Riprende nel 2017 il Talos Festival di Ruvo di Puglia

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Per quest’anno niente Talos Festival: l’edizione 2016 della manifestazione di Ruvo di Puglia non ci sarà e il discorso verrà ripreso durante l’estate del 2017.
L’annuncio è arrivato settembre nel corso di una conferenza stampa durante la quale il sindaco Pasquale Chieco, l’assessora alla cultura Monica Filograno e il direttore artistico Pino Minafra hanno illustrato le prospettive future del festival conosciuto e apprezzato a livello nazionale e internazionale.
Dal 2012 il Festival è tornato alla sua dimensione originale, ritrovando nella direzione artistica del suo ideatore, il trombettista e compositore Pino Minafra, la forza progettuale e la qualità artistica che per nove edizioni – dal 1993 al 2000 e poi nel 2004 – lo hanno reso un festival di riferimento nel panorama europeo. Nelle ultime quattro edizioni (che hanno coinvolto centinaia di artisti e circa 80mila spettatori in circa 40 giorni di programmazione) il festival si è riappropriato del suo antico ruolo di motore produttivo di cultura, votato alla sperimentazione di nuovi linguaggi musicali e alla valorizzazione delle radici fondanti la storia e la tradizione musicale pugliese. Tra gli ospiti Fanfara di Tirana, Transglobal Underground, Maya Homburger, Faraualla, Nicola Pisani, Pasquale Innarella, Keith e Julie Tippetts, Tankio Band, Antonello Salis, Instant Composers Pool Orchestra, Gianluigi Trovesi, Han Bennink, Louis Moholo, Klaus Paier e Asia Valcic Duo, Cesare Dell’Anna e Girodibanda, Moni Ovadia, Javier Girotto, Gabriele Mirabassi & Roberto Taufic, Vince Abbracciante, Enver Izmailov, Kocani Orkestar, Taraf De Haidouks, Orchestra di Piazza Vittorio, Boban e Marko Markovic Orkestar. (altro…)

SAÕ PAULO: ritratto sonoro in più episodi

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Facile e scontata l’equazione Brasile-Musica; come tutti i luoghi comuni, ha bisogno di essere smontata o dimostrata attraverso una “prova sperimentale”, un’esperienza. È ciò che mi è capitato nel breve soggiorno vissuto nella capitale economica e culturale della più estesa nazione sudamericana, agli inizi del luglio scorso.
L’equazione, in questo caso, prevede tre distinti passaggi. Il primo transita per la testimonianza sonora “silenziosa” quanto profondamente evocativa del Museu Afro-Brasil; il successivo scava nel rapporto tra musica e fotografia che, a sua volta, indaga la dimensione della spiritualità e della “natureza” presso i popoli del mondo. L’ultimo va a visitare un jazz-club paulistano, luogo dove la musica è presenza abituale per un pubblico costituito soprattutto di abitanti della metropoli brasiliana. Un breve viaggio nella memoria e nel presente, tra le arti: una rievocazione.

1.1 L’Africa nel Brasile, il Brasile nell’Africa: un museo identitario.
“Questo importantissimo museo situato nel Parque de Ibirapuera è davvero molto affascinante. Al terzo piano è esposta una collezione permanente che ripercorre cinque secoli di immigrazione africana (con qualche accenno ai 10 milioni di africani che persero la vita lavorando duramente per lo sviluppo del Brasile), mentre il primo ed il secondo piano ospitano mostre temporanee di vario genere dedicate all’Africa contemporanea” (“Brasile”, Lonely Planet 2014, p.233). Le scarne note della guida già inducono chiunque si occupi di cultura e musica afroamericane ad andare a visitare la struttura, immersa nel verde del più grande parco di São Paulo (due chilometri quadrati) che peraltro ospita avveniristici edifici di Oscar Niemeyer (l’architetto che progettò Brasilia): l’Auditorium, a forma di enorme vela bianca, e lo spazio espositivo “la Oca”, che assomiglia ad un’astronave.
Catturo dal diario scritto in presa diretta nei giorni paulistani. “Solito taxi e via verso il Parque Ibirapuera per visitare il Museu Afro-Brasil. Il parco, che avevamo visto di sera, appare diverso, pieno di ragazzini e giovani come allora ma immerso in una luce dai contorni nettissimi, dato che c’è un forte vento che ha spazzato via lo smog che soffoca di solito la città. Entriamo nel museo, quasi ospitato dal verde, e veniamo sommersi da una marea di canoe color nocciola: non sono “vere” ma è un allestimento moderno con due enormi stanze invase dai natanti e le pareti decorate con motivi geometrici realizzati con rose essiccate, scure. Un buon inizio, anche se l’aria degli addetti è placida e non sembra esserci molto transito di turisti.
Sbagliamo il “verso” e in pratica visitiamo il museo al contrario: non dalla schiavitù all’oggi ma in senso opposto. Le scritte sono solo in portoghese ma per me e Pino Ninfa (il fotografo, n.d.r.) non c’è quasi bisogno di informazioni: studiamo il mondo afrodiasporico da anni e, come per magia, esso si materializza in tutta la sua straordinaria vitalità ed in tutto il suo gioioso, policromo colore. Entrambi fotografiamo . Però dei flashes mentali li ho ancora, vivissimi: i brasiliani della modernità, dai gruppi musicali del primo Novecento (Pixinguinha e os Oito Batutas, Conjunto de Choro) ai campioni del calcio (Pelè, Garrincha, Jairzinho); il lavoro agricolo con un’infinità di attrezzi ed oggetti; le cerimonie sincretiche e allora spunta il “Bumba-me-boi” (il toro sacro) che Ninfa è andato pochi giorni fa a fotografare fino a Sâo Luís, nel Nordeste; la capoeira con i suoi bianchi abiti e gli strumenti; le divinità con tanti orishas ed un’infinità di statue e statuette fra cui spicca Iemanjá, sorta di Maria/Sirena/Divinità del Mare; le signore del candomblé; l’orchestra degli strumenti sacri, i tre tamburi ricavati da un solo tronco e che hanno ciascuno un’anima; le maschere africane e quelle afrobrasiliane…
Alcune tra le sale più impressionanti sono le due dedicate al commercio degli schiavi (avevo visto qualcosa di simile solo nel museo di Bordeaux, nel marzo 2014): la più grande è scura, poco illuminata, si ode lo sciabordare dell’oceano. Contiene lo scheletro di una nave negriera – a grandezza naturale – ma è ricostruita solo la stiva dove venivano caricati gli schiavi. Attorno, alle pareti, disegni, quadri, catene e strumenti di tortura vari: un incubo doloroso che prende forma ma mostra l’umanità dolente di coloro che venivano ridotti in cattività. Tutto il buio di questa sala si “riscatta” nei colori sgargianti e straripanti del resto del museo, dei vestiti, degli oggetti, degli strumenti che alla fine diventano di artisti africani contemporanei che si ispirano ad un ricchissimo passato. La seconda parte del museo è infatti dedicata a mostre temporanee di artisti africani o brasiliani odierni: ritornano figure e colori dalle radici del “Continente Nero” ma c’è un forte coefficiente di espressionismo, provocazione, installazione… “.

1.2 L’Africa nel Brasile, il Brasile nell’Africa: suoni antichi e presenti.
Un percorso nel percorso è quello che si sofferma sui molti strumenti musicali presenti nelle sale del Museu Afro-Brasil. In uno spazio dedicato alle feste, ad esempio, compaiono appaiati cavigliere con campanelli (Gunga, si usano nelle “festas corno” Congada), il Reco Reco (intagliato nella canna di bambù, con la sua bacchetta da sfregamento, che si impiega nel samba come nei riti del candomblé), le tre campane metalliche dell’Agogò (si suonano con una bacchetta anch’essa metallica; si utilizzano in varie feste: Carnaval, Maracatu, Congada ecc.).
Nella stanza seguente quadri e oggetti produttori di suono testimoniano la presenza di danze nelle campagne: un balaphon di evidente origine africana (ha lamelle in legno e zucche svuotate come risuonatori), numerosi Reco Reco colorati e con impugnature figurative antropomorfe, bastoni con dischi metallici o in legno, una piccola chitarra a quattro corde cioè l’antenato del cavaquinho (strumento caratteristico nel samba, insieme alla chitarra ed alle percussioni). Del resto la citata foto di “Pixinguinha e os Oito Batutas, Conjunto de Choro” (1918-1927) ritrae ben cinque strumentisti a corda, un sax alto, un percussionista con Reco Reco ed un batterista con un set simile a quello dei coevi jazzisti nordamericani delle origini. Pixinguinha, dal canto suo, partecipava a Rio de Janeiro a delle autentiche “jam sessions” in casa di Tia Ciata insieme a musicisti leggendari come Donga, Sinho e João da Baiana. Eseguivano lundu, maxixe, choro, marce e batuque e all’interno di questo insieme di generi musicali il samba venne precocemente delineando le sue caratteristiche (Luca Mercuri “Samba: un itinerario antropologico-sonoro tra Africa e Brasile”, tesi di laurea triennale presso il Conservatorio “L.Refice” di Frosinone di cui sono stato relatore e che mi ha profondamente illuminato).
Tornando alle sale del Museu Afro-Brasil, ce ne sono svariate dedicate alla capoeira con filmati, statue, quadri, immagini e strumenti. Spiccano i berimbau, il pandeiro, l’agogó a due campane ed un tamburo atabaque cui assomigliano molto le congas. Ritualità e spiritualità si intrecciano profondamente nella danza/forma di lotta che è la capoeira e gli strumenti rimandano alla cultura africana degli Yoruba che molto ha donato a quella afroamericana (dal Nord passando per i Caraibi e giungendo al Brasile). In un’ampia sala (con, tra l’altro, pannelli sul commercio triangolare) appaiono i tre tamburi definiti “Os instrumento da Orquestra Sacra Afro-brasileira”, gli “atabaques”. Cito ancora lo studio di Luca Mercuri. “Ad essi vengono attribuite delle caratteristiche umane, spesso gli viene dato un nome e sono considerati in tutto e per tutto degli oggetti sacri. Viene utilizzata una particolare cura nella loro costruzione che è scandita da un complesso sistema di procedure. Ad esempio le pelli che vengono usate nella costruzione degli atabaques spesso sono state tratte dai corpi di animali sacrificati. Nel momento in cui viene istituito un terreiro hanno luogo delle cerimonie durante le quali si donano offerte agli strumenti e in alcuni casi si sparge sulle loro sommità il sangue di animali sacrificati, considerato anch’esso come una fonte di vita. Le percussioni, infatti, hanno di per se stesse una voce e un potere i quali devono essere nutriti; al di là quindi della cerimonia del “battesimo” si praticano annualmente nei loro confronti delle cerimonie volte ad alimentarli al fine di mantenere inalterato il loro potere. Il valore sacro di queste percussioni non cessa di esistere alla fine delle cerimonie, infatti quando non vengono utilizzate vengono coperte e sorvegliate con molta cura. (…)All’interno di questo repertorio musicale si può notare una chiara origine africana sia per l’utilizzazione di parole in lingua Yoruba per quel che riguarda l’aspetto vocale sia per la presenza al suo interno di strutture ritmiche complesse che derivano in maniera molto evidente da strutture musicali africane. Sebbene non ci sia una diretta parentela di tipo musicale, come vedremo, tra le ritmiche che caratterizzano le esecuzioni liturgiche del Candomblè e il samba, se non per l’utilizzazione dell’agogo, mi sembra comunque importante sottolineare quanto sia essenziale all’interno della cultura musicale afrobrasiliana il carattere percussivo, dato che proprio da esso ciò che si andrà sviluppando come samba urbano trae la propria forza.”
Il pannello “MUSEU AFRO BRASIL Um conceito em perspectiva” come la lirica “Uma história diferente” di Paulinho da Viola che campeggiano all’inizio ed alla fine della sezione storica del percorso ne illustrano l’impianto concettuale. Come spiega il principale curatore ed animatore Emanoel Araujo “la creazione del Museu Afro Brasil è il risultato di più di due decadi di ricerche e mostre che illustrano la “ancestralità nera” di coloro che effettivamente erano e sono neri in Brasile (…) il museo unisce Storia, Memoria, Arte e Contemporaneità, facendo confluire insieme tutte queste dimensioni in un singolo discorso (…)”; presenta quindi le eredità dell’Africa affinché ci si possa specchiare contemplando anche la lotta strenua di una parte della popolazione del Brasile che è stata sfruttata e marginalizzata ma ha mantenuto la sua identità. D’altro canto c’è un museo contemporaneo in cui l’odierna “black people” può indagare sé stessa con un fondamentale contributo per i cittadini brasiliani bianchi e neri e “per il beneficio delle generazioni a venire”.
È chiaro che in quest’ampia dimensione gli strumenti afrobrasiliani rivestano un ruolo di enorme importanza. (altro…)

I NOSTRI CD DALL’ITALIA E DAL MONDO

a proposito di jazz - i nostri cd

Matteo Tundo, “Zero Brane” (Aut Records AUT 021).
GERLANDO SNARKYdi Luigi Onori – Otto titoli che fluiscono, ampie zone improvvisate, geometrie impreviste, composizioni timbriche inusuali. Il lavoro del chitarrista-leader e compositore (solo un brano è di Bill Evans, “Twelve Tone Tune Two”) si offre come un insieme organico e – oltre alla fascinazione dell’ascolto – ci sono motivi precisi. Intanto un tempo di elaborazione di tre anni in cui il ventiquattrenne jazzista potentino ha studiato fisica, in particolare sia la teoria delle stringhe che la più recente M-Theory, cercando di applicarla in ambito musicale. Così la “Zero Brane” (che dà il titolo al Cd) è un concetto matematico che indica una realtà priva di dimensioni, la “Symmetries of the Universe” fa riferimento al concetto della Supersimmetria del cosmo, “Antimateria” è una partitura interamente scritta che i musicisti, però, interpretano liberamente. Matteo Tundo ha, in effetti, cercato e trovato dei partner ideali in questa sua ardua quanto riuscita operazione: Emanuele Parrini (violino, viola); Piero Bittolo Bon (sax alto clarinetto); Simone Graziano (Fender Rhodes), Matteo Giglioni (batteria) ed Alessio Riccio (elettronica), il più titolato di questo gruppo di avanguardisti. In “Moonog” si lavora sul principio dell’inferenza (usare <<lo stesso materiale musicale per tutta la durata del brano, facendolo evolvere in forme sempre diverse>>); in “Idea” e “Thinking Mond” è il funzionamento dei circuiti cerebrali ad ispirare Tundo. Nella sua originalità “Zero Brane” è un cd che mostra una via diversa al jazz contemporaneo e lo proietta audacemente verso l’Universo (come da molti anni fa Steve Coleman).

Out South, “Dustville” (Fitzcarraldo Records FITZ/800A-01).
GERLANDO SNARKY 3di Luigi Onori – Un quartetto con la vocazione del rock (venato di country) ed una dimensione timbrica legata agli strumenti a corde (chitarre acustiche, elettriche, slide; dobro, basso elettrico, batteria). Gli otto pezzi sono tutti composti dal chitarrista Lorenzo Colella, l’arrangiamento è collettivo e i brani viaggiano tra l’Africa del Mali, il “Crossroads” di memoria blues e la black-music di “Junk”. Gli Out South sono composti da Colella, Fabio Rizzo (slide guitar, dobro mandolin), Luca Lo Bianco (basso el.) e Ferdinando Piccoli (batteria). L’album è stato registrato dal vivo in studio a Palermo; la sua realizzazione è avvenuta grazie ad un progetto di crowfunding che testimonia il seguito che i singoli musicisti ed il gruppo hanno presso l’ambiente dell’avantgarde rock-jazz isolano. Buoni solisti, gli Out South mostrano soprattutto di essere un organico gruppo che genera un “suo” suono a cavallo tra generi, geografie e tempi storici. E’, in definitiva, l’assemblaggio di elementi e linguaggi noti ad essere originale, a conferire un’inedita freschezza ai brani, contrassegnati da un’efficace brevità. (altro…)

Quando il jazz sposa musica brasiliana e argentina

Daniele Di Bonaventura

di Luigi Viva – Gran bel concerto quello svoltosi il 21 agosto a San Pantaleo (Olbia) nel Petra Segreta Resort, protagonista il jazz , coniugato alla musica brasiliana e argentina con l’esibizione di Daniele di Bonaventura con la sua Band’Union e il Rigel Quartet. Si è trattato del primo concerto effettuato in questa splendida location inserita in sette ettari di macchia sarda dove ospitalità, enogastronomia e cultura si coniugano ai massimi livelli. Nei mesi a venire gli spettacoli verranno inseriti in una rassegna stabile che avrà come punto di forza un programma multidisciplinare in cui saranno protagonisti : jazz, musica, teatro, poesia (prevista per i grandi eventi l’apertura di una arena utilizzando un suggestivo anfiteatro naturale).
Il concerto ha avuto momenti di gran livello grazie al virtuosismo dei musicisti Daniele di Bonaventura bandoneon, Marcello Peghin chitarra dieci corde, Felice Del Gaudio basso, Alfredo Laviano percussioni oltre alle chitarre di Daniela Barca, Stefano Macciocu, Sabina Sanna componenti con Peghin del Rigel Quartet un gruppo di formazione classica con repertorio che spazia dalla musica contemporanea al jazz. Di Bonaventura è uno dei più apprezzati solisti a livello internazionale. Da ascoltare l’ultimo album DANIELE DI BONAVENTURA BAND’UNION pubblicato in formato cd + video dalla DdB records. I componenti di Rigel Quartet vantano una intensa attività concertistica che li ha portati ad esibirsi in importanti festival in Europa, Giappone, Marocco, Brasile, Russia, ottenendo numerosi riconoscimenti con incursioni che spaziano dalla musica classica a quella contemporanea, dal jazz alla musica etnica. Fra i loro ultimi progetti Danze Dal Mare e Interactive realizzato al museo MAGA in occasione della mostra “Missoni l’arte, il colore”, oltre ad uno spettacolo imperniato sulle musiche di Egberto Gismonti. (altro…)