The Choir of Royal Holloway e Rupert Gough in una stupenda antologia del madrigale inglese dell'800 (Hyperion)

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madrigale inglese

Questo stupendo disco pubblicato da Hyperion rappresenta per me e mi auguro sarà lo stesso per voi, una vera scoperta.
Del “Madrigale”, forma fissa di andamento strofico che ha origine in Italia nel XIV secolo (ne accenna già Dante nel Purgatorio, canto secondo, nell'incontro con il musico Casella) si parla a proposito dell' “Ars Nova Musicæ” e naturalmente nel secondo ‘500; di questo periodo dorato della storia della Musica, tale genere costituisce la base.
Claudio Monteverdi, Luca Marenzio, Carlo Gesualdo da Venosa sono soltanto alcuni dei nomi che portarono all'eccellenza questa pratica, e con essa la Musica stessa.

L' del “madrigalismo” che, terra terra, consiste nell'applicare musica a un testo, si stemperò via via in altri generi, in particolare nel teatro musicale e in quello stile borghese e domestico che è il “Lied”. In epoca classica, punte o pochissime sono le testimonianze e il genere sembrava dato per estinto. In effetti, parlando di Madrigale, si evoca sempre il passato, un passato dotto e patrizio nel quale musica, poesia, parlano un linguaggio simile. Ci sovviene invece – grazie a questa incisione – che in terra d'Albione, dove il tempo sembra essersi fermato, attraverso molti canti secolari scritti come complemento al madrigale elisabettiano diversi compositori eccellenti proseguirono una tradizione remota.

Vi dice nulla, ad esempio, il nome del compositore Robert Lucas Pearsall (1795-1896)?
Forse no. Ebbene, i cinque suoi madrigali che aprono il CD sono un'autentica delizia: di forma, di pensiero, di canto sottile. Un giuoco che non si può accerchiare in una sola descrizione, ma di certo espresso mirabilmente da ciascuno di questi lavori. Bene si percepisce come questo compositore cercasse di coniugare fra loro, in un compromesso, gli incanti armonici di Purcell con le sofisticazioni che, nell'epoca sua, giungevano dal continente: tentativo, come sempre, mediato da quella irriducibile prospettiva isolana secondo la quale – lo si dice con il massimo rispetto – fuori dall'Inghilterra nulla avviene di rilevante. Ma tant'è.

Ancora più spiccato, nel secondo compositore qui presentato, Henry David Leslie (1822-1896), sembra il rapporto con la tradizione della musica popolare autoctona, il “gymel” in particolare. Le sue canzoni d'amore sembrano collocate al di là del tempo ed esprimono un candore noviziale, diremmo parrocchiale, che certo non ne sminuisce il fascino.

Sempre, il canto inglese ha un nonsoché di malinconico: la malinconia, per questi musicisti, è come il piano inferiore del palazzo, passaggio obbligato e sostegno di tutto l'edificio. Tale elemento traluce con particolare chiarezza nei cinque stupendi madrigali di un altro Carneade, sir John Stainer (1840-1901) noto soprattutto come organista e deceduto in Italia, a Verona.
Già il primo di essi “Disappointment” definisce un atteggiamento nobile e austero, nel quale le lacrime amorose sono asciugate da melodie dolci, mentre si fa strada un'armonizzazione raffinata, da pittore. Non di rado in questi lavori emergono sezioni contrastanti e sorprese che movimentano; forse proprio in Stainer, più che negli altri autori, il modello sembra essere il canto corale di Johannes Brahms, peraltro ben presente a tutti.

Più convenzionale, ma dolcissimo, l'unico canto qui incluso di Arthur Murray Goodhart (1866-1941), altro organista, nativo di Wimbledon.

Ma l'autore più famoso del disco è certamente sir Edward Elgar (1857-1934), grande epigono brahmsiano e, non di meno, autore di grande personalità (e dottrina). Egli, un po' come Copland in ambito americano, sembra essere la pietra angolare su cui si fonderà il novecento musicale britannico e forse in questo paragone, un po' forzato ma credo non privo di fondamento, si esprimono alcune differenze tra la produzione dei due paesi, l'uno tanto piccolo, l'altro così enorme. Il suo “To her, beneath whose steadfast star” è un canto spirituale, romantico nello spirito e quasi classico nella forma.
Del resto il neo-romanticismo, come tendenza volta a preservare “l'umano” in musica, non è mai scomparso del tutto da questo mondo, né scomparirà (forse).

Un po' meno noto di lui è il penultimo autore proposto, sir Hubert Parry (1848-1918), più conosciuto come estensore di molte voci del “Grove Dictionary of Music”: davvero splendidi i suoi due madrigali, tra cui spicca “La belle dame sans merci”. Sembra di intuire che in questa forma il temperamento del musicista trovi ideale mezzo espressivo: non si sente soltanto l'eco del testo, ma si percepisce il profumo di quella terra, e pare di scorgerne i colori.

Terminano egregiamente il CD due pezzi di ispirazione quasi filosofica, di un musicista – lo confesso – del quale non avevo prima d'ora ascoltato una sola nota: sir Charles Villiers Stanford (1852-1924), irlandese. Musica elegantissima, ornata da fluenti decorazioni. Uno, op.142, si intitola addirittura “On time”, una riflessione sul tempo.
E tempo assai ben speso sarà il vostro, se deciderete di rivolgere
l' attenzione a questo CD, che a me ha aperto un piccolo quanto significativo, mondo. Ogni lode meritano il Royal Holloway Choir e il suo direttore, Rupert Gogh. I testi sono sempre bellissimi e possono leggersi a sé con soddisfazione piena.

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