Danilo Gallo DARK DRY TEARS

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Danilo Gallo, basso elettrico / bassVI
Francesco Bearzatti, sax tenore e clarinetto
Francesco Bigoni, sax tenore e clarinetto
Jim Black, batteria

 

Kathya West: Album concept, and track Titles Idea + vocals on #Paranoic personal disorder e #The Loneliness of sound

PARCO DELLA MUSICA – CD: MPRCD 76

Basso elettrico, bassVI, due sax tenori, due clarinetti una batteria. Un titolo enigmatico, e titoli dei brani in scaletta tanto inquietanti quanto attraenti (concepiti dall’artista, poetessa, performer Kathya West), una musica dallo stesso Danilo Gallo definita “malinco-punk-retrorock-grunge-melodica” e che per trovare le parole adatte a descriverla in una recensione si può solo ascoltarla dall’inizio alla fine in questo modo: una prima volta in cuffia ad occhi chiusi, una seconda volta imponendosi un ascolto tecnico per tentare di decodificarne l’essenza e la struttura, una terza volta di nuovo in cuffia e ad occhi chiusi godendone la disinvolta, onirica, strutturata eppure libera complessità. Senza etichettarla se non come “Musica di Danilo Gallo”.
Talmente libera da ogni pregiudizievole classificazione deve essere la fruizione di questi brani, che sento il bisogno di specificare che ciò che scriverò di qui in avanti è ciò che io, Daniela Floris, ho provato – pensato – creduto riguardo questo disco: ma ho anche capito che ognuno proverà – penserà – crederà un qualcosa di diverso. Non ci sono rigidi confini, né rigidi intendimenti, né regole prefissate per dare un significato ad un tale flusso sonoro.
Per quanto mi riguarda sappiate che non ho trovato nulla di lugubre o funereo nel senso comune di triste, morto, grigio, plumbeo, decomposto.
Piuttosto ho percepito una certa ironia tagliente (che è il contrario del rabbioso sarcasmo) che sorge dalla lucida, amara, consapevole constatazione di molti accadimenti della vita, magari cose, o pensieri, o persone terminano il loro corso, o quando angosce e paure prendono il sopravvento, o quando un malcelato senso di disagio si impadronisce di noi o di altri. Danilo Gallo e con lui il suo quartetto hanno la capacità descrittiva di creare fotografie sonore di eventi temuti, o funesti, o aspri, portandone alla luce tutta la loro (paradossale) vitalità. C’è molta vita nel disagio della paranoia (Paranoic personal disorder) : e il film sonoro di Danilo Gallo è da pelle d’oca, con quel tempo in 7/8 in cui l’ ostinato basso respira proprio sul sesto battito, rendendo ancora più disturbante l’ossessività della cellula ritmica, in cui si inseriscono voci anche umane sussurrate, quelle voci che  arrivano come folli ed indistinte solo a chi le guarda da fuori, ma che il paranoico sente ossessivamente dentro di se come chiarissime e reali. E’ quell’ordine ossessivo, ripetitivo e asimmetrico che proprio in quanto ordine ossessivo, ripetitivo e asimmetrico è segnale di disordine.
Cosa ne potete sapere voi, se non avete ascoltato “Death of Giant Pendulum Clock”, di quanto se la goda un orologio a pendolo gigante quando si rompe? Esso impazzisce ed apparentemente perde il ritmo fino al suo totale disgregamento, trascinandovi in una affascinante folle entropia che ha le sue nuove leggi, fatte di tentativi di rientro nei canoni a dire il vero molto anarchici: rincorse tra sassofoni che fino a poco prima erano omoritmici, groove incalzanti di batteria, che tenta di riprendere il basso… fino a quando torna a regime senza più speranza, suonando piano, verso lo spegnimento.
Tanto è importante l’improvvisazione, in un progetto come questo di Danilo Gallo, quanto lo è creare la base solida, severa, su cui improvvisare: e così in brani come “Funeral of a Memory”, i due sassofoni improvvisano su una progressione armonica discendente, a loop, che si interrompe incompiuta sul terzo grado della discesa per due volte, completandosi solo alla terza progressione. Così per tutto il brano. L’impianto armonico ritmico è accuratamente e severamente costruito, mentre l’improvvisazione dei sax è totalmente libera: è così che il quartetto ottiene un’atmosfera piena di tensione dinamica, che rimane saldamente impressa.
Quando a cantare sono i clarinetti, i brani hanno un sottofondo quasi buffo, ma possono giocare su uno sfondo di ostinati ritmici molto underground che contrasta con il timbro quasi fiabesco dei legni: così accade in “Molekularni”, ma anche in “Pearls to Pigs”.

Si può percepire un senso di attesa angosciante e di ineluttabilità in “Day of Judgement”, in cui la batteria si omologa al basso e improvvisamente se ne divincola, tendendo progressivamente ad un rallentamento che arriva a far percepire una sorta di rassegnata ineluttabile stanchezza.
Devo descrivervi anche l’uomo nero di “Boogeyman”, e le scosse di adrenalina che questo quartetto riesce a trasmettere? Non voglio fare spoiler. Ma l’invito ad ascoltare questo disco così lucidamente assurdo spero sia evidente: ve lo suggerisco con un gaudente sogghigno. Anzi, ve lo consiglio.

 

 

 

Si conclude Alba Jazz 10′ edizione con Chris Creek 5tet

Ore 21 Piazza Savona

Chris Cheek – sax
Steve Cardenas – chitarra
Jorge Rossy – batteria e vibrafono
Jaume LLombard – basso
David Soler – pedal steel guitar

Cinque strumentisti preparati, adrenalinici, che scelgono uno spessore sonoro poderoso sia nei volumi, che nelle dinamiche, ma anche nella la scelta precisa di suonare con pochi scambi, prediligendo un suono fitto, potente, contestuale, di tutto l’organico (fatti salvi gli assoli).
Un’ora abbondante di Jazz variegato, con sfumature country, fusion e con una timbrica “pianoless” che intreccia le due sonorità affini eppure così diverse di chitarra elettrica e pedal steel guitar: quest’ultima, per sua stessa peculiarità, abbondante in glissando che contrastano con i suoni più netti del basso e della chitarra.
Chris Cheek predilige la cura di temi melodici a riff che fanno da trampolino all’improvvisazione e allo sviluppo della potenza sonora. Si tende all’espansione del suono più che allo sviluppo tematico e al dialogo “in fieri”, il che è sicuramente interessante e anche musicalmente di impatto, ma può in alcuni momenti penalizzare un po’ la comunicativa: i musicisti formano una sorta di “circolo chiuso” in cui si compiacciono della reciproca bravura, escludendo talvolta un po’ il pubblico,  che rimane a guardarli suonare da fuori.
Questa connotazione di alcuni momenti di musica non ha impedito che la platea abbia potuto fruire di una ottima performance, e anche di bei momenti espressivi durante alcuni brani più introspettivi e anche durante gli assoli, sempre ragguardevoli.

Emozionante l’omaggio a Gian Maria Testa, l’ultimo dei quattro che il Festival ha voluto regalare ad un suo grande poeta.
Si chiude tra gli applausi questa edizione specialissima di Alba Jazz: non solo perché è stata la decima, ma anche per il rapporto speciale che si è creato tra la città ed un Festival che, partendo solo dall’entusiasmo di alcuni appassionati, ha saputo costruire una realtà musicale importante e oramai attesissima di anno in anno non solo dai cittadini, ma da molti “esterni” ad Alba, che siano essi appassionati, operatori del settore, o gli stessi artisti. Ascoltare la musica in location sempre suggestive, avendo un rapporto “vis a vis” con i musicisti e gli stessi organizzatori, divenuti oramai professionalmente impeccabili ma con la genuinità di chi fa questa scelta per passione e non per guadagno, vuol dire ascoltare musica con una vibrazione diversa: migliore.
Questi sono i festival che ci piacciono! Sono questi i luoghi in cui il Jazz rimane vivo.