Molte le iniziative in questi ultimi giorni

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Massimo urbani 2

Che Roma sia una città jazzistica – nonostante i numerosi e strutturali problemi per la musica di ispirazione afroamericana – è affermazione plausibile. Domenica 8 maggio alle ore 18 è stata collocata una targa in onore di Massimo Urbani nell'area verde antistante il parco di Santa Maria della Pietà a Roma nord. E' l'atto (temporaneamente) conclusivo di un percorso iniziato il 6 agosto 2015, quando la giunta del municipio XIV aveva deliberato l'apposizione di una targa in memoria di “Max” che è nato e cresciuto nel quartiere di Monte Mario. Nel marzo 2015 si era, peraltro, svolto un jazz festival a piazza Guadalupe, sempre dedicato al grande sassofonista e la rassegna dovrebbe essere replicata nei prossimi mesi, diventando un “appuntamento annuale per tutti gli appassionati e i fruitori di questa forma musicale (il jazz, n.d.r.) di cui Massimo ha saputo rendere al meglio quell'urgenza espressiva che ne è alla base” (come ha dichiarato Pino Acquafredda, presidente della commissione Scuola, Cultura e Sport). Alla cerimonia di domenica hanno partecipato svariate persone che hanno conosciuto Massimo Urbani e gli sono state amiche, come il batterista Ivano Nardi con cui Max ha spesso suonato.
Sabato 7 di jazz si è a lungo parlato in uno dei quartieri più interessanti, in quanto a vivacità di laboratorio culturale e sociale, che è il Pigneto (tra la via Casilina e la ferrovia). Claudio Sessa, storico del jazz di lungo percorso, ha presentato il suo libro “Improvviso singolare. Un secolo di jazz” (il Saggiatore) presso “Blutopia” (ore 18,30). Da alcuni anni il luogo, gestito dal batterista Fabrizio Spera, è una attivo crocevia dove la vendita di dischi (cd e vinili), libri e riviste si amplia a spazio di ascolto/lettura, con presentazioni e performance. Sessa, venuto appositamente da Milano, ha discusso delle idee contenute nel suo libro, introdotto e intervistato da Pino Saulo (Radio3) e alla presenza di un pubblico di appassionati, operatori e musicisti (tra cui Enrico Pieranunzi). Si è parlato di jazz come musica fitta di paradossi, di “oggetti sonori” che raccontano la storia di un secolo di musica (e non solo), di straordinaria metafora del mondo contemporaneo, della capacità della musica afroamericana di conciliare gli opposti e di un rapporto creativo e stimolante con la società, alimentato da una tensione volta a superare i propri limiti. Memoria e targhe, libri e parole; non mancano le note in questo itinerario jazzistico capitolino risalendo al 30 aprile scorso, quando l'International Jazz Day (proclamato dall'Unesco nel 2012) è stato ricordato in vari luoghi. La Casa del Jazz ha abbinato la giornata internazionale al festeggiamento del suo undicesimo compleanno (che cadrebbe il 21 aprile), il tutto celebrato con iniziative e concerti a partire dalle 11,30 (con Vincenzo Martorella, Roman Dixieland Few Star di Michele Pavese con Red Pellini, l'A Trio, il pianista Enrico Zanisi ed il contrabbassista Matteo Bortone). Altri appuntamenti presso l'Elegance Café, il Cotton Club ed il RestArt: qui si è tenuta una maratona di dodici ore sotto la direzione artistica di Paolo Damiani e la presenza, tra gli ospiti, di Ada Montellanico, Fabio Zeppetella e Cinzia Gizzi. Interessante il concerto proposto il 30 sera al “28DiVino jazz”, locale in via della Mirandola a pochi passi da p.zza Ragusa e a duecento metri dal Pigneto, forse il club più creativo ed originale in quanto a proposte concertistiche.
Per l'International Jazz Day è stata convocata una All Star sui generis con Eugenio Colombo (sax alto), Pasquale Innarella (sax tenore), Marco Colonna (sax baritono), Fabio Sartori (organo Hammond) ed Ettore Fioravanti (batteria). I cinque musicisti – due generazioni di avanguardisti riunite – hanno lavorato su un apposito repertorio che metteva insieme brani di Thelonious Monk e composizioni di Cal Massey, che ha a lungo collaborato con Archie Shepp nella sua stagione più alta e militante, pezzi di Lonnie Smith, Ornette Coleman ed Innarella. Volume impressionante, impasti timbrici ricercati ed inediti (originali molti arrangiamenti), spazio per un solismo sempre proiettato in una dimensione collettiva, i cinque jazzisti hanno dimostrato come si possa suonare repertorio senza fare revival. L'ipnotico andamento di “Bacai”, il funky raffinato di “Afrodesia”, la forza innodica di “The Things Have Got to Change” (di Shepp e Massey), la scultorea potenza dei monkiani “Brilliant Corners” ed “Epistrophy”, l'afflato quasi messianico di “The Cry of My People” hanno messo in luce l'intesa tra i musicisti su un repertorio ricco di storia e dai caratteri fortemente identitari della comunità afroamericana. Spazio ampio ai solismi sempre intessuti nel discorso collettivo, come si diceva, ed in una narrazione presente in ciascun brano. Niente di meglio per festeggiare una musica che è davvero un “patrimonio” per l'umanità ed una dimostrazione – come ha sostenuto Claudio Sessa – che si possano vivere le diversità armonizzandole in un modo straordinariamente arricchente: senza conflitti, senza guerre, senza “muri”.

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