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a proposito di jazz - i nostri cd

Nik Bärtsch’s Mobile – “Continuum” – ECM 2464
ContinuumProva impegnativa questa del pianista svizzero Nik Bärtsch alla testa del suo gruppo “Mobile” con Sha clarinetto basso e clarinetto contrabbasso, Kaspar Rast e Nicolas Stocker batteria e percussioni, e il quintetto d’archi Extended costituito da Etienne Abelin e Ola Sendecki violini, David Schnee viola, Solme Hong e Ambrosius Huber cello. E già dall’organico si capisce abbastanza bene in quale orbita si muova il gruppo: una ricerca che cerca di coniugare il jazz da un lato con la musica colta contemporanea europea, dall’altro con il minimalismo di marca statunitense. In effetti Nik Bärtsch può vantare approfonditi studi di Conservatorio, anche se, ad onor del vero, in questo “Continuum” l’influenza predominante sembra essere quella del minimalismo americano. Di qui una musica incentrata sovente sulla reiterazione di minuscole celle melodiche che mutano pelle in modo quasi impercettibile. Il tutto sorretto da un robusto impianto ritmico che dimostra come Nik conosca assai bene anche il linguaggio jazzistico. Elemento, questo, che si riscontra anche nel brano conclusivo, “Modul 8_11”, che a tratti – ma solo a tratti – sembra quasi virare verso un andamento ritmico funky, Di impronta più nettamente cameristica sono, invece, “Modul 12”, “Modul 18” e “Modul 60” ; “Modul 44” – il brano più lungo dell’ album – è introdotto da un bel gioco di spazzole per poi svilupparsi su un ostinato eseguito dal pianoforte mentre in “Modul4” il gruppo insiste troppo sulla riproposizione del medesimo gruppo di note. Tra gli esecutori, oltre il leader, una nota particolare la merita Sha, compositore, sassofonista e clarinettista ; classe 1983, Sha ha studiato presso la Jazz School di Lucerna avendo come insegnanti Don Li, Sujay Bobade , Bänz Oester e lo stesso Nik Bärtsch; in questo album suonando con perizia il clarinetto basso, non ha minimamente fatto rimpiangere l’assenza del contrabbasso. Insomma un album ben costruito, ben studiato e altrettanto ben suonato… anche se alle volte il gioco della reiterazione può indurre nell’ascoltatore una certa stanchezza, cosa che andrebbe assolutamente evitata.

Carla Bley – “Andando el Tiempo” – ECM 2487
Andando El TiempoDi recente ci siamo occupati degli ottanta anni di questa straordinaria e geniale artista che torna a stupire il mondo del jazz con questa sua ultima produzione. Coadiuvata da
Andy Sheppard al sax tenore e soprano e dal compagno di vita e di musica Steve Swallow al basso, Carla evidenzia ancora una volta quanto sia ampia la sua capacità compositiva e come sia ancora fresco ed entusiasmante il suo pianismo. E la cosa , ad onor del vero, non stupisce più di tanto ove si tenga presente che i tre collaborano oramai da tanti anni nulla perdendo dell’originario entusiasmo, anzi aggiungendo sempre qualcosa in termini di empatia. Per averne conferma basta riascoltare “Trios” inciso qualche anno dalla stessa formazione e confrontarlo con questo “Andando el Tiempo”: i tre, se possibile, dimostrano di conoscersi ancora meglio e di saper dialogare su livelli di quasi perfezione, anche perché questa volta le composizioni sono tutte nuove. In effetti l’album ha una genesi particolare dal momento che la Bley ha scritto la musica rispondendo al preciso invito di Manfred Eicher , patron della ECM, di realizzare un disco che raccontasse una storia. Ecco quindi ‘Sin Fin’, ‘Potacion de Guaya’ e ‘Camino al Volver’ (i tre brani attraverso cui si articola la suite che da il titolo all’album) a fotografare il recupero dalla dipendenza dalle droghe di un amico della Bley. Di qui l’uso del ritmo di tango, come espressione di pathos, per evidenziare la caduta e la lotta. ‘Naked Bridges/Diving Brides’ è il regalo di nozze per il matrimonio di Andy Sheppard, influenzato – ammette la stessa Bley – dalla poesia di Paul Haines, librettista di Carla per opere precedenti tra cui ‘Escalator Over The Hill’, e dalla musica di Mendelssohn la cui marcia nuziale viene esplicitamente richiamata . Infine ‘Saints Alive!’ racconta la Bley – è ‘un’espressione usata da vecchie signore sedute sotto il portico nel fresco della sera, mentre si scambiano pettegolezzi particolarmente succosi’, clima reso perfettamente dal dialogo raffinato ed elegante tra Steve Swallow e dapprima il piano della Bley e successivamente il sax di Andy Sheppard. Ma, come si accennava in precedenza, è tutto l’album ad essere caratterizzato da questo dialogo fra i tre che producono un jazz da camera in cui il pianismo così misurato, quasi minimale si coniuga alla perfezione con il lirismo dei sassofoni di Sheppard mentre Swallow si incarica di cucire il tutto con l’enorme carica di swing, alle volte sotterranea ma sempre ben presente che scaturisce dal suo basso elettrico. Il tutto senza che minimamente si avverta la mancanza della batteria.

Wolfert Brederode Trio- “Black Ice” – ECM 2476
Black IceWolfert Brederode al piano, Gulli Gudmundsson al contrabbasso e Jasper van Hulten alla batteria sono i protagonisti di questo interessante album registrato nel luglio del 2015 all’Auditorium dello Studio RSI di Lugano. In effetti si tratta di un trio abbastanza atipico in quanto è costituito da due olandesi (il pianista-leader e il batterista) e un islandese (il contrabbassista); la collaborazione tra Brederode e Gudmundsson data oramai da molti anni passando dal free alla musica per teatro mentre l’innesto del batterista è piuttosto recente, non a caso “Black Ice” è il primo album inciso da questa formazione dopo i due precedenti CD in casa ECM registrati da un quartetto sempre guidato dal pianista ma comprendente Claudio Puntin (clarinetti), Mats Eilertsen (contrabbasso) e Samuel Rohrer (batteria). Quali le differenze tra i due contesti? A nostro avviso la formula del trio valorizza meglio le raffinatezze del pianismo di Wolfert, la sua capacità di delineare un’atmosfera facendo ricorso solo a poche note, il suo controllo della dinamica, il suo senso melodico ben supportato da una capacità di armonizzazione non comune, il suo tocco così delicato e deciso allo stesso tempo: non a caso ha conseguito i masters degree sia in piano classico sia in piano jazz al Royal Conservatory dell’Aia. Prima avevamo accennato alla lunga collaborazione tra Brederode e Gudmundsson e se ne ha l’ennesima dimostrazione già a partire dal brano d’apertura, “Elegia”, in cui il contrabbasso sottolinea al meglio le invenzioni melodiche di Wolfert mentre Jasper van Hult si dimostra innesto quanto mai felice riuscendo a trovare immediatamente una felice intesa con i compagni di viaggio. In repertorio 13 brani scritti da Brederode eccezion fatta per “Conclusion” di Gudmundsson, tutti intrisi di un profondo lirismo; difficile citarne qualcuno in particolare anche se particolarmente ci ha colpiti “Cocoon”, impreziosito da uno splendido assolo di Gulli Gudmundsson.

Greg Burk – Clean Spring” – SteepleChase 33124
clean-springStatunitense di nascita ma italiano (romano) d’adozione, Greg Burk è artista le cui doti, a nostro avviso, non sono state ancora valorizzate come meriterebbero. E che si tratti di un fior di musicista lo evidenzia a tutto tondo quest’album registrato dal vivo al Teatro Marchetti di Camerino per la prestigiosa SteepleChase nel marzo del 2015. Greg affronta la prova del piano-solo declinandola attraverso quattordici tracce tutte di sua composizione ad evidenziare anche una felice vena compositiva. Greg conosce a fondo lo strumento e lo utilizza in tutta la sua ampiezza con una perfetta indipendenza tra le due mani e un fraseggio fluido, scattante sorretto sempre da pertinenti armonizzazioni. Il tutto guidato da una forte idea di base: ricercare la modernità attraverso l’improvvisazione e la sperimentazione restando, però, in qualche modo ancorato alla tradizione. Di qui una ricerca affatto personale che lo ha portato ad ottenere quei brillanti risultati che si possono apprezzare in quest’ album. Ecco quindi l’omaggio contemporaneamente ad uno dei suoi grandi maestri e alla forma blues in “Blues For Yusef Lateef” mentre in altre tracce come, ad esempio, “A Simple Question” , “Four Reasons”, “Ionosphere” appare evidente la prevalenza dell’improvvisazione. La vena melodica emerge forte in brani quali “Solo una camminata”, “Serena”, “Amore trovato”, lo splendido “Tonos” mentre la title tracke è un delizioso bozzetto caratterizzato da una forte carica ritmica. “Escher Dance” è una sorta di enciclopedia di tecnica pianistica con una continua serie di variazioni tonali e con la mano destra di Burk che vola velocissima sulla tastiera. Il disco si chiude con “Not Forever” un brano di largo respiro in cui si ascolta, tra l’altro, una citazione di “NatureBoy”.

Danielsson, Neset, Lund – “Sun Blowing” – ACT 9821-2
sunblowingIl trio composto da sax tenore, basso e batteria non è certo una novità nel mondo del jazz ma è una formula sempre vincente soprattutto se ad interpretarla sono musicisti quali Marius Neset al sax tenore, Lars Danielsson al basso e Morten Lund alla batteria a costituire una sorta di internazionale scandinava essendo rispettivamente norvegese, svedese e danese. L’idea della registrazione è stata di Morten Lund che ben conosceva gli altri due anche se in realtà il trio si è trovato a registrare in studio senza mai aver suonato assieme. Insomma una scommessa vera e propria che è stata vinta grazie alla brillantezza strumentale di tutti e tre i musicisti e di quell’alchimia che alle volte si crea senza una specifica ragione se non la gioia di suonare assieme. In effetti alle prese con un repertorio di otto brani scritti dai tre con l’aggiunta di “The Cost Of Living” di Don Grolnick, i tre dimostrano di trovarsi a meraviglia: il disegno degli spazi è ottimale così come le improvvisazioni dei singoli che ben si inseriscono nel tessuto complessivo disegnato da batteria e contrabbasso. Comunque, a nostro avviso, una menzione particolare la merita il sassofonista Marius Neset, a suo agio in tutti i brani, e in grado di elaborare un linguaggio, un fraseggio che pur prendendo le mosse dal connazionale Jan Garbarek riesce poi a risultare personale e caratterizzato da un sound ricco, pieno, a tratti potente a tratti dolcemente espressivo: lo si ascolti particolarmente in “Salme” una sua composizione e a nostro avviso uno dei brani meglio riusciti dell’intero album.

Jack DeJohnette/Ravi Coltrane/Matthew Garrison (NO) – “In Movement” – ECM 2488
inmovementQuesto album, almeno per il celebrato batterista, ha una valenza che va ben al di là del fatto squisitamente musicale e che viene esplicitata dallo stesso DeJohnette in una breve nota di copertina: “Matthew – spiega Jack – è il mio figlioccio e ha trascorso molti anni con la mia famiglia durante la sua fanciullezza e Ravi l’ho conosciuto sin da quando era un bambino così lo considero come se fosse un mio figlio”. Senza contare che Jack , nel passato, ha avuto modo di suonare con i padri di ambedue questi giovani musicisti. Non è quindi un caso che l’album si apra con “Alabama” un celebre brano di John Coltrane. Ma non è questa la sola dedica dell’album: ecco quindi “Blue In Green” di Miles Davis e Bill Evans, “Serpentine Fire”, in onore di Maurice White, fondatore degli Earth, Wind and Fire (e ancora una volta Jack ha suonato con tutti e tre questi artisti), “Two Jimmys” in onore di Jimi Hendrix e Jimmy Garrison, mentre “Rashied” è dedicato al batterista Rashied Ali. Insomma un repertorio ricco di riferimenti storici che non possono passare inosservati. Occorre sottolineare come questo trio sia enormemente migliorato nel corso degli anni: lo avevamo ascoltato in concerto nel 2014 e fu una serata insoddisfacente, tanto per usare un eufemismo. I tre apparivano completamente sconnessi, come se mai avessero provato prima di quella serata. E’ stato, quindi, un vero piacere sentire questo album in cui, viceversa, i tre evidenziano un’empatia straordinaria. Il leader, impegnato sia dietro i tamburi e percussioni elettroniche sia al pianoforte, detta i tempi delle esecuzioni e Matthew Garrison al basso elettrico è in grado di seguire gli input del laeder a disegnare un tappeto armonico-ritmico in cui si inserisce perfettamente Ravi Coltrane, positivo con tutti e tre i sassofoni utilizzati: tenore, soprano e sopranino. Il risultato è notevole: DeJohnette è quel grandioso musicista che non ha certo bisogno di ulteriori presentazioni; qualche parola in più è necessaria per i suoi partners: Garrison dimostra di avere un senso compiuto dello spazio entro cui muoversi mentre Ravi ha elaborato un sound molto personale anche al sopranino. I brani sono tutti notevoli con una menzione particolare per le due ballad composte da DeJohnette, “Lydia” dedicata alla moglie e “Soulful Ballad” in cui DeJohnette suona il suo primo strumento, vale a dire il pianoforte. Per chi, viceversa, predilige i climi infuocati, il pezzo forte è costituito da “Rashied” un duetto al fulmicotone tra batteria e sopranino.

Duke Ellington – The Complete Newport 1956 Concert – Essential Jazz Classics 55687 – 2 CD
Thew complete newportRecensire questo doppio CD è impresa quanto mai facile: sarebbe sufficiente dire che si tratta di uno dei migliori jazz festival mai organizzati (basti confrontarne i programmi con quelli odierni; oltre Ellington c’erano Louis Armstrong e Buck Clayton) e che l’orchestra registrata il 7 luglio del 1956 è una delle migliori in assoluto che mai abbia calcato i palcoscenici del jazz. In effetti in quegli anni la big band del Duca era in forma smagliante, impreziosita da solisti che davvero hanno fatto la storia del jazz quali, tanto per fare qualche nome, Clark Terry, Quentin Jackson, Jimmy Hamilton, Johnny Hodges, Paul Gonsalves, Harry Carney, per non parlare della straordinaria sezione ritmica costituita dallo stesso Ellington al piano, Jimmy Wood o Al Lucas al contrabbasso e Sam Woodyard alla batteria. Così abbiamo l’opportunità di riascoltare alcune interpretazioni che sono rimaste memorabili come ad esempio l’assolo con 27 chorus di Paul Gonsalves al sax tenore in “Diminuendo and Crescendo in Blue”. Ma il pregio di questa nuova edizione non consiste solo nel riproporre la versione integrale dello storico concerto del ’56. Sono aggiunte le tracce registrate in studio due giorni dopo lo show e l’intera session realizzata in studio nel marzo dello stesso 1956 nonché alcune tracks molto rare tratte da una trasmissione radiofonica a New York tre mesi prima del concerto a Newport.

Fats O – “On Tape” – jazzhaus 123
OnTapeDisco divertente e curioso questo “On Tape” che vede protagonista ‘fatsO’, un ensemble colombiano la cui musica trae evidente ispirazione dal blues così come dal jazz e dall’hard rock: Disco curioso, dicevamo, ed in effetti da musicisti provenienti dalla Colombia, e in modo specifico dalla sua capitale Bogotà, ci si aspetterebbe musica latina nell’accezione più completa del termine. Ed invece ecco questo settetto capitanato da Daniel Restrepo bassista dalla buona tecnica ma soprattutto vocalist dotato di una voce roca e suadente al tempo stesso; accanto a lui una ricca front line con i clarinettisti e sassofonisti Daniel Linero, e Elkin Hernandez, Cesar Daniel Caicedo al sax alto , Pablo Beltran al sax tenore, mentre la sezione ritmica è completata da Santiago Jiménez, chitarrista di formazione classica e Cesar Morales alla batteria con l’aggiunta, quale special guest, dell’alto-sassofonista Daniel Bahamon in “Crying Out”. In repertorio dieci tracce tutte firmate, parole e musica, da Daniel Restrepo che, alla già citata sapienza interpretativa, accoppia una felice vena compositiva. In effetti le sue creazioni disegnano atmosfere molto variegate: così, ad esempio, si passa dallo swingante e allegro “Hello” che apre l’album alla più dolce “It’s Getting Bad” a evidenziare le doti di Santiago Jimenez alla chitarra; dal clima vagamente fusion e malinconico di “Crying Out” in cui il leader duetta con un clarinetto (onestamente non sappiamo da chi imboccato) strumento tipico della tradizione boliviana e chiuso da un bell’assolo di Daniel Bahamon al sax alto, al rock-blues spigoloso e piuttosto duro di “Out of control”; “Pimp” è forse il brano più jazzistico dell’intero album con in bella evidenza la batteria di Cesar Morales e la front line di fiati cui fa seguito il blueseggiante “Movie Star”. “Oye Palo” si caratterizza per essere l’unico brano in cui Restrepo ha fatto ricorso alla lingua spagnola e di conseguenza a stilemi che si rifanno chiaramente alla musica folkloristica boliviana. L’album si chiude con “I’ll Be Fine” , ancora un saggio di bravura di Restrepo come vocalist che in questa occasione richiama, almeno a parere del vostro cronista, il Joe Cocker dei tempi migliori; significativa anche la performance del chitarrista Santiago Jimenez.

Michael Formanek, Ensemble Kolossus – “The Distance” – ECM 2484
TheDistanceImpresa davvero colossale, tanto per citare il nome dell’ensemble, questa intrapresa dal bassista californiano Michael Formanek alla testa di un vasto organico di ben diciotto elementi tra cui non mancano nomi di spicco quali Ralph Alessi , Kris Davis , Oscar Noriega, Chris Speed, Mark Helias che dirige la band anche nei concerti e qualche sorpresa come ascoltare Tim Berne al sax baritono. Insomma un ensemble davvero stellare per una musica che senza dubbio costituisce uno dei non molti capolavori registrati in questi ultimi anni. Le composizioni di Formanek sono di ampio respiro, illuminate da variabili colori orchestrali, da una certa carica di swing anche se alle volte sottotraccia, da un alternarsi di tensione e distensione, da una struttura solida al cui interno i vari solisti trovano la possibilità di esprimere le proprie potenzialità. E’ il caso dello stesso leader sempre straordinario al contrabbasso, ma altresì di molti altri musicisti che con le loro performances riescono a caratterizzare alcuni momenti della lunga suite, “Exoskeleton”, attraverso cui si articola l’album aperto dai sei minuti della title tracke , inusuale preambolo della suite stessa: così, ad esempio, il trombonista Ben Gerstein e la chitarrista Mary Halvorson costituiscono il fulcro su cui ruotano, rispettivamente, la terza e la quinta parte della suite. Ma i momenti più interessanti sono quelli in cui l’orchestra si esprime a pieno organico , compatta, solida…fino al pirotecnico finale in cui ascoltiamo un’improvvisazione collettiva straordinaria per inventiva e allo stesso tempo rispetto della forma: un equilibrio davvero difficile da raggiungere in situazioni del genere.

Allan Harris – “Black Bar Jukebox” – Love Records 233921
Black Bar JukeBoxNato il 4 aprile 1956 a Brooklyn, il vocalist, chitarrista, e compositore Allan Harris può vantare, tra l’altro, numerosi awards tra cui il New York Nightlife Award for “Outstanding Jazz Vocalist” – vinto per ben tre volte – il Backstage Bistro Award for “Ongoing Achievement in Jazz,” e l’ Harlem Speaks “Jazz Museum of Harlem Award.” Il titolo di questo nuovo album è quanto mai esplicativo: attraverso la menzione del jukebox, Harris intende rendere omaggio a tutta una serie di grandi artisti del passato più o meno recente, anche modificando in qualche modo i suoi punti di riferimento. In effetti prima Harris veniva considerato una sorta di straordinaria sintesi di Nat King Cole, Frank Sinatra e Tony Bennett mentre in quest’ultima realizzazione, sotto la guida del produttore Brian Bacchus (lo stesso di Gregory Porter) allarga il suo raggio d’azione includendo in repertorio brani jazz, R&B, country, blues, soul, e musica latina, sia con pezzi originali sia con composizioni di James Moody, Lester Young, Elton John e Bernie Taupin, Rodgers e Hart, Kenny Rankin e John Mayer a disegnare un mosaico tanto variegato quanto affascinante. Alla testa di un sestetto con il batterista Jake Goldbas, il bassista Leon Boykins, il pianista/tastierista Pascal Le Boeuf, con l’aggiunta in veste di special guests del percussionista Samuel Torres e del chitarrista Yotam Silbersteinadd, Allan Harris evidenzia come il suo talento sia rimasto immutato nel corso degli ani. La bellezza della voce caratterizzata da un registro che oscilla tra tenore e baritono e la capacità di interpretare con assoluta padronanza e pertinenza brani tra loro così diversi sono doti proprie solo dei grandi artisti: si ascolti con quanta disinvoltura Allan passi da pezzi quali “I Got A Lot Of Livin’ To Do”, o “Lester Leaps In” un classico di Lester Young trasformato da Eddie Jefferson nel vocalese “I Got The Blues”, o lo swingante “Love’S The Key” tutti di chiara impostazione jazzistica, a “Catfish” di impronta latineggiante, al funky-soulful di “Take Me To The Pilot” un hit di Elton John e Bernie Taupin…fino al sorprendente “Daughters” di John Mayer in cui Allan suona la chitarra acustica disegnando atmosfere che in qualche modo si riallacciano alla mitica Motown.

Stan Kenton – “The Stuttgart Experience” – SWR 457
The Stuttgart ExperienceLa leggenda del cosiddetto progressive jazz, Stan Kenton, guida una delle più celebri, innovative ma allo stesso tempo controverse formazioni che abbiano illuminato le scene jazzistiche internazionali. L’orchestra è qui registrata durante un concerto tenuto a Stoccarda il 17 gennaio del 1972: La band è infarcita di nomi importanti quali, tanto per citarne qualcuno, Ray Brown, Fred Carter, Richard Torres, e soprattutto il batterista John van Ohlen… oltre naturalmente allo stesso leader al piano. In quel periodo la band attraversava un momento particolarmente felice e aveva introdotto in repertorio alcuni nuovi brani che si possono ascoltare nell’album in oggetto quali il latineggiante “Malaga” di Bill Holmann , un nuovo arrangiamento della “Rhapsody in Blue” ad opera dello stesso Holmann e il brano portante della colonna sonora del film “Love Story” scritto da Francis Lai . Ebbene, a distanza oramai di molti anni, forse si possono abbandonare le polemiche e riconoscere che, al di là dei gusti personali, Stan Kenton fu un grande musicista e che le formazioni da lui dirette erano organici di grande spessore, in grado di interpretare anche le partiture più ostiche senza alcuna difficoltà apparente. Anche la band che si ascolta a Stoccarda è semplicemente poderosa: Kenton , come al solito, ama agire sulle masse sonore, sovrapponendole o allineandole nel tentativo, rivelatosi comunque utopistico, di fondere in un unicum jazz e musica classica. Di qui un flusso sonoro imponente, costante che si riversa sull’ascoltatore con un sound che è divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica delle orchestre kentoniane. Tra i brani presenti nell’album due ci hanno particolarmente colpiti soprattutto per la bontà degli arrangiamenti e la qualità degli interventi solistici: “Rhapsody in Blue” arrangiato da Bill Holman e impreziosito da Chuck Carter nell’occasione al sax baritono e “Intermission Riff” con un centrato assolo del bassista John Worster.

Golfam Khayam, Mona Matbou Riahi – “Narrante” – ECM 2475
NarranteDue straordinarie artiste iraniane, Golfam Khayam alla chitarra e Mona Matbou Riahi al clarinetto, hanno formato il “Naqsh Duo” decidendo di proseguire all’estero i propri studi musicali ma restando in qualche modo legate alle proprie tradizioni. Di qui una musica davvero personale, sotto molti aspetti affascinante, raffinata anche se di non facilissima lettura per un pubblico occidentale poco abituato ai microtoni, ai ritmi, ai cicli improvvisativi propri della musica orientale. Questo “Narrante” costituisce il loro debutto in casa ECM ed è la prima volta che un album prodotto da Manfred Eicher viene edito contemporaneamente in Europa e in Iran. Il repertorio è declinato su nove tracce originali delle due musiciste alla ricerca di un contatto tra oriente e occidente. Evidentemente qui siamo ben lontani da quel che si intende per jazz anche se, ascoltando con attenzione l’album, sembra potersi rinvenire qua e là una pratica improvvisativa certo non sconosciuta alle due. In effetti dal punto di vista tecnico-strumentale Golfam e Mona sono preparatissime, tanto per usare un eufemismo, per cui possono benissimo abbandonare la pagina scritta per addentrarsi in territori sconosciuti ed uscirne senza problema alcuno. Il loro tocco è straordinario, la visione musicale sempre coerente, l’intesa profonda: basta ascoltare un qualsiasi brano per rendersi immediatamente conto di come le due si conoscano alla perfezione intrecciando le loro voci strumentali in un dialogo fitto, incessante. In precedenza accennavamo a come il duo non intenda distaccarsi completamente dalle proprie tradizioni e lo dimostra il fatto che alcuni dei brani si richiamano esplicitamente a tale passato: così, ad esempio, la title tracke trae ispirazione dal Guati , una cerimonia di guarigione del Baluchistan caratterizzata da figure ritmiche ripetitive e scale pentatoniche mentre “Lacrimae” evidenzia l’influenza delle tradizioni improvvisative canore del Kurdistan.

Masabumi Kikuchi – “Black Orpheus Solo in Tokyo” – ECM 2459
Black OrpheusEra il 6 luglio del 2015 quando il pianista e improvvisatore giapponese Masabumi Kikuchi lasciava questa terra all’età di 75 anni. Questo album ha quindi anche un valore storico in quanto coglie l’artista nipponico durante il suo ultimo recital in solo registrato al Tokyo Bunka Kaikan Recital Hall il 26 ottobre del 2012. L’album non è di quelli che si possa ascoltare con superficialità: il suo è, infatti, un pianismo tutto votato all’introspezione i cui stilemi non si possono definire jazzistici in senso stretto, alla continua ricerca – come sono – di una propria voce, di una propria assoluta originalità. Egli stesso, per descrivere le sue improvvisazioni, parlava di “suono e armonia galleggiante”. Nelle sue performances – e quindi anche nell’album in oggetto – è difficile cogliere delle compiute linee melodiche, eccezion fatta, in un certo senso, per la ‘parte IV’ della suite “Tokyo Parts” e soprattutto per “Little Abi” ; il suo è un fraseggio continuamente frastagliato che quanto meno te l’aspetti vira verso orizzonti imperscrutabili. Eppure la sua è una musica che prende, affascina soprattutto per questo carattere di imprevedibilità che la permea. E a questa regola non fa eccezione neppure la rivisitazione di un classico della musica brasiliana quale il tema del film Black Orpheus del 1959 scritto da Luiz Bonfà e Antonio Maria: sotto le sue dita il brano perde qualsiasi caratterizzazione brasiliana e/o di bossa nova e si trasforma in qualcos’altro di ardua classificazione (ma ce n’è proprio bisogno?). Dopo le altre quattro parti che costituiscono la già citata “Tokyo Parts”, l’album si conclude con la rivisitazione di “Little Abi” una ballad scritta per la figlia, che Masabumi aveva registrato con Elvin Jones.

Nils Landgren with Janis Siegel – “Some Other Time” – ACT 9813-2
Some Other TimeSe ponete uno accanto all’altra un eccellente trombonista-vocalist e una brava cantante e fornite loro un repertorio di prima scelta il risultato non potrà che essere all’altezza della situazione. Ecco, in poche parole, il contenuto di questo album della ACT registrato a Colonia nel novembre del 2015. Come recita il sottotitolo del CD, si tratta di un tributo a Leonard Bernstein che ha scritto alcune pagine davvero indimenticabili come quelle contenute in “On The Town” il primo musical scritto nel 1944, “West Side Story”, “Wonderful Town” e “Mass” da cui sono tratte le dodici tracce dell’album. Responsabile del progetto, Nils Landgren a ben ragione considerato uno dei massimi esponenti del jazz svedese, che ha voluto festeggiare i suoi sessant’anni (il 15 febbraio 2016) con questo album che per lui rappresenta la realizzazione di un sogno; come voce solista ha chiamato Janis Siegel già applaudita componente dei Manhattan Transfers cui si aggiunge un canonico trio jazz con lo svedese Jan Lundgren al piano, Dieter Ilg bassista di formazione classica e Wolfgang Haffner considerato uno dei migliori batteristi tedeschi, nonché i diciotto membri della Bochumer Symphoniker condotti e arrangiati niente di meno che da Vince Mendoza. Insomma davvero un insieme di grandi musicisti che riescono nell’intento di evidenziare come la musica di Bernstein non conosca barriere e proprio per questo sia adatta ad interpretazioni di tipo sia classico sia jazzistico. In quest’ultimo senso due sono gli elementi che a nostro avviso contribuiscono a fare di questo album un piccolo gioiello: il modo in cui il ‘gruppo’ jazz guidato dal trombonista si integri perfettamente con la Bochumer Symphoniker e la capacità di Jan Siegel di penetrare a fondo nelle pieghe della musica di Bernstein dovuta anche al fatto che la vocalist conoscesse bene casa Bernstein essendo intima amica della di lui moglie Jamie.

Kalevi Louhivuori Quintet – “Almost American Standards” Cam Jazz 7900-2
almostamericanstandards-coverI lettori di queste pagine ricorderanno certamente il trombettista finlandese Jorma Kalevi Louhivuori per averlo “incontrato” nelle presentazioni di alcuni album della Cam Jazz quali i tre CD con il “Sun Trio” completato da Olavi Louhivuori alla batteria e Antti Lötjönen al basso (“Time Is Now”, “Dreams are true” e “In The Dreamworld”) e gli eccellenti lavori con il quartetto “Big Blue” assieme ad Antti Kujanpää al piano, Jori Huhtala al basso e Joonas Leppanen alla batteria: In questo nuovo album Louhivuori è alla testa di un rinnovato quintetto con Ville Vannemaa al sax, Mikael Myrskog al piano, Eero Seppä al basso e Jaska Lukkarinen alla batteria. Una tantum il titolo del brano è quanto mai esplicativo del genere di musica che si andrà ad ascoltare: non tanto una riproposizione di standards americani quanto il tentativo di rielaborare il clima, l’ ambiente in cui tali standards hanno preso forma. Quindi un rifarsi a certi stilemi jazzistici risalenti soprattutto all’hard-bop. Ecco perciò una serie di richiami facilmente individuabili: Horace Silver, Gerald Wilson, in alcuni tratti i Jazz Messengers. E questo non solo attraverso le esecuzioni ma anche con le composizioni tutte a firma del trombettista: così, ad esempio, “Take 4” si ispira al celeberrimo “Take 5” di Paul Desmond mentre “6 Steps To Heaven” trova il suo principale input nel brano “7 Steps To Heaven” che da il titolo ad uno dei migliori album di Miles Davis registrato tra l’aprile e il maggio del 1963. In tale contesto spiccano soprattutto due individualità: quella del trombettista e quella del sassofonista. Abbandonato quasi del tutto il ricorso all’elettronica, Louhivuori evidenzia un fraseggio, con un sound pieno senza vibrato, che non sfigura dinnanzi ad alcun altro trombettista attualmente in attività mentre Vannemaa si fa notare per la pertinenza con cui segue le intenzioni del leader e per la bella carica ritmica che mette in ogni intervento. Di eccellente livello anche la sezione ritmica, sempre propulsiva e mai invadente con un Seppä particolarmente brillante anche nelle uscite solistiche come in “6 Steps To Heaven”.

Johnny O’ Neal Trio – “O’ Neal Is Back” – abeat 151
'O Neal Is BackE’ con grande piacere che vi presentiamo questo album in quanto ci offre l’occasione di parlare di un pianista e vocalist di livello che per molti, troppi anni è stato lontano dalle scene jazzistiche. O’Neal, originario di Detroit, si affermò negli anni Ottanta, collaborando con Clark Terry, Ray Brown, Milt Jackson ma soprattutto con Art Blakey, per poi scomparire dalle scene, trascorrendo i decenni seguenti in condizioni sempre più precarie a causa di una grave malattia. Tornato a New York, sostenuto da tutta la comunità jazzistica della Grande Mela, il suo talento è stato riscoperto grazie alla residenza, ancora oggi in atto, presso il prestigioso Smalls Club. In questo album suona in trio con Luke Sellick, al contrabbasso e Charles Goold, alla batteria, ed evidenzia come si possa fare ancora dell’ottima musica ricorrendo da un lato ad un repertorio oramai consolidato, dall’altro a stilemi ampiamente collaudati e fortemente ancorati alla tradizione del pianismo jazz. L’album si apre con una interpretazione old style di “Let Me Love You” di Bart Howard, pseudonimo di Howard Joseph Gustafson’ compositore che raggiunse grande notorietà grazie a “Fly Me to the Moon” scritta nel 1954. A seguire una morbida ballad , “With Every Breath I Take”, cantata con grande partecipazione cui fanno seguito due brani solo strumentali “Sudan Blue” e “I Concentrate On You” di Cole Porter in cui O’Neal evidenzia tutta la sua sapienza pianistica. E via di questo passo in un’alternanza tra brani cantati e strumentali per chiudere con “It’s Too Late”, vero e proprio cavallo di battaglia di O’Neal scritto dallo stesso pianista e vocalist assieme a John Brown e Buddy Johnson.

Carl Perkins – “Introducing Carl Perkins” – Phono 870233
introducing-the-carl-perkins-trioPer quanti non sono particolarmente addentro alle vicende jazzistiche vale forse la pena spendere qualche parola su Carl Perkins. Apparso come una cometa nel firmamento del jazz internazionale ( nacque il 1928 a Indianapolis per scomparire a Los Angeles nel 1958 ) ebbe un’esistenza breve e difficile. Da bambino fu colpito da una grave forma di poliomelite che gli impedì un uso corretto della mano sinistra. Ciononostante Carl volle studiare il pianoforte ed elaborò una tecnica particolare: rendendosi conto di non poter eseguire gli accordi con la mano sinistra, suppliva con un uso tutto suo del gomito per suonare le note basse; di qui uno stile comunque brillante, a tratti esplosivo che in pochissimo tempo lo collocò tra i migliori pianisti dell’hard bop, senza trascurare le sue notevoli doti compositive come evidenziato da brani quali “Groove Yard” portato al successo da Wes Montgomery, “Mia” e “Carl’s Blues”. Questo album raccoglie alcune delle sue migliori interpretazioni: gli undici brani incisi a Los Angeles tra la fine del 1955 e l’inizio del 1956 in trio con Leroy Vinnegar al basso e Lawrence Marable alla batteria che costituiscono l’unico album – per l’appunto “Introducing Carl Perkins” – registrato a suo nome; come bonus tracks dieci pezzi tratti da trasmissioni radiofoniche a Hollywood il 13 e il 10 settembre del 1954, con Perkins in piano solo nei primi quattro brani e con Oscar Moore alla chitarra, Joe Comfort al basso e George Jenkins alla batteria nei successivi sei. L’album si chiude con una straordinaria registrazione effettuata a Los Angeles nel gennaio del 1957 in cui Perkins suona con Jim Hall alla chitarra e Red Mitchell al basso. Insomma in circa un’ora e un quarto di musica abbiamo la possibilità di apprezzare il grande talento di questo pianista ancora misconosciuto ai più, un talento che si manifesta sia quando fa parte della sezione ritmica grazie ad un timing perfetto e ad armonizzazioni tanto ardite quanto personali , sia quando si erge a protagonista assoluto, con un linguaggio fluido, ricco tecnicamente ma lungi da qualsivoglia tentazione virtuosistica ed un uso sapiente dello spazio.

Dominique Pifarély Quartet – “Tracé Provisoire” – ECM 2481
Tracé ProvisoireIl violinista francese Dominique Pifarély ha quasi del tutto abbandonato il jazz per collocarsi in un’area che sta a metà strada tra il folk e la musica colta contemporanea. In quest’ambito ha raccolto innumeri consensi tanto da essere considerato, in Francia e non solo, artista tra i più coerenti e rigorosi che calchino le scene internazionali. Anche quest’ultimo album si inserisce nel solco tracciato dai lavori precedenti anche se il francese presenta un nuovo quartetto, nato nella primavera del 2014, con Antonin Rayon al piano, Bruno Chevillon al basso e François Merville alla batteria. Sia il bassista sia il batterista avevano già avuto modo di lavorare con Pifarély per cui la vera novità è costituita dall’ingresso di Antonin Rayon, che debutta in casa ECM. Rayon si era messo in luce, specie all’organo Hammond, dapprima nel gruppo Spring Roll della flautista Sylvaine Hélary, e quindi nel gruppo di Marc Ducret. Chiamandolo al suo fianco, Pifarély ha inteso valorizzarne il coté pianistico abbandonando l’Hammond. E che si sia trattato di una scelta felice lo dimostra l’album in oggetto , registrato nel luglio del 2015 e contenente cinque brani di durata variabile dai 5:37 ai 13:34 tutti scritti dal leader. La musica proposta dal quartetto oscilla costantemente tra improvvisazione e composizione, tra l’esigenza di libertà e il desiderio comunque di muoversi all’interno di una struttura. Un equilibrio difficile da ricercare ma che Pifarély e compagni riescono a trovare grazie al fatto che la musica prende le mosse da strutture, idee tematiche che lasciano comunque ampio spazio all’improvvisazione. Ed è proprio in questa sorta di cuneo che si inseriscono i quattro accomunati da grande perizia tecnica e da una particolare ricerca timbrica che si apprezza sia negli interventi solistici sia nei non rari collettivi. Comunque, come si accennava in apertura, non mancano momenti in cui sembra quasi di essere tornati al Pifarély jazzista a tutto tondo: si ascolti al riguardo “Tracé provisoire Pt.1” caratterizzato da un forte impianto ritmico.

Herlin Riley – “New Direction” – Mack Avenue 1101
New-DirectionL’ascolto di questo eccellente album è vivamente consigliato a chi si è avvicinato al jazz a partire dalla musica di Ornette Coleman senza nulla aver ascoltato di ciò che era avvenuto in precedenza, a chi pensa che grande musica sia solo quella in cui è difficile se non impossibile individuare una qualsivoglia linea melodica, a chi ritiene che fare musica significhi sempre e soltanto sperimentare indipendentemente dai risultati, a chi, insomma, per tutti questi motivi vive la musica mainstream come fumo negli occhi. Ebbene, questo è un disco mainstream inciso da un gruppo di eccellenti musicisti capitanati da un fuoriclasse della batteria quale Herlin Riley, che fanno musica eccellente. I nostri amici di cui sopra probabilmente non conoscono Riley ed allora vale la pena sottolineare che si tratta del batterista, originario di New Orleans, della Lincoln Center Jazz Orchestra guidata da Wynton Marsalis. Nel corso della sua lunga carriera, Riley assunse un peso specifico tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, quando fu chiamato a collaborare da alcuni grandi artisti. E in veste di prestigioso accompagnatore ve lo abbiamo segnalato recensendo l’album di Ahmad Jamal registrato a Marciac il 5 agosto del 2014. Ma per uno di quei paradossi che abbondano anche nel campo del jazz, Riley prima di questo “New Directions” aveva inciso solo un album come leader; per questa seconda esperienza si è posto a capo di un settetto di giovani musicisti quali il ventisettenne Emmet Cohen , considerato la stella nascente del pianismo jazz già ammirato in Italia alla testa di un suo trio, il trombettista Bruce Harris spesso protagonista allo Smalls del Greenwich Village, l’altista e sopranista Godwin Louis che suona il sax dall’età di nove anni e che è stato scelto come uno dei sei musicisti ammessi al corso di perfezionamento presso il Thelonious Monk Institute for Jazz Performance, Russell Hall bassista originario di Kingston, Jamaica, il quale all’attività di musicista affianca quella di didatta; a completare l’organico due veterani: il chitarrista Mark Whitfield e il percussionista brasiliano Pedrito Martínez. Questo mix tra giovani e meno giovani funziona alla perfezione; sotto l’esperta guida di Riley, che come pochi sa dettare i tempi giusti, il gruppo si muove compatto richiamando alla mente tempi ed atmosfere oramai lontane: ecco quindi, tanto per citare qualche titolo, “Connection To Congo Square” a celebrare esplicitamente uno degli spazi più cari agli schiavi di New Orleans, “The Crossbar” vera e propria beneficiata per il leader e per Pedrito Martinez con evidenti riferimenti a Chano Pozo e quindi a Dizzy Gillespie, mentre la title tracke , grazie anche alla trascinante interpretazione di Mark Whitfield, ci riporta a certe atmosfere groove proprie degli anni ’70; nel bridge di questo brano da segnalare anche l’assolo del pianista Emmet Cohen.

Alfredo Rodriguez – “Tocororo” –Mack Avenue 1109
tocororoDopo “Sound of Space” del 2011 legato alla tradizione musicale della sua isola e “The Invasion Parade” del 2014, questo è il terzo disco del pianista cubano scoperto da Quincy Jones , registrato sempre per la Mack Avenue e sempre con Quincy Jones in veste di produttore. Accanto a Rodriguez troviamo questa volta il cantante e polistrumentista del Camerun Richard Bona, il trombettista libanese Ibrahim Maalouf, la cantante indiana Ganavya Doraiswamy, il cantante spagnolo Antonio Lizana, il duo vocale franco-cubano Ibeyi, formato dalle gemelle Lisa-Kaindé Diaz e Naomi Diaz che cantano in lingua Yoruba. La scelta del titolo è tutt’altro che casuale: il tocororo è un uccello originario dell’isola di Cuba, dove, a causa del suo piumaggio bianco, rosso e blu (i colori della bandiera), è stato scelto come simbolo nazionale; inoltre si tratta di un volatile che non sopravvive in gabbia ed è quindi visto come simbolo di libertà. Ed è proprio a questa libertà che si ispira il pianista nel cercare uno stretto collegamento con le altre musiche del mondo. Di qui l’internazionalismo che caratterizza l’organico, di qui un album quanto mai diversificato nelle atmosfere e nei motivi ispiratori… forse troppo diversificato, nel senso che a brani interessanti fanno riscontro pezzi francamente troppo leggeri. Fra i primi da segnalare “Ay, Mama Inés” speziato di sapori africaneggianti grazie all’apporto del polistrumentista Richard Bona, “Viva la esperanza” di Sergio Rodriguez e “Kaleidoscope” di Alfredo Rodriguez in cui abbiamo la possibilità di ascoltare la tromba di Ibrahim Maalouf e nell’ultimo anche la vocalist Ganavya Doraiswamy mentre non ci sembrano destinati a lasciare traccia brani come la reinterpretazione del corale di Johann Sebastian Bach “Jesu, Joy on Man’s Desiring” o l’ennesima riproposizione del piazzolliano “Adios nonino”, di cui è però oggettivamente difficile riprodurre il pathos.


Southpaw Steel’n’Twang – “ Stat(u)e Of Mind” – Bafe’s Factory 009
Statue of mindEcco un album che il Vostro recensore farebbe fatica ad ascoltare più di una volta dato che il sound della ‘steel guitar’ gli risulta particolarmente indigesto. Eh sì perché il leader di questo trio finlandese, Ville “Lefty” Leppänen, è un vero e proprio specialista della ‘steel guitar’; a completare il trio JP Mönkkönen alle chitarre e Tero Mikkonen alla batteria e percussioni cui si aggiungono quali special guests Jouko Aramo al trombone, Pekka Grohn alle tastiere, Jermu Koivukoski alla tromba e Perttu Pannula al sax. Siamo nel campo del rock-blues che il gruppo interpreta con buona partecipazione, con un linguaggio forte, che non conosce raffinatezze, in cui confluiscono input provenienti da varie fonti quali per l’appunto il blues , il rock ma anche il jazz, il country western, la musica hawaiana. Ora abbiamo più volte sottolineato come il jazz stesso sia nato come musica meticciata cioè come sintesi di più linguaggi di diversa estrazione; di qui la massima considerazione verso chi ancora oggi continua a sperimentare servendosi di commistioni tra le più disparate. Ma non è detto che tutte le ciambelle riescono con il buco. Ciò per dire che, senza alcunché togliere alla sapienza strumentale di questi musicisti finlandesi, forse sarebbe opportuno che scegliessero una strada più precisa lungo cui indirizzare i propri sforzi.

Markus Stockhausen / Florian Weber – “Alba” – ECM 2477
AlbaSemplicemente delizioso questo album registrato a Lugano nel luglio del 2015 da Markus Stockhausen e Florian Weber. In particolare si tratta della prima registrazione del trombettista-flicornista e compositore assieme al pianista-compositore di Detmold; per Markus è anche il primo disco ECM dopo Karta del 2000 mentre per Weber si tratta dell’esordio per l’etichetta tedesca. In realtà la collaborazione tra questi musicisti data già di qualche anno: i due avevano avuto modo di suonare in seno al sestetto di world music di Stockhausen « Eternal Voyage » finché sei anni fa decisero di costituire questo duo che ha già mietuto successi in tutto il Vecchio Continente. I motivi ispiratori della formazione sono, nel corso degli anni, cambiati in modo radicale: partiti con l’intento di esplorare strumentalmente le sonorità elettroniche, grazie soprattutto all’approccio di Weber e alle sue composizioni il duo ha virato decisamente verso quella dimensione acustica che si ascolta nel CD in oggetto. Album delizioso, dicevamo, in quanto ciò che si ascolta è di assoluto livello: il dialogo tra i due è fitto, intenso, senza prevalenza dell’uno o dell’altro; le linee disegnate dai due strumenti, si incontrano, si intersecano, confluiscono l’una nell’altra, il tutto giocato sull’acustico e sul filo di una dinamica controllatissima, frutto evidente di un’assoluta padronanza strumentale. In tale contesto i confini tra pagina scritta ed improvvisazione diventano assai labili connotando l’album di una continuità e fluidità che si mantiene attraverso tutte le tracce, nonostante la diversità dei motivi ispiratori. Così, ad esempio, mentre “Mondtraum” ed “Emilio” sono caratterizzati da un intimismo, una delicatezza quasi retro, “Surfboard” e “Better World” contengono un ché di gioioso che induce all’ottimismo…e via di questo passo fino alla fine in un alternarsi di atmosfere che per nulla incide sulla omogeneità dell’album.

Leonid Vintskevich – “Under A Different Sky” – Slam 570
Under a different skyDue russi, Leonid Vintskevich al piano e il figlio Nick Vintskevich al sax alto e soprano, e un inglese, Steve Kershaw al basso: ecco spiegato il titolo di questo album, registrato in Inghilterra nel luglio del 2014. Il trio si misura con un programma di nove brani di cui cinque scritti da Kershaw, due da Leonid Vintskevich e uno da Nick Vintskevich mentre il nono è un arrangiamento della “Sarabande” di Claude Debussy. I tre non suonano sempre assieme ma l’organico si scompone e ricompone a seconda delle varie esigenze espressive. Così il brano d‘apertura, “Forgotten Melody”, una suadente melodia di sapore classicheggiante scritta da Leonid Vintskevich pianista di formazione classica , è affidata al duo pianoforte – contrabbasso mentre al trio sono riservati i successivi due brani, di impostazione completamente diversa: “The Waltz of the Young Turks” di Steve Kershaw , ispirato da un viaggio in Turchia e caratterizzato da una trascinante carica ritmica mentre “One moment” di Nick Vintskevich è a nostro avviso uno dei brani più belli dell’album sia per la linea melodica sia per l’interpretazione che ne fornisce l‘autore al sax soprano, ottimamente coadiuvato dal padre e da Kershaw nell’occasione all’archetto. Ancora un cambio d’organico in “Russian Ornament” eseguito dai due russi con Nick Vintskevich che evidenzia la sua maestria tecnica al sax soprano. Ad interpretare la “Sarabande” di Debussy, arrangiata da Kershaw, è nuovamente il trio con il sassofonista ancora in particolare evidenza. Nella title-tracke la scena è per il solo Steve Kershaw che sia con il pizzicato sia con l’archetto, senza alcuna sovraregistrazione, offre un vero e proprio saggio di bravura tecnica, di inventiva e di squisita sensibilità. L’album si chiude con due composizioni dello stesso contrabbassista, “Stabat Mater” per pianoforte e contrabbasso e “The Mad Dog and the Englishman” in trio con Nick Vintskevich al sax alto.

Yellow Jackets – “Cohearence” – Mack Avenue 1108
CohearenceA tre ani di distanza da “A Rise in the Road” quello che viene considerato uno dei migliori gruppi di jazz-fusion si ripresenta con un organico leggermente modificato: accanto ai veterani Russell Ferrante (tastiere), Bob Mintzer (sax) e Will Kennedy (batteria) ecco un nuovo virtuoso del basso elettrico, Dane Alderson, a prendere il posto di Felix Pastorius che, a sua volta, aveva sostituito Jimmy Haslip nel 2012. In repertorio dieci brani di cui nove originals scritti dai componenti del gruppo e “Shenandoah” un pezzo tradizionale arrangiato da Bob Mintzer. Il gruppo non risente del cambio quanto a compattezza e cifra stilistica, anzi quest’ultimo album è forse quello che negli ultimi anni più si avvicina ad un linguaggio jazzistico propriamente detto. Merito, soprattutto, di Ferrante e Mintzer che come al solito costituiscono una front line di grande impatto. I due dialogano a meraviglia ora contrappuntando i rispettivi interventi, ora suonando all’unisono con effetti timbrici che sotto certi aspetti costituiscono una delle peculiarità del gruppo; così, ad esempio se in “Guarded Optimism” i due si spartiscono gli interventi solistici in “Child’s Play” il tema viene eseguito all’unisono da pianoforte e sax, strumenti che possiamo poi ascoltare anche in assolo. Diversificato anche l’andamento ritmico condotto dalla batteria sempre puntuale e propositiva di Will Kennedy e dal basso del nuovo arrivato che si pone in particolare evidenza in “Trane Changing” di Ferrante e “Fran’s Scene” di Kennedy: al tempo mosso e veloce di “Anticipation”, “Inevitable outcome” e “Eddie’S In The House” di impronta funky, fanno da contraltare gli ultimi due brani “Shenandoah” e soprattutto la title tracke, una dolce ballad eseguita con sincera partecipazione e inaspettata liricità da Russell Ferrante e Bob Mintzer.

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