Intervista con il fisarmonicista-compositore dopo l'uscita dell'ultimo cd “Asap”

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L'abruzzese Germano Mazzocchetti nasce come fisarmonicista, ma ben presto si qualifica come uno dei migliori ed apprezzati compositori di musica ‘applicata', cioè di musica al servizio di film, spettacoli, fiction. Il punto di svolta nel 1978 quando incontra a Roma il regista Antonio Calenda, con il quale inizia una lunga e proficua collaborazione.
Ma Germano non abbandona il suo antico amore per il jazz e così nei primi anni duemila costituisce un ensemble con cui si esibisce in concerto e realizza tre album : “Di mezzo il mare” (con la Egea Orchestra), “Testasghemba” e adesso “Asap” per la Incipit alla testa di un gruppo comprendente Francesco Marini sax soprano e clarinetti, Paola Emanuele viola, Marco Acquarelli chitarra, Luca Pirozzi contrabbasso, Emanuele Smimmo batteria e Sergio Quarta percussioni. Lo abbiamo intervistato proprio pochi giorni dopo l'uscita di “Asap”.

-Cominciamo da un fatto che mi sta molto a cuore e che credo stia molto a cuore anche a te: dopo tanti anni, finalmente, pare che la fisarmonica stia ottenendo i giusti riconoscimenti anche nel mondo del jazz. Oramai ascoltiamo spesso questo strumento in funzione solistica e non solo come semplice elemento timbrico e coloristico. Quali fattori a tuo avviso hanno determinato questo risultato?
“Per capire cosa è successo forse è bene partire da ciò che negli anni '70 chiamavamo ‘' e che poi si è ampliato e sviluppato in quel fenomeno dalle molte facce che va sotto il nome di ‘world music'. Nonostante le molte ambiguità ed equivoci, la riscoperta delle musiche tradizionali, delle “radici” come si usa dire, è stato ed è un fenomeno di enorme importanza che ha cambiato il panorama della musica a livello globale. E la fisarmonica. da emblema della musica e delle culture un tempo subalterne, vive oggi una sua seconda giovinezza, anche in ragione della sua diffusione a macchia d'olio che fa di essa uno strumento capace di parlare mille lingue, oggi folklorico e domani sperimentale. Numerosi sono i Paesi, come il nostro ad esempio, dove la fisarmonica ha radici profonde, ma lo stesso vale per i Paesi balcanici e per molte altre aree, dalla Francia ai Paesi nordici, per non parlare degli Stati Uniti dove ci sono fior di fisarmonicisti”.

-Anche tu hai riscoperto questo strumento?
“Direi proprio di no nel senso che io questo strumento l'ho sempre suonato. Ho studiato la fisarmonica sin da piccolo anche perché nel mio paese l'unica scuola di musica era una scuola di fisarmonica. Non è stata una scelta, ma è stato grazie ad essa che ho fatto il mio primo – prezioso direi oggi, a distanza – apprendistato musicale. Negli anni successivi l'ho un po' messa da parte perché quando ho cominciato a scrivere musica per il teatro e per il cinema, la fisarmonica la utilizzavo solo se mi serviva quel colore. Nel caso la suonavo io stesso, ma la cosa si limitava a qualche turno in sala di registrazione e basta. Tuttavia, qualche anno fa, nel 2004 mi è venuto in mente di formare un gruppo. È stato una specie di “richiamo della foresta” o meglio un “richiamo della performance”: la voglia non più solo di riempire fogli di carta da musica, ma di stare su un palcoscenico e di suonare. In un certo senso, un tornare alle radici. La base di partenza erano certi brani che avevo scritto in precedenza e che ben si prestavano alle idee che avevo in testa. Così sono nati due album, “Testasghemba” uscito per l'Egea e ora “Asap” per Incipit. Insomma ho ricominciato a suonare con una certa frequenza, ritrovando anche il gusto antico per il mio primo strumento. C'è comunque da sottolineare che in Italia c'erano già e ci sono tutt'ora ottimi musicisti che alla fisarmonica hanno dato contributi di straordinario valore: penso ad Antonello Salis, a Simone Zanchini, Luciano Biondini, : artisti di grandissima levatura e che, indipendentemente dalle etichette che gli si voglion dare, hanno prodotto musica di livello”.

-Tornando all'affermazione della fisarmonica, che importanza ha avuto il successo planetario di un musicista come Astor Piazzolla?
“Enorme. Il ruolo di Piazzolla in quel movimento di riscoperta e di rinnovamento delle tradizioni è cruciale. E forse lo è anche nel panorama complessivo della musica del secondo Novecento. Eppure non è tutto oro quel che luccica. Piazzolla ha portato all'attenzione di un pubblico vastissimo uno strumento come il bandoneon che pur essendo diverso dalla fisarmonica fa comunque parte della stessa famiglia. Il problema sorge semmai con i tanti, tantissimi ‘piazzolliani', che al suo seguito sono sorti come i funghi: a poco a poco tutti hanno cominciato a fare Piazzolla; alle volte avendo motivo per farlo, molte altre volte no, limitandosi a volgarizzare certi stilemi in una ricetta troppo facile. Al di là di Piazzolla ci sono comunque molti altri musicisti che hanno contribuito al rilancio della fisarmonica. Nell'ambito della fisarmonica jazz non c'è dubbio alcuno che l'artista più rappresentativo sia Richard Galliano. Ma non si può certo dimenticare Guy Klucevsek, il fisarmonicista newyorkese che qualche anno fa pubblicò per la ‘Intuition Music' un album meraviglioso per sole fisarmoniche, intitolato Accordion Tribe, assieme a Bratko Bibic (slovacco) , Lars Hollmer (svedese), Maria Kalaniemi (finlandese) e Otto Lechner (austriaco). Un disco straordinario, che prendendo le mosse dalla musica etnica balcanica, travalicava davvero ogni confine geografico o di genere”.

-Veniamo adesso al tuo ultimo album che come dicevamo si chiama ‘Asap'. Questo titolo è un acronimo, vero?
“Sì , è l'acronimo di As Soon As Possible, il titolo di un pezzo che poi ho scelto come titolo dell'intero CD. Amo i titoli brevi e facilmente memorizzabili e questo titolo mi sembrava molto adatto. Il brano in questione in effetti è parecchio veloce, di qui il titolo, anche se ad essere pedanti si dovrebbe dire “As Fast As Possible”. Ma a parte il fatto che l'acronimo corrispondente non si usa, mi piace il concetto, lo slancio, la voglia che racchiude: vediamoci, facciamo, partiamo il più presto possibile. Asap, appunto”.

-E' solo un concetto squisitamente musicale o c'è ancora qualcos'altro?
“Il significato è che oggi si corre molto, troppo; c'è una corsa affannosa spesso senza sapere verso dove. Mi piaceva l'idea di sottolineare questo aspetto così aderente ai tempi che stiamo vivendo, cercando di volgerlo però in senso positivo”.

-Ho ascoltato con attenzione questo tuo pregevole lavoro e mi pare che sia quello più vicino al linguaggio jazzistico. Condividi questa opinione?
“Beh, se lo dici tu…A dire il vero non era questo il mio intento quando ho scritto i pezzi, anche se devo riconoscere che “Asap” è diverso dall'album precedente. “Testasghemba” era molto più vicino alla musica mediterranea, balcanica. Se questo invece risulta più jazzistico la cosa non mi dispiace affatto, in quanto, come ben sai, il jazz è stato e rimane il mio primo amore. Forse nella piena – o forse già tarda – maturità, anche senza volere vado recuperando gli amori e le esperienze dei miei primi anni”.

-Quindi quando facevi il disco non pensavi ad un linguaggio jazzistico. Allora a cosa pensavi?
“Io avevo pronti alcuni brani che intendevo arrangiare ed eseguire con questo gruppo. In essi c'era un po' la prosecuzione di ciò che avevo fatto in precedenza, per cui in realtà non sapevo ancora bene dove sarei andato a parare. Però erano composizioni pensate per questo tipo di ensemble, formato anche da strumenti atipici, ad esempio la viola. Alla fisarmonica e alla viola – strumenti certo non connaturati al linguaggio jazzistico – si affiancano altri cinque strumenti che invece fanno parte a pieno titolo della più genuina tradizione jazzistica. A parte forse certe esperienze “third stream”, non credo che la viola, come strumento solista, sia stato usato in ensemble jazzistici o para-jazzistici. Il violoncello sì, il violino ovviamente anche ma la viola non mi pare proprio. Per rispondere alla tua domanda, pensavo, sì, che i brani fossero adatti a questo organico e che il risultato sarebbe stato la logica conseguenza di queste premesse”.

-In effetti uno degli elementi caratterizzanti l'album è proprio questa timbrica prodotta dall'utilizzo di quegli strumenti atipici cui facevi riferimento.
“Spesso la viola è utilizzata come se fosse uno strumento a fiato, un sax tenore ad esempio. Un ruolo che talvolta è svolto anche dalla fisarmonica. In alcuni pezzi del disco quando la chitarra è in assolo, il background è prodotto da sax, viola e fisarmonica che, insieme, disegnano linee che in altri contesti sarebbero affidate a tre fiati, magari due sax e una tromba oppure un trombone. Questa particolarità genera una connotazione sicuramente ascrivibile a un ambito jazzistico, ma al tempo stesso risulta parecchio spiazzante rispetto alle sonorità prodotte da ance ed ottoni”.

Germano Mazzocchetti20

-Tra i brani che presenti in ‘Asap' ce n'è qualcuno cui sei particolarmente affezionato e perché?
“Due brani del disco sono tratti da spettacoli teatrali, perché come sai la mia attività principale è soprattutto il comporre musiche di scena. “In memoriam” lo avevo scritto per uno spettacolo di Leo Gullotta dal titolo “Minnazza”, un excursus sulla letteratura siciliana degli ultimi due, tre secoli. Nello spettacolo Gullotta recitava un brano sulla morte di Falcone e Borsellino e in sottofondo c'era questo pezzo che ora ho riarrangiato per il disco. L'altro brano, “Come con lei”, è anch'esso “in memoriam”. Lo scrissi infatti per uno spettacolo in cui recitava un'attrice che stimavo tantissimo e che è mancata qualche anno fa: Mariella Lo Giudice. Era la prima attrice del Teatro Stabile di Catania (a lei è stata intitolata la Corte del Palazzo Platamone di Catania n.d.r.). Nel disco ho ripreso il tema che accompagnava i suoi ingressi in scena in quello spettacolo in cui lei aveva un cammeo”.

-Hai citato due volte Catania: Leo Gullotta è catanese e Mariella Lo Giudice anche. Hai un rapporto particolare con la città etnea?
“In effetti ho un particolare legame con Catania, avendo collaborato a diversi spettacoli del Teatro Stabile. Il primo fu nell'89, “Trittico”, con la regia di Antonio Calenda: tre atti unici, il primo di Bufalino, il secondo di Consolo il terzo di Sciascia all'epoca tutti e tre viventi. Tra i tanti spettacoli che ho fatto a Catania ce n'è uno però cui sono molto legato, “Gli anni perduti” di Brancati, messo in scena da Walter Pagliaro. In “Testasghemba”, il mio disco precedente, c'è un brano tratto da questo spettacolo: si intitola “La passeggiata su via Etnea”, un brano che i più affezionati fra i miei tre o quattro ascoltatori mi chiedono sempre durante i concerti e che è divenuto una specie di sigla del mio ensemble”.

-A proposito di concerti, ne hai in programma?
“Beh, di concerti mi piacerebbe farne tanti, ma la cosa è meno facile di quel che si può pensare, sia perché la crisi non risparmia nessuno, compresi i grossi nomi, sia perché, non essendo io un grosso nome, per il mercato non rappresento una proposta di grande richiamo. A questo va aggiunto il fatto che siamo in sette e costiamo un pochino più che se fossimo in tre o in quattro. Ci sono in ballo alcuni progetti, ma per il momento è prematuro parlarne”.

-Hai appena detto che non sei un grosso nome. Ma sicuramente sai che nell'ambito musicale, sia dei musicisti sia dei critici, sei considerato molto, molto bene. Quanto ha influito sulla tua carriera questo tuo carattere schivo, riservato, un po' da orso marsicano se mi passi l'espressione… anche se con la Marsica in realtà hai poco da spartire?
“Sì, con la Marsica non c'entro proprio nulla, dal momento che sono nato in provincia di Pescara, in quella parte d'Abruzzo più vicina al mare. So di avere questo carattere e so anche che non posso cambiarlo, sia perché non ho più vent'anni, sia perché forse mi ci sono un po' affezionato. Probabilmente avrò scontato una certa mia incapacità nel propormi, ma ti assicuro che mai sono andato a chiedere qualcosa a qualcuno. Chi mi ha chiamato lo ha fatto perché conosceva già i miei lavori. Forse un carattere più aperto, più portato alle pubbliche relazioni mi avrebbe giovato, certo, ma sono fatto così e non posso farci niente”.

-Parlando di mercato, io credo che lo stesso nel nostro Paese viva una fase molto, molto delicata determinata dal fatto che a fronte di pochissimi jazzisti che potrebbero suonare ogni sera, c'è una pletora di validissimi musicisti che se non avessero l'insegnamento non riuscirebbero a sopravvivere. Per cui sono giunto a questo apparente paradosso: il jazz sta bene ma il mondo del jazz è malato. Cosa pensi al riguardo?
“Credo tu abbia perfettamente ragione. Ma il discorso si può estendere ad altri campi, al teatro per esempio, cioè il mondo che più mi appartiene: il teatro è vivo e vegeto ma di certo la situazione generale non è delle più favorevoli. Sarebbe doveroso portare in scena molti più lavori rispetto a quanto si riesce a fare oggi, e lo stesso vale per il jazz: le opportunità sono sempre più risicate. E' un problema di carattere generale. E da quando un ministro della Repubblica se ne uscì con l'infelicissima frase “con la cultura non si mangia”, la situazione non ha fatto che peggiorare ed oggi stiamo vivendo davvero il peggior periodo che io ricordi”.

-Che relazione ha questo tuo ultimo disco con la tua attività di compositore di musiche di scena?
“Quando compongo musica per il gruppo seguo un ordine di idee e obiettivi diversi rispetto a quando scrivo per il teatro o per lo schermo, la cosiddetta “musica applicata”. In parecchi però mi dicono di no, che non avvertono la differenza. A prendere per buono quello che mi dicono, quello che scrivo per l'Ensemble è una naturale prosecuzione di ciò che faccio per la scena, dove la musica è necessariamente posta in secondo piano rispetto alla parola. Ma una volta liberi dai vincoli teatrali, ti assicuro che è molto bello correre in concerto a briglia sciolta.”

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