” e dopo l'esplorazione del tema via libera alle invenzioni istantanee; i due si muovono come se stessero seguendo un arrangiamento preesistente. Identico discorso per le composizioni di Thelonious Monk, “Round Midnight” e “Straight No Chaser”, eseguite con partecipazione e la solita capacità inventiva che rende queste esecuzioni di attualità come se non fossero passati più di trent'anni. Il concerto si chiude con “Lady Bird”, un classico dell´era bop scritto da Tadd Dameron, con Byard che imbraccia il sax alto, strumento con cui non sfigurava di certo.

Rusconi + Fred Frith – “Live in Europe” – Qilin Records
Live in EuropeI nostri lettori ricorderanno forse una bella intervista di Daniela Floris al trio svizzero Rusconi alla vigilia di una loro performance al Roma Jazz Festival del 2012. Il gruppo è composto da Stefan Rusconi al pianoforte, Fabian Gisler al contrabbasso, e Claudio Strueby alla batteria cui nell'occasione si aggiunge il celebre chitarrista e multistrumentista, Fred Frith, punto di riferimento per critici e colleghi sin dal 1968 quando fu co-fondatore degli Henry Cow, rock band d'avanguardia in auge per un decennio. La formazione dunque è assolutamente tipica nell'universo jazzistico, ma il loro approccio al materiale musicale è del tutto inusuale. E questo sia per la presenza di effetti elettronici sia, e diremmo soprattutto, per la singolare capacità di mescolare input provenienti da diversi mondi sonori. Al centro della loro ricerca il suono, inteso non già come espressione di virtuosismo ma come mezzo per trasmettere ciò che si sente durante una performance, alla ricerca di un vero e proprio legame, emotivo e mentale; di qui una musica evocativa, che riesce a suscitare, evocare immagini in chi ascolta. Insomma una effettiva sincerità di ispirazione che traspare evidente sin dai primi momenti dell'album. I brani sono tutti interessanti con una menzione particolare, per “Tempelhof” e “Berlin Blues”; tutto giocato all'inizio su una melodia quasi elementare intonata dal pianoforte accompagnato da un battito di mani, “Tempelhof” si inerpica poi su sentieri molto ardui disegnati dalla chitarra di Frith e dal contrabbasso di Gisler cui si aggiungono successivamente tutti gli altri strumenti in una sorta di andamento zigzagante che costituisce uno dei tratti salienti dello ‘Stile Rusconi', mentre “Berlin Blues” evidenzia i suoni laceranti della chitarra di Frith.

Ches Smith – “The Bell” – ECM 2474
The BellChes Smith batteria, vibrafono, timpani, Craig Taborn pianoforte, Mat Maneri viola: questi i tre improvvisatori che hanno dato vita a “The Bell” ovvero otto composizioni di musica da camera scritte dal leader, al suo esordio in casa ECM e a ben ragione considerato uno dei più creativi e dotati batteristi dell'attuale panorama musicale, non solo prettamente jazzistico, ma anche d'avanguardia fino al rock più sperimentale. Ascoltando l'album si una sensazione quasi straniante: da un lato le melodie appaiono dolcemente malinconiche mentre l'esecuzione sembra quasi voler nascondere tale caratteristica, con una serie di dissonanze ben studiate. L'esempio migliore nel brano cha dà il titolo all'album e che si ascolta in apertura: oltre nove minuti di suoni rarefatti e accordi di pianoforte, suoni di gong, di vibrafono, di viola a disegnare un quadro in cui Smith offre un saggio delle sue concezioni musicali. Nessun cedimento a spettacolarizzazioni di sorta, ma un modo di estrinsecare la sua musica quasi per sottrazione, basandosi su pochi elementi spesso reiterati (come in “Barely Intervallic” o in “For Days”) con i suoi strumenti percussivi a dettare il clima generale nel cui ambito le improvvisazioni sembrano quasi inesistenti. I tempi sono generalmente omogenei: si va dal lento al molto lento così come il gioco delle dinamiche che mai conosce picchi; pochi ma significativi i momenti in cui i tre sprigionano energia palpabile come nei finali di “Isn't It Over?” e di “I Think”. Eppure il sound complessivo è affascinante, ricco di sfumature grazie anche al modo inusuale in cui Maneri e Taborn usano i rispettivi strumenti. Si ascolti al riguardo i quasi undici minuti di “I'll See You On The Dark Side Of The Earth” in cui il pianoforte e i piatti della batteria sembrano imitare i rintocchi di una campana con la viola di Maneri a disegnare ampie e intriganti volute… Insomma un album difficilmente catalogabile ma di indubbio fascino, se solo si ha la voglia e la pazienza di ascoltare qualcosa di nuovo e di originale.

Thomas Strønen – “Time Is A Blind Guide”  ECM 2467
Time is blind guideThomas Strønen è uno dei personaggi più interessanti dell'intera scena musicale europea. Nato a Bergen (Norvegia) il 7 dicembre del 1972, cresce ad Åsgårdstrand, un piccolo villaggio conosciuto in tutto il mondo perché Munch vi dipinse Scream. Inizia a suonare la batteria all'età di 5 anni e a 12 entra nel mondo del jazz e dell'improvvisazione continuando, però a studiare jazz e composizione all'università e conservatorio (NTNU) di Trondheim. Nel corso di una carriera oramai abbastanza lunga, il percussionista e compositore norvegese si è universalmente affermato grazie alla capacità di fondere il drumming acustico con il sound derivante dalle più moderne tecnologie, doti che si sono efficacemente espresse nei vari progetti da lui concepiti: Food (duo con Iain Ballamy), Humcrush (con Ståle Storløkken), Parish (con Bobo Stenson), Pohlitz (solo), il Maria Kannegaard Trio, Meadow (con John Taylor e Tore Brunborg) … per citare solo i più importanti. Attualmente è anche il leader di un gruppo norvegese-inglese, “Time is A Blind Guide”, da cui prende il nome questa nuova realizzazione discografica realizzata nell'oramai celebre Rainbow Studio di Oslo nel luglio del 2015. Il gruppo è completato dal giovane pianista inglese Kit Downes al suo debutto in casa ECM, da ben tre archi (Lucy Railton cello, spesso compagno d'avventura di Downes, Håkon Aase violino, Ole Morten Vågan contrabbasso) e da altri due percussionisti, Siv Øyunn Kjenstad e Steinar Mossige. Il risultato è notevole anche perché Thomas si discosta dai sentieri percorsi in precedenza: qui siamo su un terreno assolutamente acustico in cui il suono degli archi si sposa magnificamente con le percussioni a disegnare un tappeto sonoro dal sapore quasi impressionista su cui si innestano le invenzioni melodiche e armoniche del pianista. E non mancano richiami etnici, grooves chiaramente influenzati dalla musica africana senza per questo trascurare il jazz europeo. Il tutto guidato con mano sicura da Thomas Strønen autore e arrangiatore di tutti i brani presentati.

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