Un bilancio della manifestazione svoltasi nel giugno scorso

Tempo di lettura stimato: 9 minuti

Udine, 18/06/2016 - Udin&Jazz 2016 - Associazione Euritmica - Corte Palazzo Morpurgo - Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso - Antonio Onorato, chitarre - Joe Amoruso, tastiere - Simone Serafini, contrabbasso - Luca Colussi, batteria - Foto Elia Falaschi/Phocus Agency © 2016

Udine, 18/06/2016 – Udin&Jazz 2016 – Associazione Euritmica – Corte Palazzo Morpurgo – Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso – Antonio Onorato, chitarre – Joe Amoruso, tastiere – Simone Serafini, contrabbasso – Luca Colussi, batteria – Foto Elia Falaschi/Phocus Agency © 2016

Quattordicimila presenze spalmate su quindici concerti, di cui molti gratuiti: questa, in estrema sintesi, i lusinghieri risultati della 26° Edizione di Udin&Jazz, svoltasi dal 15 al 23 giugno, con una coda il 28 giugno: concerto finale di Ezio Bosso al Piazzale del Castello.
L’ennesimo successo di Udine&Jazz conferma l’intelligenza programmatica del direttore artistico e vero e proprio motore della manifestazione, Giancarlo Velliscig, che ancora una volta ha puntato su un giusto equilibrio tra l’esigenza di richiamare pubblico e quella di valorizzare il territorio attraverso i musicisti locali. In effetti – non è la prima volta che lo scriviamo – in un periodo di profonda crisi come l’attuale un Festival del jazz si giustifica solo nella misura in cui non si limita a mettere assieme un cast di grossi nomi con l’unico intento di fare cassa, ma, forte di una studiata progettualità, cerca di porre in evidenza i talenti locali contribuendo in maniera determinante alla loro crescita e quindi in qualche modo anche alla valorizzazione e alla crescita dell’ambiente circostante. Tanto per essere ancora più espliciti non capiamo a cosa serva un Festival come Umbria Jazz, lungo magari una diecina di giorni con gli stessi musicisti che si esibiscono più volte e senza che in tutto ciò si riesca a cogliere un pur minimo senso, un pur esile fil rouge. Ma tant’è e siccome la gente anche quest’anno ci andrà, secondo la logica corrente hanno ragione loro e quindi nulla cambia.
Ma torniamo a Udine.
Il vostro cronista, per una serie di precedenti impegni, ha potuto seguire il Festival solo dal 17 al 21 giugno, in tempo comunque per assistere a performances di rilievo ed anche ad una cocente, seppur in qualche modo attesa, delusione.
Si accennava in precedenza al ricercato equilibrio tra grandi stelle e talenti locali; ecco quindi il venerdì 17 giugno, alle 18,30 alla Corte di Palazzo Morpurgo, una splendida location al centro della città, il duo costituito dal giuliano Giorgio Pacorig al pianoforte e dal veronese Zeno De Rossi alla batteria; in programma la presentazione del loro ultimo CD “Sleep Talking” registrato per l’etichetta “artesuono” di Stefano Amerio giustamente considerato oggi uno dei più importanti “ingegneri del suono” a livello mondiale. Presi singolarmente Pacorig e De Rossi non hanno certo bisogno di ulteriori presentazioni: il primo è uno dei più acclamati e personali pianisti italiani mentre De Rossi è stato a più riprese giudicato il miglior batterista italiano. Ma non è detto che due spiccate individualità formino un combo altrettanto valido, occorre altro, occorrono un repertorio ad hoc e soprattutto che scatti quella scintilla in grado di unire i due in un unicum inscindibile. Ebbene questa scintilla è scattata sia in sala di incisione (il disco è superlativo, ne consigliamo vivamente l’ascolto) sia sul palcoscenico di Udine, anche perché Pacorig e De Rossi sono legati da una profonda amicizia e da una comune visione musicale. Senza alcunché concedere al facile ascolto, i due hanno eseguito la loro musica con grande trasporto emotivo, coinvolgendo man mano il pubblico in un ascolto meditato e partecipato. Il pianismo così essenziale, misurato di Pacorig ha sempre trovato il giusto supporto nelle pelli e nei piatti di De Rossi tanto che mai si è avvertita l’esigenza di un basso che armonizzasse o dettasse i tempi dell’esecuzione. Di qui un dialogo intimista, alle volte quasi sussurrato ma che mai ha indotto nell’ascoltatore un senso di noia o peggio ancora di frigido distacco.

Sabato 18 giugno, sempre nel pomeriggio presso la Corte di Palazzo Morpurgo, abbiamo avuto il piacere di ascoltare, per la prima volta dal vivo, il chitarrista napoletano Antonio Onorato accompagnato da una ritmica locale conosciuta ed apprezzata in tutta Italia (Simone Serafini al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria) con Joe Amoruso alle tastiere come special guest in alcuni brani. Conoscevamo Onorato attraverso i dischi ma non avevamo avuto l’occasione di assistere ad un suo concerto ed è stata una bellissima sorpresa. Sebbene non fosse accompagnato dai suoi abituali compagni di viaggio, Antonio ha fornito una prova superlativa suonando con grande maestria e con estremo buon gusto nella proposizione di un repertorio quanto mai impegnativo. Si parte con un brano dello stesso chitarrista, “Assaje” eseguito in solo cui fanno seguito in trio “3/4 e un po’”,sempre di Onorato, “Palummella” di anonimo e , partendo dalle note di “Tammuriata nera” di Mario-Nicolardi una medley con “Birdland” di Joe Zawinul, “Up From The Sky” di Jimi Hendrix, “Jean Pierre” di Miles Davis e “Caravan Petrol” di Renato Carosone. Alla fine di questa entusiasmante cavalcata tra Napoli jazz e rock si torna ad un sentito omaggio a Pino Daniele, che spesso aveva voluto Onorato come guest a numerosi concerti, con due brani “Terra mia” e “Quando” eseguiti ancora una volta in solo. Poi entra sul palco, accolto da un grande applauso, Joe Amoruso e parte “Chi teme o mare” un brano scritto da Pino Daniele ma riarrangiato da Onorato e Amoruso che ne hanno inciso la prima versione strumentale e registrato più volte da Onorato anche con Toninho Horta. Applausi entusiasti e il palco è tutto per Amoruso che alle tastiere improvvisa sulle note della celebre “Scalinatella” canzone scritta da Bonagura e Cioffi nel 1948, entusiasmando il pubblico che non lesina gli applausi. Chiusura in grande stile con un altro brano “Indiana Raga” che Onorato dedica all’amico e collega Luigi Viva presente al concerto. Alle prese con un repertorio tanto diversificato, Onorato si mantiene fedele al suo stile caratterizzato dalla capacità di fondere in un linguaggio assolutamente originale la melodia tipica della grande canzone napoletana con gli stilemi del jazz, della musica brasiliana nonché di quella medio orientale e africana. Non a caso Antonio era considerato da Pino Daniele il suo “chitarrista preferito” e non a caso il chitarrista napoletana può vantare la stima di vere e proprie icone della chitarra quali Franco Cerri e Toninho Horta.
***
Domenica pomeriggio una delle più belle sorprese del Festival: la “Udin&Jazz Big Band”; si tratta di un’orchestra ad organico completo con cinque sassofoni, quattro tromboni, quattro trombe, un flauto, pianoforte, chitarra, contrabbasso, batteria e voce. Ben diretta dal pianista e compositore Emanuele Filippi, la band si è mossa con grande compattezza ed equilibrio interpretando per lo più brani originali scritti e arrangiati davvero bene. E ha colpito sia la preparazione tecnica di questi ragazzi, assolutamente a loro agio anche nelle non rare sortite solistiche, sia l’entusiasmo con cui si sono presentati dinnanzi ad un pubblico entusiasta. La band è stata rinforzata per l’occasione dal sassofonista e rapper inglese Soweto Kinch che si è inserito assai bene in un contesto certo per lui non abituale. Lo stesso Soweto Kinch è stato poi protagonista del concerto svoltosi la sera di lunedì 20 giugno con il suo trio completato da Nick Jurd al basso e Gautier Garrigue alla batteria. Onestamente non c’è molto da dire su questa performance: bravo Soweto Kinch che non a caso ha ottenuto diversi riconoscimenti tra cui nel 2002 il BBC Rising Star Award e poi nel 2003 e nel 2007 due MOBO Award per Best Jazz Act. Nel 2003, il suo album di debutto, “Conversations With The Unseen”, venne nominato per il Mercury Music Prize; nel 2004 vinse due BBC Radio Jazz Awards: Best Instrumentalist e Best Band unitamente al Peter Whittingham Award per Jazz Innovation. Purtroppo il trio con cui si è presentato a Udine non è apparso all’altezza della situazione: troppo acerbi e imprecisi i due partners non paragonabili al bassista Michael Olatuja e al batterista Troy Miller, con i quali aveva ottenuto probanti riconoscimenti. Ciò detto resta valida l’idea di fondere jazz e rap.
***
Sempre lunedì 20 giugno, ma nel pomeriggio, di scena un gruppo all’avanguardia del jazz non solo, italiano, vale a dire il “Tinissima Quartet” al secolo Francesco Bearzatti al sax, Giovanni Falzone alla tromba, Danilo Gallo al basso e Zeno De Rossi alla batteria. Il gruppo ha presentato la sua ultima fatica discografica, “This Machine Kills Fascists” che ha già ottenuto grande successo di pubblico e di critica. Successo assolutamente meritato come i quattro hanno ribadito sul palco di Udine; il gruppo ha oramai raggiunto una perfetta intesa che consente di affrontare anche i territori più sconnessi, più difficili senza tema di smarrire la strada maestra. Così il sassofonista friulano continua a raccontare sostanzialmente la sua musica prendendo, però, spunto da personaggi del passato. Dopo le suites dedicate a “Tina Modotto”, a “Malcom X”, al Monk seppure rivisto e accostato ad alcuni grandi del rock (“Monk’n Roll”), ecco in primo piano l’America della Grande Depressione così come è stata incarnata dalla musica di un grande menestrello come Woody Guthrie. Intendiamoci: come abbiamo già avuto modo di affermare, Bearzatti e compagni non intendono rifare la musica di Guthrie ma ricreare in qualche modo il mood in cui tale musica è nata e si è sviluppata. Di qui, come abbiamo ascoltato anche ad Udine, un jazz che non conosce confini, sempre in bilico tra il free e il bop, magnificamente condotto da una front-line strepitosa e da una sezione ritmica che conosce poche eguali nel panorama nazionale. Bearzatti conferma appieno quanto di buono si è scritto su di lui: il suo incedere è sicuro, la bravura tecnica indiscutibile, il suo linguaggio assolutamente personale intriso com’è di stilemi profondamente jazzistici ma anche di echi derivanti dal rock (Led Zeppelin, Deep Purple…) e poi anche dal punk (Ramones, Sex Pistols…). Dal canto suo Giovanni Falzone è trombettista eclettico, potente, e, cosa non comune, può vantare una lunga esperienza anche nel mondo della musica classica. Basti ricordare, al riguardo, come dal 1996 al 2004 abbia collaborato stabilmente con l’Orchestra Sinfonica di Milano con cui ha suonato assieme a direttori e solisti di fama internazionale quali Giuseppe Sinopoli, Claudio Abbado, Carlo Maria Giulini, Riccardo Chailly, Luciano Berio. Doti queste che sono emerse chiaramente anche durante il concerto di Udine.
E veniamo alle stelle di prima grandezza.
***
Nella serata di venerdì 17 giugno, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, di scena Paolo Fresu e Omar Sosa a presentare, in prima mondiale, l’ultima fatica discografica “Eros” che arriva dopo circa quattro anni dalla precedente esperienza di “Alma”. Nell’album oltre ai due leaders sono presenti anche Jaques Morelenbaum, il quartetto d’archi Alborada e la vocalist magrebina Natacha Atlas, artisti assenti ad Udine, ma è stato egualmente un bel sentire. Fresu e Sosa costituiscono oramai una delle formazioni più applaudite ed apprezzate dalle platee di tutto il mondo. Ed il perché è facilmente spiegabile. I due sono legati da un profondo idem sentire, la loro intesa è perfetta, i due suonano in simbiosi e non c’è un solo attimo in cui il fraseggio dell’uno non si compenetri nel linguaggio dell’altro. Le armonizzazioni di Sosa, pianista in continua crescita, disegnano un tappeto di straordinaria ricchezza in cui le invenzioni melodiche di Fresu risaltano per la loro lucida brillantezza; il trombettista sardo ha oramai raggiunto una tale maturità ed una tale consapevolezza dei propri mezzi tecnico-espressivi che gli consentono di affascinare ogni platea grazie ad un sound straordinariamente efficace, pieno, rotondo e ad un fraseggio che appare sempre funzionale a ciò che si vuole trasmettere. Insomma quella di Fresu e Sosa è una musica che ti arriva dentro, ti prende, ti emoziona dal profondo senza far ricorso ad alcun espediente tecnico. I due , l’uno di fronte all’altro, mettono a nudo il proprio animo senza remora alcuna con l’unico intento di mostrare quel che sono. Per questo secondo album i due hanno affrontato un tema tanto universale quanto importante quale l’“Eros” e l’hanno declinato secondo una concezione universale che va ben al di là di qualsivoglia definizione. Ultima notazione non certo secondaria: a nostro avviso il concerto è uno spettacolo per cui i musicisti devono avere anche una buona presenza scenica: ebbene Sosa e Fresu sanno stare sul palco con il trombettista che non disdegna di scendere in platea e di suonare tra il pubblico e Sosa che resta sul palco ad accennare passi di danza. Alla fine di circa un’ora e mezzo di musica standing ovation assolutamente meritata.
Il concerto era stato preceduto nel pomeriggio, all’Angolo della Musica, da una lunga intervista pubblica ai due condotta con grande soddisfazione dal vostro cronista.
***
E veniamo all’altra stella che avrebbe dovuto illuminare il cielo di Udine, Pat Metheny in programma sabato 18 giugno sempre al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, con Antonio Sanchez alla batteria, Gwilym Simcock al pianoforte e Linda Oh al contrabbasso. Abbiamo scritto “avrebbe dovuto” perché in realtà, almeno per quanto ci riguarda, è stata una profonda delusione. Ad onor del vero mai Pat Metheny ci ha convinti del tutto pur riconoscendogli una felice vena compositiva e soprattutto un’efficace ricerca sul suono delle sue chitarre: la felice vena compositiva ovviamente è rimasta nel senso che le sue composizioni sono lì a dimostrarlo ed anche ad Udine quando il chitarrista ha intonato i suoi brani più celebri, quali, tanto per citare qualche titolo, “Unquity Road” e “Unity Village” del ’76, “So May It Secretly Begin” dell’87, “Have You Heard” dell’89…, il pubblico ha applaudito a scena aperta. Diverso il discorso per quanto concerne il sound: sappiamo bene come Metheny sia assolutamente maniacale al riguardo ma questa volta le cose non sono andate per il verso giusto; la chitarra semi-acustica produceva un sound non paragonabile a quello del passato mentre la chitarra-synth, da noi mai particolarmente amata, specie sulle note alte era davvero insopportabile. E non si dia la colpa ai tecnici locali dal momento che Meheny viaggia sempre con i suoi fedelissimi addetti. Ma, sound a parte, è tutto il gruppo a non aver convinto: il pianista ha suonato poco e non si capisce bene se ad avergli tarpato le ali sia stato il leader o è lui a non avere una personalità adatta a militare in un quartetto tanto famoso. Sanchez lo conosciamo bene ed ha quindi suonato da par suo… anche se poi ha dimostrato una certa fragilità umana lamentandosi, sui social, dell’albergo in cui era stato alloggiato (uno dei migliori se non il migliore di Udine): quand’è che questi presunti divi la smettono con questi atteggiamenti da super-star e quand’è che gli organizzatori ne prendono atto e smettono di invitarli? In buona sostanza l’unica ad aver convinto appieno è stata la contrabbassista che ha duettato alla pari con il leader e non ci si venga a dire che le nostre valutazioni sono frutto di una certa prevenzione dal momento che dopo il concerto abbiamo sentito molti appartenenti ai fan club di Metheny esprimere giudizi assai negativi sul concerto e sulla prestazione personale di Pat. A proposito di questi, consentiteci un’ultima annotazione del tutto personale: ma è mai possibile che a sessant’anni suonati Metheny non si decida ad abbandonare la stantia maglietta a righe e soprattutto quei capelli così magnificamente cotonati?

Articoli scelti per te:

Ti è piaciuto l'articolo? Lascia un commento!

Commenti

commenti

Shares