PercFest a Laigueglia: la serata finale

Il Percfest si conclude con un’altra bella serata di musica. Certo la piazza è meno affollata dei giorni precedenti, ma la gente rimasta a Laigueglia sfida imperturbabile il tempo incerto (ma alla fine pioverà solo qualche goccia) e prende posto non appena le sedie vengono sistemate davanti al palco.
Non si può certo dire che Rosario Bonaccorso non abbia fatto le sue scelte da direttore artistico in maniera monocorde: in programma c’è un Trio interessante di un giovane pianista il cui nome sta girando sempre più insistentemente, Dario Carnovale, e a seguire il concerto di una cantante “storica” che ha una serie di collaborazioni al suo attivo da lasciare a bocca aperta: Rachel Gould, in quartetto insieme al chitarrista Luigi Tessarollo.

Ma prima si esibiscono le giovani cantanti premiate al termine della Masterclass di Danila Satragno: il PercFest è anche promozione di cultura e di giovani talenti.

Comincia il bel Trio di Dario Carnovale, alle 21:30


Dario Carnovale, pianoforte
Lorenzo Conte, contrabbasso
Alfred Kramer, batteria

E’ un bel pianista Dario Carnovale, che ascolto per la prima volta qui a Laigueglia. Appena comincia a suonare penso che probabilmente, dalle evoluzioni sulla tastiera dalla travolgente pienezza di suoni durante il primo brano, abbia amato o ascoltato o suonato anche musica classica, o colta, come vogliamo definirla. La conferma la dà lo stesso Carnovale dichiarando il suo amore per Hindemith mentre dichiara il titolo della sua compositione “Interpolation”, termine in musica strettamente connesso all’improvvisare, non a caso.
Dunque Carnovale è un pianista colto, eppure molto diretto emozionalmente: bellissima la sua interpretazione di “I’ll Close my eyes”, tutta giocata su volumi al minimo ma con un’intensità particolarmente vibrante, con l’indugiare anche su delicate domande-risposte tra la mano sinistra e la destra, che danno vita a momenti di indiscutibile lirismo. Così come è d’impatto il contrario di questo, quando suona in modo potente, percussivo, percorrendo improvvisi silenzi contraddetti dopo un attimo dal fragore di corse sulla tastiera, ottave parallele, arpeggi adrenalinici. O ancora nelle atmosfere sospese in cui la bella batteria di Kramer tiene il tempo destrutturandolo, così come fa anche il contrabbasso del bravo Lorenzo Conte. Entrambi sono capaci di cambiare registro e di creare un tessuto adeguato alle diverse possibilità espressive di Carnovali, che di idee ne ha da vendere.  Molti, e meritatissimi, gli applausi!

E’ il momento del cambio palco: invece di attendere a vuoto, Gilson Silveira al birimbao e Marco Fadda con uno dei suoi mille tamburi  ci regalano un poetico, dolce, profondo ed intenso omaggio al grande Nanà Vasconcelos, poeta della musica brasiliana scomparso quest’anno. Suoni di una bellezza struggente.

GilsonFadda

Gilson Silveira e Marco Fadda – Foto Carlo Mogavero

Ore 2230

Rachel Gould Luigi Tessarollo quartet


Rachel Gould, vocals
Luigi Tessarollo, chitarra elettrica
Aldo Zunino, contrabbasso
Adam Pache, batteria

Si finisce in bellezza con la voce densa, graffiante, profonda ed intensa di una interprete con un curriculum di tutto rispetto: in effetti Rachel Gould vanta collaborazioni con Jazzisti stellari, uno per tutti,  Chet Baker. E ad ascoltarla cantare si capisce perché: una voce che in alcuni momenti ricorda le asperità timbriche di colleghe nere come Carmen McRae, un fraseggio incisivo poggiato non tanto su una estensione vocale estrema ma su raffinatezze dinamiche, di accenti, di inflessione.
Il concerto è  veramente di ottimo livello: sono belli gli scambi con Luigi Tessarollo, chitarrista dall’estro improvvisativo notevole, swingante, e che non a caso firma insieme a Rachel Gould il quartetto. Due protagonisti alla pari, che cantano le proprie storie ognuno con il suo strumento (gli assoli di  chitarra sono piccoli gioielli come lo sono gli scat vocali) e che si avvalgono dell’apporto fondamentale di Zunino e Pache. “Skylark” è costruita con un taglio ritmico ed un arrangiamento inusuali e accattivante; “Zanzibar” è un latin contagioso in cui il groove è costruito con fluida energia da Pache, in perfetta sintonia con Zunino. D’ altronde se si decide di seguire gli intrecci della chitarra sull’andamento del contrabbasso di Zunino si scopre quanto nulla sia affidato al caso anche nei momenti più liberi.

Sale Rosario Bonaccorso sul palco chiamando come è tradizione tutti gli artisti presenti in quel momento a Laigueglia, e intona la canzone finale seguita da tutto il pubblico : è un momento emozionante che nessuno qui al PercFest si vuole perdere, perché segna la conclusione di un Festival ma anche l’inizio del prossimo che verrà l’anno dopo. Il pensiero va a Naco, ma con quella musica che sale dolce nell’ aria di questa sera di fine giugno ognuno sorride a qualcuno che con lui sta suonando o ballando o chiacchierando, chi lo sa!


All’anno prossimo, mi auguro, di nuovo a Laigueglia. La vostra inviata vi saluta! Grazie ancora di cuore a Carlo Mogavero per le sue belle foto che sono state una parte importante di questi reportage quasi in tempo reale. W il Jazz!

Germano Mazzocchetti: non dimentico il mio amore per il jazz

 

L’abruzzese Germano Mazzocchetti nasce come fisarmonicista, ma ben presto si qualifica come uno dei migliori ed apprezzati compositori di musica ‘applicata’, cioè di musica al servizio di film, spettacoli, fiction. Il punto di svolta nel 1978 quando incontra a Roma il regista Antonio Calenda, con il quale inizia una lunga e proficua collaborazione.
Ma Germano non abbandona il suo antico amore per il jazz e così nei primi anni duemila costituisce un ensemble con cui si esibisce in concerto e realizza tre album : “Di mezzo il mare” (con la Egea Orchestra), “Testasghemba” e adesso “Asap” per la Incipit alla testa di un gruppo comprendente Francesco Marini sax soprano e clarinetti, Paola Emanuele viola, Marco Acquarelli chitarra, Luca Pirozzi contrabbasso, Emanuele Smimmo batteria e Sergio Quarta percussioni. Lo abbiamo intervistato proprio pochi giorni dopo l’uscita di “Asap”.

-Cominciamo da un fatto che mi sta molto a cuore e che credo stia molto a cuore anche a te: dopo tanti anni, finalmente, pare che la fisarmonica stia ottenendo i giusti riconoscimenti anche nel mondo del jazz. Oramai ascoltiamo spesso questo strumento in funzione solistica e non solo come semplice elemento timbrico e coloristico. Quali fattori a tuo avviso hanno determinato questo risultato?
“Per capire cosa è successo forse è bene partire da ciò che negli anni ’70 chiamavamo ‘folk revival’ e che poi si è ampliato e sviluppato in quel fenomeno dalle molte facce che va sotto il nome di ‘world music’. Nonostante le molte ambiguità ed equivoci, la riscoperta delle musiche tradizionali, delle “radici” come si usa dire, è stato ed è un fenomeno di enorme importanza che ha cambiato il panorama della musica a livello globale. E la fisarmonica. da emblema della musica e delle culture un tempo subalterne, vive oggi una sua seconda giovinezza, anche in ragione della sua diffusione a macchia d’olio che fa di essa uno strumento capace di parlare mille lingue, oggi folklorico e domani sperimentale. Numerosi sono i Paesi, come il nostro ad esempio, dove la fisarmonica ha radici profonde, ma lo stesso vale per i Paesi balcanici e per molte altre aree, dalla Francia ai Paesi nordici, per non parlare degli Stati Uniti dove ci sono fior di fisarmonicisti”.

-Anche tu hai riscoperto questo strumento?
“Direi proprio di no nel senso che io questo strumento l’ho sempre suonato. Ho studiato la fisarmonica sin da piccolo anche perché nel mio paese l’unica scuola di musica era una scuola di fisarmonica. Non è stata una scelta, ma è stato grazie ad essa che ho fatto il mio primo – prezioso direi oggi, a distanza – apprendistato musicale. Negli anni successivi l’ho un po’ messa da parte perché quando ho cominciato a scrivere musica per il teatro e per il cinema, la fisarmonica la utilizzavo solo se mi serviva quel colore. Nel caso la suonavo io stesso, ma la cosa si limitava a qualche turno in sala di registrazione e basta. Tuttavia, qualche anno fa, nel 2004 mi è venuto in mente di formare un gruppo. È stato una specie di “richiamo della foresta” o meglio un “richiamo della performance”: la voglia non più solo di riempire fogli di carta da musica, ma di stare su un palcoscenico e di suonare. In un certo senso, un tornare alle radici. La base di partenza erano certi brani che avevo scritto in precedenza e che ben si prestavano alle idee che avevo in testa. Così sono nati due album, “Testasghemba” uscito per l’Egea e ora “Asap” per Incipit. Insomma ho ricominciato a suonare con una certa frequenza, ritrovando anche il gusto antico per il mio primo strumento. C’è comunque da sottolineare che in Italia c’erano già e ci sono tutt’ora ottimi musicisti che alla fisarmonica hanno dato contributi di straordinario valore: penso ad Antonello Salis, a Simone Zanchini, Luciano Biondini, Renzo Ruggieri: artisti di grandissima levatura e che, indipendentemente dalle etichette che gli si voglion dare, hanno prodotto musica di livello”.

-Tornando all’affermazione della fisarmonica, che importanza ha avuto il successo planetario di un musicista come Astor Piazzolla?
“Enorme. Il ruolo di Piazzolla in quel movimento di riscoperta e di rinnovamento delle tradizioni è cruciale. E forse lo è anche nel panorama complessivo della musica del secondo Novecento. Eppure non è tutto oro quel che luccica. Piazzolla ha portato all’attenzione di un pubblico vastissimo uno strumento come il bandoneon che pur essendo diverso dalla fisarmonica fa comunque parte della stessa famiglia. Il problema sorge semmai con i tanti, tantissimi ‘piazzolliani’, che al suo seguito sono sorti come i funghi: a poco a poco tutti hanno cominciato a fare Piazzolla; alle volte avendo motivo per farlo, molte altre volte no, limitandosi a volgarizzare certi stilemi in una ricetta troppo facile. Al di là di Piazzolla ci sono comunque molti altri musicisti che hanno contribuito al rilancio della fisarmonica. Nell’ambito della fisarmonica jazz non c’è dubbio alcuno che l’artista più rappresentativo sia Richard Galliano. Ma non si può certo dimenticare Guy Klucevsek, il fisarmonicista newyorkese che qualche anno fa pubblicò per la ‘Intuition Music’ un album meraviglioso per sole fisarmoniche, intitolato Accordion Tribe, assieme a Bratko Bibic (slovacco) , Lars Hollmer (svedese), Maria Kalaniemi (finlandese) e Otto Lechner (austriaco). Un disco straordinario, che prendendo le mosse dalla musica etnica balcanica, travalicava davvero ogni confine geografico o di genere”.

-Veniamo adesso al tuo ultimo album che come dicevamo si chiama ‘Asap’. Questo titolo è un acronimo, vero?
“Sì , è l’acronimo di As Soon As Possible, il titolo di un pezzo che poi ho scelto come titolo dell’intero CD. Amo i titoli brevi e facilmente memorizzabili e questo titolo mi sembrava molto adatto. Il brano in questione in effetti è parecchio veloce, di qui il titolo, anche se ad essere pedanti si dovrebbe dire “As Fast As Possible”. Ma a parte il fatto che l’acronimo corrispondente non si usa, mi piace il concetto, lo slancio, la voglia che racchiude: vediamoci, facciamo, partiamo il più presto possibile. Asap, appunto”.

-E’ solo un concetto squisitamente musicale o c’è ancora qualcos’altro?
“Il significato è che oggi si corre molto, troppo; c’è una corsa affannosa spesso senza sapere verso dove. Mi piaceva l’idea di sottolineare questo aspetto così aderente ai tempi che stiamo vivendo, cercando di volgerlo però in senso positivo”.

-Ho ascoltato con attenzione questo tuo pregevole lavoro e mi pare che sia quello più vicino al linguaggio jazzistico. Condividi questa opinione?
“Beh, se lo dici tu…A dire il vero non era questo il mio intento quando ho scritto i pezzi, anche se devo riconoscere che “Asap” è diverso dall’album precedente. “Testasghemba” era molto più vicino alla musica mediterranea, balcanica. Se questo invece risulta più jazzistico la cosa non mi dispiace affatto, in quanto, come ben sai, il jazz è stato e rimane il mio primo amore. Forse nella piena – o forse già tarda – maturità, anche senza volere vado recuperando gli amori e le esperienze dei miei primi anni”.

-Quindi quando facevi il disco non pensavi ad un linguaggio jazzistico. Allora a cosa pensavi?
“Io avevo pronti alcuni brani che intendevo arrangiare ed eseguire con questo gruppo. In essi c’era un po’ la prosecuzione di ciò che avevo fatto in precedenza, per cui in realtà non sapevo ancora bene dove sarei andato a parare. Però erano composizioni pensate per questo tipo di ensemble, formato anche da strumenti atipici, ad esempio la viola. Alla fisarmonica e alla viola – strumenti certo non connaturati al linguaggio jazzistico – si affiancano altri cinque strumenti che invece fanno parte a pieno titolo della più genuina tradizione jazzistica. A parte forse certe esperienze “third stream”, non credo che la viola, come strumento solista, sia stato usato in ensemble jazzistici o para-jazzistici. Il violoncello sì, il violino ovviamente anche ma la viola non mi pare proprio. Per rispondere alla tua domanda, pensavo, sì, che i brani fossero adatti a questo organico e che il risultato sarebbe stato la logica conseguenza di queste premesse”. (altro…)