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a proposito di jazz - i nostri cd

Matteo Addabbo – “Bugiardi nati” – abeat 550
bugiardi-natiAtmosfere d’antan ma assolutamente gradevoli quelle ricreate dal trio composto da Matteo Addabbo all’organo Hammond, melodica e voce, Andrea Mucciarelli alle chitarre elettrica e acustica, Andrea Beninanti alla batteria e al violoncello con la vocalist Giulia Galliani ospite d’onore nel solo brano “Sempre le solite frasi”. Il gruppo si misura su un repertorio di dieci pezzi tutti originali composti dallo stesso Addabbo eccezion fatta per “Remember Sammy Jankis” e “Un altro principio” firmati da Andrea Mucciarelli. Come accennato, il clima che si respira è quello che caratterizzava l’opera di celebri organisti americani quali Jack McDuff , Larry Young e ovviamente Jimmy Smith. Quindi un ‘soul’ a tratti trascinante in cui l’organo Hammond si carica sulle spalle la parte della tastiera e del basso. A questo punto sorge spontanea una domanda: ha ancora senso proporre una musica del genere? So bene di attirarmi le critiche dei “modernisti” a tutti i costi ma la mia risposta è SI’ a patto che siano rispettate alcune condizioni: l’onestà intellettuale di chi questa musica propone e la volontà di introdurre un quid di personale. Nell’album in oggetto queste due condizioni mi sembrano rispettate: in particolare, per quanto concerne gli elementi di originalità, gli stessi vanno ritrovati nel fatto che nello stile, nelle composizioni di Addabbo si notano riferimenti sia ad organisti più moderni sia a quella ricerca melodica che da sempre caratterizza la musica made in Italy.

Luca Aquino & Jordanian National Orchestra – “Petra” – Talal Abu-Ghazaleh International Records
petraCapita raramente… ma capita che un album si qualifichi non solo per il suo contenuto musicale ma anche e soprattutto per i suoi significati che vanno ben al di là del fatto squisitamente musicale. E’ il caso di questo “Petra” prodotto dalla Talal Abu-Ghazaleh International Records, una nuovissima etichetta fondata con lo scopo di sviluppare e sostenere l’industria musicale in Giordania e presentato il 23 luglio, insieme all’Orchestra Nazionale Giordana, diretta da Sergio Casale, nel sito archeologico di Petra. Il progetto è promosso dalla campagna globale UNESCO #Unite4Heritage e i ricavati della sua vendita andranno al sito Unesco di Petra e alla JOrchestra.‬‬ E non credo ci sia bisogno di ulteriori parole per sottolineare l’importanza di una iniziativa del genere. Dal punto di vista squisitamente artistico, si tratta di un’ulteriore prova di grande maturità del trombettista Luca Aquino sempre alla ricerca di situazioni e soluzioni che possano dar risalto alla propria musica. Di qui la scelta di ‘Piccola Petra’, parte del Parco Archeologico di Petra, quale sito ove effettuare una registrazione. E i risultati sono sorprendenti: il potenziale acustico del sito si rivela davvero superbo fornendo alla tromba del leader tutta una serie di riverberi che conferiscono all’ensemble una ineguagliabile peculiarità. Anche perché nella musica proposta da Aquino e compagni si mescolano, in un unicum di grande originalità, echi provenienti da varie realtà: l’organico comprende il trio italiano composto da Luca Aquino (tromba e musiche), Carmine Ioanna (fisarmonica), Sergio Casale (flauto e arrangiamenti), i musicisti dell’ensemble della Jordanian National Orchestra, la violinista tedesca Anna Maria Matuszczak, il contrabbassista siriano Bassem Al Jaber, il percussionista Brad Broomfield di New Orleans, il violista armeno Vardan Petrosyan e l’oboista rumeno Laurentiu Baciu. In programma nove brani tutti scritti dallo stesso Luca Aquino con l’eccezione di “Smile” di Charlie Chaplin la cui interpretazione è forse una delle pagine più belle dell’intero album.

Rino Arbore – “The Roots of Unity” – Dodicilune 345
the-roots-of-unityIn questo nuovo progetto discografico, il compositore e chitarrista pugliese Rino Arbore è affiancato da Mike Rubini (sax e flauti), Pippo D’Ambrosio (batteria e percussioni) e da Michel Godard (tuba e serpentone). L’album indaga sul concetto di unità prendendo spunto dalla “coincidenza” iconografica della madonna addolorata con la donna musulmana. In senso musicale, la sovrapposizione di queste due immagini porta, secondo Arbore, all’identificazione di un linguaggio che muovendo dalle tradizioni popolari si muove verso un futuro incerto che comunque tende ad unificare le influenze della religiosità araba e bizantina presenti in Puglia con la religiosità e i riti di matrice cattolica. Di qui una musica di certo non semplice, che nulla concede al facile ascolto, con sonorità alle volte stranianti prodotte da un organico inusuale data la copresenza di chitarra, tuba e serpentone. Le composizioni, tutte di Rino Arbore, prendono spunto dalla tradizione popolare ma vengono elaborate in modo tale che, come accennato, il risultato finale, oramai lontano dal jazz, si avvicina molto da un canto alla musica da camera dall’altro a quella che comunemente si definisce ‘libera improvvisazione’, nonostante la presenza di strutture alle volte ben definite. Si ascolti, al riguardo, “Mother (Addolorata)”, un brano complesso, caratterizzato dalle libere improvvisazioni di Rubini, del leader e soprattutto di Godard che alla tuba riveste il duplice ruolo di solista e poi di strumento ritmico insieme alla batteria di D’Ambrosio . Ed in effetti in tutto l’album appare particolarmente significativo il contributo di Michel Godard , da anni tra i più importanti ed attenti studiosi dei rapporti tra musica popolare e improvvisazione jazzistica. Ciò, ovviamente, senza alcunché togliere agli altri musicisti con Rubini che si conferma uno degli “altisti” più originali del panorama sassofonistico non solo italiano (lo si ascolti specialmente in “Flowers (to Ornette Coleman)” e Arbore la cui chitarra costituisce il vero e proprio collante dell’intero album.

Jesper Bodilsen – Acouspace Plus – “TID” – Family Music Production 201601
acouspace-plusPer questo album di debutto di “Acouspace Plus” il contrabbassista danese Jesper Bodilsen ha chiamato a collaborare due sassofonisti, Claus Waidtløw e Joakim Milder, e Spejderrobot all’elettronica. Una tantum particolarmente significativi sia il nome del gruppo sia il titolo dell’album: in effetti lo Spazio-Acustico collocato nel Tid (Tempo) è forse la chiave di lettura più appropriata per gustare la musica di Bodilsen e compagni. Una musica in cui l’elettronica gioca sì un ruolo importante ma non di primissimo piano: è lì, in sottofondo, a costruire, un tappeto su cui si inseriscono gli interventi degli altri tre che in uno spazio acustico costruiscono linee improvvisate che non disdegnano una certa cantabilità. Il tutto esaltato da un sound particolare determinato dall’originalità dell’organico, senza pianoforte e batteria. Così Bodilsen ha modo di evidenziare la sua sapienza strumentale che gli consente di legare il tutto senza far rimpiangere l’assenza di strumenti armonici e percussivi non rinunciando, per questo, a interventi solistici. Le atmosfere sono spesso rarefatte, alle volte oniriche, influenzate da una certa malinconia sin dal brano di apertura, “Snowland” in cui si apprezza, tra l’altro, il sound pieno, corposo, chiaro del contrabbasso di Bodilsen mentre i due sassofoni iniziano quel dialogo che sarà costante per tutta la durata dell’album. A chiudere una riproposizione di “Blue Monk” che riesce a dire qualcosa di nuovo e personale su un brano che è stato interpretato davvero centinaia di volte.

Till Brönner – “The Good Life” – Okeh 88875187202
the-good-lifeAmate un tipo di jazz di non difficile lettura, che non sperimenti alcunché ma che si proponga con una serie di standard ottimamente eseguiti? Se la risposta è affermativa, questo è un album imperdibile. Vi si ascolta colui che a ben ragione è il musicista jazz tedesco più noto in Europa. Trombettista dalla raffinata tecnica e dal suono particolarmente coinvolgente, nonché vocalist di rara sensibilità, Till Brönner ha vinto il prestigioso premio tedesco Echo Jazz ed è stato nominato svariate volte per i Grammy. In questa sua fatica discografica si presenta alla testa di un quintetto completato da John Clayton al contrabbasso, Anthony Wilson alla chitarra, Larry Goldings al piano e Jeff Hamilton alla batteria a costituire una sezione ritmica da sogno. In repertorio due sue composizioni originali – “Her Smile” e “The Good Life” – e ben undici gemme del songbook americano, brani celebri portati al successo da artisti del calibro di Frank Sinatra, Nat King Cole, Billie Holiday. Brönner non ha paura di confrontarsi con simili modelli e sciorina tutte le sue capacità sia di arrangiatore sia di esecutore. Riascoltiamo così, ad esempio, “Sweet Lorraine”, “For all we know”, “Love Is Here To Stay”, “I Loves You Porgy” , “I’m Confessin’ that I Love You” in versioni che, nulla perdendo dell’originario fascino, trovano nuova linfa nelle eleganti e sofisticate interpretazioni di Brönner che, con questo album, si iscrive definitivamente nella grande tradizione dei cantanti-strumentisti, alla Nat King Cole tanto per intenderci.

Santi Costanzo – “Deeprint” – Improvvisatore Involontario 048
deeprintcopertina-1E’ una sorta di miracolo che una terra come la Sicilia in cui le opportunità di lavoro non abbondano (per usare un eufemismo) continuino a germogliare tanti artisti talentuosi anche nel campo del jazz. A questa nutrita schiera si iscrive di diritto il catanese Santi Costanzo al suo album di debutto. Alla testa di un quartetto del tutto inusuale con Alessandro Borgia alla batteria, Carlo Cattano alto flauto e sax baritono e Fabio Tiralongo flauto, sax soprano e tenore, Costanzo – alla chitarra elettrica – ci presenta otto sue composizioni innervate da un linguaggio che nulla concede al facile ascolto. Siamo in territorio “free” o se preferite di composizione estemporanea in cui l’artista ha modo di evidenziare la sua conoscenza dell’universo musicale globalmente inteso, con assonanze non secondarie con la musica classica contemporanea. Affascinante il sound che Costanzo è riuscito a creare con un organico contrassegnato dall’assenza del contrabbasso per cui molta responsabilità è ricaduta sulle spalle dei due ‘fiatisti’ e dello stesso leader che si è assunto l’ingrato compito, oltre che di compositore dell’intero repertorio, di ricondurre ad unità quelle varie influenze cui prima si faceva riferimento. Altra notazione tutt’altro che secondaria: pur dopo diversi ascolti è difficile distinguere tra improvvisazione e parte scritta e questo va a tutto merito di chi queste pagine ha scritto e arrangiato.

Miles Davis – “Miles Ahead – Original Motion Picture Soundtrack” – Columbia 88985306672
miles-aheadEcco uno di quegli album che non esiterei a definire imperdibile: contiene, infatti, la colonna sonora del film “Miles Ahead” del 2015 diretto da Don Cheadl che narra la vita di Miles Davis. Il film è uscito nella sale statunitensi nell’aprile scorso ottenendo riscontri piuttosto positivi. Comunque, al di là delle valutazioni che si possono esprimere sul film, la colonna sonora è semplicemente superba non fosse altro che per la presenza di molti brani incisi dallo stesso Davis, brani che nel film rispettano un ordine cronologico, cosa che nel CD non avviene. Le 24 tracce documentano l’ arte di Miles dal 1953 al 1981 con 11 titoli, con l’aggiunta di otto brevi parti recitate da Don Cheadle che ricrea la voce rauca di Davis e cinque titoli di Glasper con ospiti tra gli altri Herbie Hancock, Wayne Shorter, Esperanza Spalding, Antonio Sanchez… Così, mentre il film si apre con “Prelude (Part 2)” dall’ album Agharta del 1975, la prima traccia del CD è “Miles Ahead” inciso nel 1953 con John Lewis (p), Percy Heath (cb), Max Roach (d), dopo di che si affrontano i vari periodi della vita di Miles contrassegnati da diversi episodi musicali, tra cui “So What” da “Kind of Blue” del 1959, “Nefertiti” dall’album omonimo del 1967 che rappresenta l’ultima fatica del quintetto acustico di Miles prima della “svolta elettrica”, “Frelop Brun” da “Filles de Kilimanjaro” ambedue del 1968, “Duran” e “Go Ahead John” da “The complete Jack Johnson Sessions” del 1970. Le composizioni di Robert Glasper nulla tolgono all’omogeneità dell’album … anche perché in questo periodo Glasper sta molto studiando la musica di Davis tanto da registrare un album a lui dedicato e di cui parliamo in questa stessa rubrica.

Miles Davis & Robert Glasper–“Everything’s Beautiful” – Columbia 88875157812
everythings-beautiful-glasperIl titolo del disco, così come scritto, potrebbe trarre in inganno qualche lettore più giovane: in realtà l’album contiene composizioni di Davis ma non da lui interpretate, anche se quello del trombettista resta l’universo di riferimento. Da tenere presente che l’album esce subito dopo il successo del film Miles Ahead della cui colonna sonora parliamo in precedenza. Qual è, dunque, il senso dell’operazione portata a compimento da Robert Glasper pianista che ben conosce la storia del jazz? A nostro avviso quello di realizzare una produzione che potesse accontentare allo stesso tempo gli appassionati del jazz e il pubblico più giovane. Obiettivo raggiunto solo a metà. In effetti la musica di Davis resta un capolavoro così come è stata scritta e certe rivisitazioni, per quanto cerchino di introdurvi elementi di novità, mai raggiungono la bellezza dell’originale. E questo album non fa eccezione. Invece, per quanto concerne i gusti del pubblico giovane, siamo sicuri che Glasper avrà fatto centro anche perché è stato capace di radunare alcuni degli idoli della moderna musica nera (che come ben sappiamo è ben diversa dal jazz propriamente detto); abbiamo quindi l’opportunità di ascoltare, tra gli altri, Bilal, Illa J, Erikah Badu, gli australiani Hiatus Kaiyote, Stevie Wonder… accanto ad alcuni campionamenti del Miles periodo Columbia e di Joe Zawinu. L’esito del tutto è un album sicuramente ben studiato, ben ‘suonato’, sotto certi aspetti accattivante ma, ovviamente, ben distante dall’originale.

Paul Dunmall Quartet – “Underground” – Slam 2101
undergroundSolitamente le note di copertina poco o nulla aggiungono all’album che presentano data la loro inevitabile parzialità. Diverso il discorso quando le stesse note più che ad elogiare il contenuto musicale si limitano a spiegare il perché dello stesso e ad illustrarne la relativa genesi. Così leggendo quanto il sassofonista Paul Dunmall scrive presentando questo “Underground” si ha una chiara visione di ciò che si ascolta: dopo tre album dedicati alla musica di John Coltrane – SLAMCD 290 ‘Thank You to John Coltrane’; SLAMCD 292 ‘Tribute to Coltrane’; SLAMCD 296 ‘Homage to Coltrane’ – i primi due li abbiamo presentati in questa stessa rubrica, Paul ha deciso di riferirsi sempre alla musica di Coltrane ma in modo diverso. Non più esecuzione di brani coltraniani, ma sei nuove composizioni ispirate dall’album ‘Sunship’ del grande sassofonista. Per questo è mutato anche l’organico: al duo sassofono-batteria (sempre nelle mani di Tony Bianco) si aggiungono un secondo sassofono (Howard Cottle) e il contrabbasso di Olie Brice. Il risultato è di quelli che non si dimenticano: la musica è materica, ricca di energia, con alti livelli di intensità e – quel che forse più importa – perfettamente in linea con lo spirito coltraniano. I due sassofoni si integrano alla perfezione sia quando suonano in solitaria, sia quando disegnano linee comuni, ottimamente sostenuti da Bianco e Brice che costituiscono una sezione ritmica di grande energia e compattezza (si ascolti con attenzione l’assolo di Bianco in ‘Sum Up’ e quello di Brice in ‘Timberwolf’ ).

Giuliani, Biondini, Pietropaoli, Rabbia – “Cinema Italia” – VVJ 110
cinema-italiaIl connubio tra jazz e grande schermo non è certo una novità e nel corso della sua lunga storia ci ha regalato perle di lucente bellezza. In quest’alveo si inserisce questo splendido album inciso da un quartetto tutto italiano per la Via Veneto Jazz e la Jando Music: Rosario Giuliani al sax alto e soprano, Luciano Biondini alla fisarmonica, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Michele Rabbia alla batteria e percussioni, come a dire quattro dei migliori jazzisti del variegato panorama internazionale. L’album, come si accennava, è perfettamente riuscito e per più di un motivo. Innanzitutto la maestria strumentale di tutti e quattro gli artisti che, oltre ad essere individualmente indiscutibili, hanno trovato una profonda intesa che si percepisce sin dalle primissime note: così la loro musica scorre spontanea, senza forzatura alcuna in cui le parti solistiche si alternano ai collettivi mantenendo una omogeneità di fondo. In secondo luogo la scelta del repertorio: in programma sette brani composti da veri e propri maestri delle colonne sonore quali Nino Rota ed Ennio Morricone, cui si aggiungono un pezzo di Rosario Giuliani “Bianco e nero”, uno di Luciano Biondini “What Is There What Is Not” e una “Impro” accreditata a Giuliani e Biondini. Alle prese con un repertorio talmente impegnativo, anche perché non mancano i termini di paragone, i quattro hanno saputo ottenere una quadra perfetta: da un canto far rivivere, nella loro originaria bellezza , le melodie di Rota e Morricone, dall’altro utilizzare queste melodie come veicolo per improvvisazioni senza rete. Stando così le cose è davvero difficile menzionare qualche singolo brano ché tutti sono degni di essere ascoltati e gustati con la massima attenzione.

Hyper + Amir Elsaffar – “Saadif” – nusica.org
saadifHyper è un ensemble affatto atipico nel panorama jazzistico nazionale, ensemble che si muove all’interno del “laboratorio nusica.org”, con l’obiettivo di realizzare una musica che vada ben al di là dei confini jazzistici propriamente detti. I suoi componenti sono tutti artisti di eccellente livello: Nicola Fazzini ai sax alto e soprano, Alessandro Fedrigo al basso e agli effetti, Luca Colussi alla batteria. Per questo album, registrato dal vivo il 25 novembre del 2015 presso l’Auditorium di Casa della Musica di Trieste in occasione del secondo appuntamento della stagione 2015/2016 del Circolo del Jazz Thelonious, al trio si è aggiunto Amir Elsaffar , trombettista e vocalist di origine irachena che oggi viene considerato una delle stelle della nuova scena newyorkese. I risultati sono davvero apprezzabili: Amir si è integrato perfettamente nel trio e dal canto loro gli “italiani” lo hanno assecondato nei brani di chiara derivazione orientale. E’ questo il caso, ad esempio, di “Kosh Reng”, una composizione dello stesso Elsaffar, che, nei primi minuti, richiama da vocalist stilemi propri della musica antica araba; poi, sulla spinta percussiva fornita da un sempre ottimo Colussi e dallo straordinario lavoro di Fedrigo, il brano assume un andamento diverso per cui si ritorna su terreni più vicini all’occidente con un Elsaffar che evidenzia tutta la sua sapienza trombettistica, con un sound secco, tagliente, appena increspato da un leggerissimo vibrato, mentre Fazzini lo segue sullo stesso terreno confermandosi sassofonista tra i più originali della scena italiana. E tutto l’album si muove lungo questi binari, in un alternarsi di atmosfere tanto inattese quanto affascinanti.

Sinikka Langeland – “The Magical Forest” – ECM 2448
the-magical-forestAltra splendida realizzazione del vocalist e specialista di kantele Sinikka Langeland. Ben coadiuvato dai norvegesi Arve Henriksen, tromba e Trygve Seim, sassofono, dallo svedese Anders Jormin, contrabbasso, dal finlandese Markku Ounaskari, percussioni e batteria e dal Trio vocale Mediaeval, l’artista norvegese evidenzia ancora una volta tutta la sua maestria sia come compositore sia come esecutore. In effetti l’album è declinato su nove brani originali tutti costruiti dal leader sui miti e le leggende di Finnskogen, (“Forest of the Finns”) un’area densa di foreste situata nell’est del Paese ai confini con la Svezia, il cui nome deriva dalle forti correnti migratorie provenienti dalla Finlandia durante il XVI secolo. Langeland vi si è stabilito sin dal 1992 ed ha ovviamente molto assorbito dell’atmosfera che si respira in quei luoghi così straordinari e quasi fuori dal mondo. Non a caso queste ‘canzoni’ dimostrano da un lato la conoscenza di Langeland del patrimonio musicale del proprio Paese e forse più in generale dell’intera Scandinavia (fondamentale in quest’ottica il contributo del Trio Mediaeval) , dall’altro una spiccata propensione per melodie ampie, ariose, spesso evocative alle volte venate da quella sorta di dolce malinconia che sovente attraversa la musica del Nord. Il tutto impreziosito da un non facile equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione, pratica in cui tutti e cinque i musicisti eccellono dato che si tratta di alcuni dei migliori solisti oggi in attività e non solo nel Nord-Europa. Un’ultima avvertenza forse non necessaria: l’album ha una sua precisa identità, una sorta di fil rouge che lo attraversa dall’inizio alla fine per cui è bene ascoltarlo senza soluzione di continuità.

Nico Morelli – “Un(folk)ettable Two” – cristal records 246
unfolkettable-twoAncora una grande prova di maturità ed originalità da parte di Nico Morelli, l’eccellente pianista pugliese che oramai da anni tiene alto l’onore del jazz italiano in quel di Parigi, piazza certo non facilissima. L’orizzonte di riferimento rimane lo stesso – la musica della propria terra – ma il modo di declinarlo sempre diverso ed affascinante. Per questa nuova impresa, Nico ha chiamato accanto a sé musicisti provenienti dalla stessa Puglia per proporci una nuova riscrittura di canzoni e danze ispirate del patrimonio tradizionale pugliese. Barbara Eramo (voce), Davide Berardi (voce e chitarra), Raffaele Casarano (sax soprano), Camillo Pace (contrabbasso), Mimmo Campanale (batteria) e Vito De Lorenzi (percussioni) sono i musicisti che accompagnano Nico in questo entusiasmante viaggio e ognuno di loro apporta un contributo indispensabile alla buona riuscita dell’impresa. In repertorio dieci brani di cui sei del leader (testi e musica) e quattro tradizionali (“Lu Rusciu De Lu Mare”, “Sta Strada”, “Bella Ci Dormi” e “All’Acqua”). Le composizioni di Morelli sono fresche, genuine, di grande fascino e il suo pianismo è a tratti davvero scoppiettante, frutto di anni di intenso studio ma anche di una profonda passione che da sempre anima questo artista; si ascolti, ad esempio, “Espi” in cui a nostro avviso sono esplicitati gli obiettivi che Morelli si proponeva di raggiungere: fondere la tradizione della musica folkloristica del Sud Italia con gli stilemi e le sonorità propri del jazz mettendone in rilievo gli elementi di comunanza vale a dire la provenienza popolare, l’immensa ricchezza ritmica, l’improvvisazione.

Sam Most – “Sam Most & The Italian Friends” – TRI 1225
sam-most-benini-300x277L’eleganza e la raffinatezza sono gli elementi che caratterizzano questo album in cui uno dei mostri sacri del flauto jazz, Sam Most, suona accompagnato da un quartetto tutto italiano con Stefano Benini flauto e didjeridoo, Matteo Sabattini sax alto, Andrea Tarozzi piano e Enrico Terragnoli basso. Già più volte, in questa stessa sede, sono stati espressi giudizi più che positivi sul “nostro” Stefano Benini che in questo album dimostra di non sfigurare minimamente al cospetto di un grande flautista quale Sam Most. L’intesa tra i due è sorprendente tanto che non è facile distinguere l’uno dall’altro. Le atmosfere si susseguono cangianti, accattivanti, con Benini che offre un saggio di bravura anche al didjeridoo in “Night in Tunisia” oltre a firmare tre splendidi brani di cui particolarmente significativo è “Thanks Sam!” . Gli altri tre componenti il quintetto, oltre a far valere le proprie capacità strumentali, contribuiscono alla bella riuscita dell’album con una composizione a testa: “Carousel” di Andrea Tarozzi, “L.A. Blues” di Enrico Terragnoli e “Peacefull Song” di Sabattini. Ovviamente molte parti solistiche sono riservate a Sam Most che si conferma un maestro della tecnica ‘soffiata’ oltre che vocalist di rara sensibilità nei tre standard “Every time we say goodbye” di Cole Porter, “Who Cares” di George Gershwin e “Skylark” di H. Carmichael. Insomma un album per chi ama le belle melodie eseguite in modo canonico senza sperimentazione alcuna.

Luca Pissavini – “More Than This” – Bunch Records
LuPi – “Everything Will Be Fine” – Bunch Records
more-thant-thisQuasi in contemporanea sono usciti questi due album di Luca Passavini che vedono il contrabbassista in splendida solitudine nel primo e in quartetto nel secondo con Filippo Cozzi al sax alto, Andrea Quattrini alla batteria e Simone Quatrana al rhodes. Evidentemente la tematica è la stessa vale a dire la voglia di sganciarsi da qualsivoglia forma, struttura, costruzione del jazz comunemente inteso per avventurarsi su un terreno in cui la fanno da padrone la destrutturazione e l’improvvisazione totale e collettiva. everythingIl tutto indirizzato verso una creazione in cui si sommano e si annullano le influenze cui sono stati sottoposti Pissavini e compagni, quindi dalla musica classica al jazz passando attraverso il folk, il rock, la musica colta contemporanea e chi più ne ha più ne metta. Certo, nulla di nuovo sotto il sole , per cui c’è da chiedersi quali risultati abbia ottenuto questo ennesimo tentativo. Ebbene c’è da dire che sotto il profilo strettamente musicale tutti e quattro gli artisti sembrano avere le carte in regola per ben figurare: tocco sapiente, buon controllo della dinamica e buona conoscenza dell’universo musicale. Peccato che il tutto pecchi ancora di scarsa originalità; di qui la certezza che tra qualche tempo potremo ascoltare qualche altra proposta più valida dei musicisti in oggetto.

Salvatore Russo – Gypsy Jazz Trio – Emme Record Label 1601
gipsy-jazz-trio-450x450Album assai gradevole questo inciso dal chitarrista Salvatore Russo in trio con l’altro chitarrista Tony Miolla e Camillo Pace al contrabbasso. In repertorio quindici brani di cui sei composizioni originali che portano la firma di Salvatore Russo, brani della tradizione manouche e alcuni grandi successi degli anni ’40, il tutto sulla scia del primo , più originale e straordinario jazzista europeo, Django Reinhardt, l’unico che tanti anni fa seppe dire qualcosa di nuovo rispetto al jazz statunitense. Russo evidenzia ancora una volta il suo talento declinato attraverso un fraseggio sciolto, fluido, tecnicamente ineccepibile ed una grande capacità improvvisativa che gli consente di affrontare brani anche celeberrimi dando loro un quid di originalità. Quella stessa originalità che si nota anche nelle sue composizioni: ad esempio in “Azul” , dedicato alla figlia Beatrice, i ritmi propri della tradizione manouche vengono fuori con prepotenza grazie anche all’apporto della chitarra ritmica flamenco di Ivan Romanazzi , unico ospite presente nell’album e che si ascolta in questo solo pezzo. Per quanto concerne le composizioni di Django, vengono eseguite “Django’s Tiger”, “Diminishing”, “Oriental Shuffle”, “Chez Jacquet”, tutte affrontate con grande rispetto e partecipazione. Tra gli altri brani in programma, particolarmente convincenti le interpretazioni di “Misty” di Erroll Garner e “Lady Be Good”, colonna sonora dell’omonimo film del 1941.

Slightly Out 5tet – “Dear Mr. Silver” – Emme Record Label 1507
dear-mr-silverGli Slightly Out, quintetto toscano attivo dal 2013, sono composti da Francesco Giustini tromba e flicorno, Benedetto Burchini sax tenore, Enrico Orlando pianoforte, Nicola Ferri contrabbasso e Andrea Croci batteria, ovvero un classico combo dell’epoca bop e hard-bop. Ed in effetti il gruppo propone un tributo alla musica di Horace Silver, uno dei più grandi compositori afroamericani della storia del jazz, artista che ha regalato agli appassionati alcuni brani divenuti giustamente celebri e celebrati. Ed è proprio attorno a tali pezzi che si incentra il repertorio del quintetto: due brani originali e poi sei pezzi a firma Silver quali i classici “Nica’s Dream” “Room 608” e “The Preacher” accanto a cui figurano, assai opportunamente, brani meno noti come “Summer in Central Park”, “Gregory is Here” e “Horace Scope”. Sulla scelta del repertorio, quindi, nulla da dire anzi va salutato con favore il fatto che i cinque toscani siano andati a ripescare brani non troppo battuti. Anche sul piano delle esecuzioni va detto che le stesse appaiono ben centrate, eleganti, corrette… forse fin troppo corrette. Nel senso che affrontare un repertorio di questo tipo ha senso se si riesce ad aggiungere non dico qualcosa di nuovo ma almeno qualcosa di fortemente personalizzato. Cosa che a mio avviso nell’album non si avverte compiutamente, fors’anche perché i cinque amano troppo la musica di Silver.

UNschoolLED – “Hymns for Robots” – Slam 2103
hymns-for-robotsViene dalla Gran Bretagna questo album di chiara impostazione free. I tre membri di ‘UNschooLED’ – il sassofonista Mark Hanslip uno degli animatori della nuova scena jazz londinese, il chitarrista Barry Edwards e il batterista Ed Gauden – hanno studiato tutti al Conservatorio di Birmingham e sono cresciuti, artisticamente parlando, con gli stessi modelli di riferimento che, come si accennava, sono collocabili nel jazz anni ’60 e nella più completa e libera improvvisazione collettiva. Ed Gauden è stato l’ispiratore del progetto, ma, come informa la stessa etichetta, il trio non ha alcun leader. I tre hanno quindi deciso di suonare assieme e ciò che si ascolta nell’album è il frutto di una session in cui nulla è stato programmato lasciando liberi i musicisti di improvvisare, seguendo l’uno gli input che di volta in volta provengono dagli altri due. Risultato? Per chi ama questo genere di linguaggio sicuramente positivo dal momento che i tre sono tecnicamente assai validi e ben conoscono i propri strumenti. Per chi, come lo scrivente, non è proprio un fan di questo tipo di espressione, c’è da dire che simile musica risulta interessante quando ha davvero qualcosa di nuovo da proporre e non sembra questo il caso!

Miroslav Vitous – Music of Weather Report” – ECM 2364
music-of-wetaher-reportE’ proprio vero che la musica, quando è di qualità, non conosce età: proprio in questo periodo la musica dei Weather Report è tornata spesso di attualità sia in realizzazioni discografiche sia in volumi che puntualmente “A proposito di jazz” vi ha presentato. Adesso torniamo sull’argomento per parlare di un’altra splendida realizzazione della ECM anche se, questa volta, l’esito risultava scontato in partenza. Questo perché Miroslav Vitous, oltre che essere uno dei più grandi contrabbassisti oggi in esercizio, è stato tra i fondatori dei Weather Report e quindi conosce nelle più intime pieghe il repertorio del gruppo cui egli stesso ha contribuito con diversi pezzi alcuni, presenti nell’album in oggetto. Per affrontare l’impresa, Vitous ha messo su un sestetto inusuale: Gerald Cleaver e Nasheet Waits su tamburi e piatti, Gary Campell e Roberto Bonisolo ai fiati, Aydin Esen alle tastiere con il leader che si misura con il contrabbasso e la seconda tastiera. In programma alcuni dei maggiori successi della band nel suo primo periodo quali “Birdland,” “Seventh Arrow,” “Scarlet Woman,” “Pinocchio” o “Morning Lake” intervallati da alcune brevi composizioni del leader. Un’avvertenza: chi si aspettasse di riascoltare la musica dei Weather Reprot sic et simpliciter rimarrebbe deluso in quanto non è questo l’obiettivo che Vitous si prefigge. Il suo scopo è quello di rivisitare e riproporre il repertorio dei Weather in forme assolutamente nuove e inedite sì da evidenziarne l’attualità anche a tanti anni di distanza. L’esempio più probante è l’arrangiamento del celeberrimo “Birdland” in cui non è proprio facile riconoscere l’originale. Ma è tutto l’album che si lascia ascoltare con immutato interesse dal primo all’ultimo minuto. Un’ultima curiosità che le note di copertina non soddisfano: le registrazioni risalgono al 2010, 2011; come mai sono uscite solo adesso?

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