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a proposito di jazz - i nostri cd

John Abercrombie Quartet – “Up and Coming” – ECM 2528

In questo album, che apre la stagione 2017 della ECM, ritroviamo il chitarrista John Abercrombie alla testa di un quartetto composto da “vecchi amici”, se ci passate il termine, vale a dire Marc Copland al piano , Drew Gress al contrabbasso e Joey Baron alla batteria. In un modo o nell'altro Abercrombie, anche nel recente passato, ha avuto modo di collaborare con i musicisti su citati : basti ricordare, al riguardo, l'album “39 Steps” del 2013 che tanti consensi ottenne da pubblico e critica. Ciò per sottolineare come il quartetto già prima di entrare in sala di registrazione per quest'ultimo album fosse ben rodato e pronto a seguire le linee direttrici tracciate dal leader. Linee che si sostanziano innanzitutto nella ricerca di una bella linea melodica supportata da raffinate armonizzazioni e quindi nello splendido suono della chitarra di Abercrombie che dialoga magnificamente con il sound più robusto del pianoforte; l'intesa tra i due è a tratti sorprendente: John e Marc sanno ascoltarsi, comprendersi e mai accade che una intuizione, un input lanciato da uno dei due non venga prontamente captato e sviluppato dall'altro. Così il fraseggio liquido, scorrevole di Abercrombie, a fronte del pianismo più articolato e dinamico di Copland, crea spesso una tensione che affascina l'ascoltatore attento. Ovviamente questo continuo gioco di rimandi non sarebbe stato possibile se i due non fossero stati accompagnati da una eccellente sezione ritmica in grado di fornire un supporto di grande flessibilità ed eleganza. Caratteristiche queste che si riscontrano per tutta la durata dell'album, sia che il gruppo interpreti le cinque composizioni di Abercrombie, sia che ad assumere il ruolo del compositore per due volte sia Marc Copland, sia, infine, che si faccia rivivere un capolavoro assoluto quale “Nardis” di Miles Davis.

Theo Bleckmann – “Elegy” – ECM 2512

In perfetta sintonia con il titolo, atmosfere sognanti, oniriche quella disegnate dal vocalist e compositore tedesco Theo Bleckmann al suo esordio da leader nell'ambito della prestigiosa etichetta ECM. Ad onor del vero Theo aveva già registrato per la casa tedesca ma come sideman: lo ritroviamo, infatti, accanto a Julia Hulsmann in “ A Clear Midnight—Weill and America” (ECM, 2015) e ancora con Meredith Monk ‎in “Mercy” (ECM, 2002) e “Impermanence” (ECM, 2008) album, questi ultimi due, in cui suona anche lo stesso batterista di “Elegy”, John Hollenbeck. Ma soffermiamoci adesso su quest'ultima produzione di Theo che ha scelto di guidare un completato da Ben Monder chitarra, Shai Maestro piano, Chris Tordini, contrabbasso e, come si accennava, John Hollenbeck batteria. Il gruppo appare perfettamente funzionale alle idee del leader vale a dire una musica semplice ma non banale, un organico che si esprime quasi per sottrazione, la precisa volontà di non prediligere il lato virtuosistico della performance ma di affidarsi all'espressività, ad una concezione che in qualche modo potremmo avvicinare al cosiddetto minimalismo. Ovviamente per raggiungere in pieno tali obiettivi occorreva un repertorio acconcio: di qui i dodici brani presenti nell'album, tutti a firma del leader eccezion fatta per “Comedy Tonight” tratto da “A Funny Thing Happened on the Way to the Forum” , musical andato in scena per la prima volta a Broadway nel 1962, con musiche e versi di Stephen Sondheim. I brani sono tutti interessanti anche se una menzione particolare la merita “The Mission” un vero e proprio esercizio di bravura per Theo Bleckmann che dimostra ancora una volta, se pur ce ne fosse bisogno, quanto sia meritata la stima di cui gode nell'ambiente musicale di tutto il mondo.

Dave Brubeck – At The Sunset Center – Solar 4569973

Questo album riporta, per la prima volta integralmente, il concerto tenuto dal quartetto di Dave Brubeck al ‘Sunset Center' di Carmel (California) nel giugno del '55. La ‘storica' collaborazione tra il pianista Dave Brubeck e il sassofonista Paul Desmond era iniziata nel 1946 all'interno di un ottetto dal sapore vagamente sperimentale. Negli anni a venire, in particolare nel 1951, Brubeck e Desmond costituirono un quartetto completato da Fred Dutton al basso e Herb Barman alla batteria, questi ultimi poi sostituiti rispettivamente da Bob Bates e Joe Dodge. In quel periodo il quartetto, nonostante avesse tenuto diversi concerti soprattutto in università e college, realizzò solo un album “Jazz Goes To College” registrato nel corso di vari concerti in college nel 1954. Di qui l'interesse non solo artistico ma anche storico dell'album in oggetto. Dal punto di vista squisitamente musicale, non occorrono certo molte parole per sottolineare come si ascolti una delle formazioni più importanti della storia del jazz, una formazione che seppe dire qualcosa di originale. Certo lo stile può piacere o meno ma il ruolo ricoperto da Brubeck e Desmond resta lì, indiscutibile. L'album contiene otto standards registrati, come si accennava al ‘Sunset Center' di Carmel cui è stata aggiunta una inedita versione di “Two Part Contention” dello stesso Brubeck registrata durante un concerto al ”Basin Street Club” di York del 1956. Un'ultima notazione di carattere cronachistico: il “Sunset Center” era un teatro che ospitava dei cicli di concerti jazzistici ed è proprio lì che il 19 settembre dello stesso 1955 Erroll Garner registrò il suo indimenticabile “Concert by the Sea”.

François Couturier, Tarkovsky Quartet – “Nuit blanche” – ECM 2524

Parlare semplicemente di jazz a proposito di questo album appare improprio: siamo piuttosto nel campo della musica contemporanea eseguita da artisti che hanno frequentazioni importanti con il mondo del jazz. François Couturier piano, Anja Lechner violoncello, Jean Marc Larché sax soprano, Jean Louis Matinier accordéon sono infatti musicisti che abbiamo spesso incontrato in contesti più prettamente jazzistici. Da qualche tempo i quattro hanno costituito questa formazione dall'organico assai insolito che hanno chiamato “Tarkovsky Quartet” in omaggio ad Andrei Arsenyevich Tarkovsky, celebre regista russo scomparso nel 1986. Ancora una volta il quartetto si impone alla generale attenzione per la profondità di campo che riesce a dare alla sua musica. Ascoltando i diciassette brani dell'album – di cui sette sono libere improvvisazioni e gli altri scritti da Couturier da solo o con gli altri compagni di strada – non si può non restare colpiti dalla purezza del suono, dalla estrema linearità con cui si esprime ciascun artista, dall'atmosfera dialogante per cui violoncello e fisarmonica riescono ad esprimersi su un piano di assoluta parità e soprattutto dalla straordinaria capacità improvvisativa dei singoli che, anche nel caso dei brani scritti, trovano ampi spazi per dar libero sfogo alla fantasia. Di qui una musica aperta, nuova ad ogni ascolto, ricca di sottigliezze. E, per chiudere, consentitemi di sottolineare la straordinaria prestazione di Jean Louis Matinier il quale dimostra, se pur ce ne fosse bisogno, come la fisarmonica, se in mani sapienti, sia strumento adatto ad ogni situazione, anche la più sofisticata e quindi lontana da quel recinto popolare cui ancora oggi molti vorrebbero rinchiuderla.

Matt Dibble, Fabio Zambelli – “Songs and Soundscapes” – Xtreme

Album interessante questo proposto da Matt Dibble e da Fabio Zambelli; il clarinettista inglese e il chitarrista italiano hanno costituito da qualche tempo un duo che tralascia facili situazioni per addentrarsi in terreni scivolosi, imprevedibili come quelli rappresentati dalla ricerca e dalla sperimentazione. Intendiamoci: mai abbiamo sostenuto che ricerca e sperimentazioni nel campo musicale siano valori in sé, occorre che le stesse siano sostenute da profonda conoscenza della materia musicale, da eccellente tecnica di base e soprattutto – almeno a nostro avviso – da una onestà di fondo che si sostanzia nell'assoluto abbandono di qualsivoglia ansia di stupire, di meravigliare. Ebbene, ascoltando l'album in oggetto, sembra proprio che i due artisti abbiano le carte in regola per soddisfare anche i palati più esigenti: la loro è una musica tutta basata sull'interplay, sulla coralità, ben equilibrata tra parti scritte (songs) e improvvisazioni (soundscapes), sempre alla ricerca di soluzioni nuove, affascinanti, impreziosite da belle linee melodiche e da una robusta tecnica strumentale. Questi elementi non stupiscono ove si tenga presente che i due si sono conosciuti nel 2001 a Londra, durante i loro studi di jazz performance e composizione presso il conservatorio “Guildhall school of music and drama” e che successivamente hanno suonato, tra l'altro, nella GSMD jazz band misurandosi su repertori di jazz classico e contemporaneo, e con cui hanno vinto il premio BBC come migliore orchestra jazz Britannica. Nel corso della loro attività, prima di questo “Songs and Soundscapes”, hanno inciso nel 2009 in Francia come duo “Minor Mood”, poi pubblicato nel 2011 da Sonitus, e quindi “Spring” sempre in duo pubblicato nel 2015, album che hanno aperto la strada quest'ultima realizzazione.

Duke Ellington – “Blues in Orbit + The Cosmic Scene” – Essential Jazz Classics 2 CD

Duke Ellington – “Sacred Concerts” – “Rondeau”

Il perché di questi due titoli , “Blues in Orbit” e “The Cosmic Scene”, viene illustrato efficacemente nell'esaustivo libretto che accompagna i CD laddove si spiega che, dopo il lancio nello spazio dello Sputnik 1 di fabbricazione sovietica il 4 ottobre del 1957, l'idea di poter viaggiare nello spazio conquistò l'animo della gente. Neanche il jazz ne rimase immune come dimostrano questi due album di Ellington risalenti al 1958-59, ma non solo ché altri lavori dedicati allo spazio furono registrati da Dave Brubeck e da George Russell. Ciò detto occorre sottolineare come i due CD di Ellington contengano integralmente gli LP originari con l'aggiunta di ben diciotto bonus tracks di cui otto alternative takes tratte dalle stesse sedute di registrazione e dodici da altre date. Nel primo album compare la band ellingtoniana al completo mentre nel secondo si può ascoltare un nonetto di livello assoluto con la presenza dei più rappresentativi solisti dell'orchestra. Ellington prese la decisione di ridurre l'orchestra ad un nonetto dopo lo strepitoso successo ottenuto al Newport Jazz Festival del 1956, sempre alla ricerca di nuove vie espressive. Straordinario il repertorio dei due album comprendente sia celebri standard rivisitati e riattualizzati sia nuove composizioni mai registrate in precedenza. Dal punto di vista squisitamente musicale, ambedue gli album sono semplicemente straordinari: l'orchestra ellingtoniana è colta in uno dei suoi momenti migliori, impreziosita dagli assolo di Paul Gonsalves, di Clark Terry, di Jimmy Hamilton, di Johnny Hodges … e via discorrendo in una galleria delle meraviglie che comprende alcuni dei migliori solisti che la storia del jazz possa vantare.
Il secondo CD contiene una recente (2015) registrazione live di brani tratti dai concerti sacri di Ellington, effettuata in Germania dalla Big Band Fette Hope e dal Junges Vokalensemble Hannover sotto la direzione rispettivamente di Timo Warnecke o Jorn Marcussen-Wulff Klaus e di Jürgen Etzold . E' noto agli appassionati di jazz come i concerti sacri rappresentino , almeno nella considerazione dello stesso Ellington, le pagine più importanti da lui scritte nel corso degli anni. Composti tra il 1962 e il 1973 i tre Concerti rappresentano al meglio l'anima del compositore e la sua stessa concezione della spiritualità. Ben si capisce, quindi, il perché questa musica non venga spesso eseguita risultando assai difficile ricreare le emozioni che Ellington trasmetteva con la sua orchestra. Ben venga, quindi, questa impresa che ci restituisce pagine di musica che non conoscono età. E bisogna dire che sia la band sia i vocalist se la cavano assai bene: da un punto di vista orchestrale, la band riesce a rappresentare quella concezione orchestrale che caratterizzava l'opera di Ellington mentre i cantanti sono tutti all'altezza del compito: Claudia Burghard (mezzo soprano), Joachim Rust (baritono), magistralmente supportati dal già citato Junges Vokalensemble Hannover, danno energia a brani celeberrimi come “Ain't But The One”,“Come Sunday” , “Something'Bout Believing” riportandoli all'attualità del nuovo secolo.

Ellery Eskelin Trio – “Willisau Live” – hatOLOGY 741

Oramai vicino ai sessanta, il tenorsassofonista statunitense Ellery Eskelin è stato definito da “Down Beat” il miglior artista nel campo della musica creativa di oggi. E per avere conferma di quanto tale considerazione sia meritata basta l'ascolto di questo album registrato dal vivo durante il Festival Jazz di Willisau, in Svizzera, il 28 agosto 2015. Ellery suona in trio con Gary Versace all'organo Hammond B3 e Gerry Hemingway alla batteria. L'organico è inusuale ma non per il sassofonista che sta esplorando questa particolare formula già dal 1994 quando costituì un trio con il tastierista Andrea Parkins e il batterista Jim Black, formula ulteriormente perfezionata nel 2011 con la creazione del Trio New York, dove accanto a Eskelin e Versace c'era Gerald Cleaver alla batteria, in questi ultimi tempi sostituito per l'appunto da Gerry Hemingway. Ed eccoci alla serata del 28 agosto 2015 a Willisau: il trio inizia la sua performance con una medley lunga oltre cinquanta minuti in cui figurano, in successione, un originale – “Our (or about)” –firmato da tutti e tre i musicisti, e tre standard , “My Melancoly Baby”, “Blue and Sentimental” di basiana memoria ed “East of the Sun”. Il set si chiude con altre due perle, la monkiana “Wee See” e “I Don't Stand A Ghost of A Chance With You”. Ebbene dal primo all'ultimo istante la musica del trio appare innervata da una grande energia e dalla perfetta consapevolezza, da parte di tutti e tre i musicisti, di stare esplorando nuove strade pur restando fortemente ancorati alla tradizione. Di qui il fraseggio e la sonorità del leader che dimostra di aver ascoltato e assimilato la lezione dei grandi del passato quali, tanto per fare qualche nome, Sonny Rollins e Ben Webster; di qui il fantasioso apporto ritmico, davvero originale e timbricamente unico, della batteria di Hemingway che deve aver molto apprezzato le sezioni ritmiche delle orchestre di Count Basie; di qui il particolare approccio alla materia sonora da parte di Versace che stravolge un po' il modo di suonare di Jimmy Smith, da un tutto pieno ad un gioco di pause e di sottigliezze timbriche non proprio usuali nel mondo degli organisti.

Cameron Graves – “Planetary Prince” – Mack Avenue 1123

Cameron Graves al pianoforte , Kamasi Washington al sax tenore: dovrebbero bastare solo questi due nomi per far capire che tipo di musica si ascolta in questo cd. Ma il gruppo è più largo e comprende altri eccellenti musicisti del moderno jazz di Los Angeles quali il trombettista Philip Dizack, il trombonista Ryan Porter, ed una formidabile sezione ritmica costituita dal batterista Ronald Bruner Jr., dal bassista elettrico Hadrien Feraud considerato oggi un numero uno e dal contrabbassista Stephen “Thundercat” Bruner. La presenza di Kamasi Washington in questo album di debutto come leader di Cameron Graves non deve meravigliare ove si tenga presente che il pianista era partner del sassofonista in quell'album “Epic” che tanto successo ottenne alla sua uscita nel 2015. Insomma questo “Planetary Prince” rappresentava , per Cameron, una occasione assai importante per consacrarsi definitivamente come uno dei migliori, più fantasiosi e visionari pianisti, tastieristi e compositori delle ultime generazioni. E le premesse c'erano tutte anche perché i pezzi dell'album sono da lui stesso scritti e arrangiati. Peccato che anche ad un primo sommario ascolto l'album risulti tutt'altro che imperdibile. Certo Graves suona bene, Washington non deve dimostrare alcunché, ma è tutto l'impianto del disco che non regge, proponendo una musica scontata e poco originale. E qui ci fermiamo in quanto è ben possibile che Graves ritorni sui suoi passi e ci proponga qualcosa all'altezza delle sue enormi possibilità.

Julia Hülsmann Trio – “Sooner and Later” – Ecm 2547

Dopo alcune esperienze in quartetto (con l'aggiunta del trombettista Tom Arthurs) e in quintetto (con il vocalist Theo Bleckmann) la pianista tedesca Julia Hülsmann ritorna ai vecchi amori, vale a dire alla collaudatissima formula del trio accompagnata sempre dai fidi Marc Muellbauer al contrabbasso e Heinrich Köbberling alla batteria che compaiono nei precedenti album registrati da Julia per la ECM. I tre suonano assieme da una decina d'anni e questa lunga consuetudine si evince immediatamente all'ascolto dell'album: l'intesa è assolutamente perfetta con la pianista che sa perfettamente di poter indirizzare la sua musica ovunque ché tanto i suoi partners sono in grado non solo di seguirla ma di svilupparne immediatamente le intuizioni. Di qui un flusso continuo con momenti di stop and go che contribuiscono a creare una salutare tensione. Si ascolti con quanta delicatezza l'hit dei Radiohead “All I Need” viene introdotto dal fitto dialogo tra pianoforte e contrabbasso prima che la batteria entri a completare il trio per una interpretazione tanto personale quanto ben riuscita. A parte questa cover, il repertorio si basa essenzialmente su composizioni dei tre musicisti con l'aggiunta di un brano , “Biz Joluktuk”, ascoltato durante una tournée in Kirghizistan ,nell'Asia Centrale, nell'interpretazione di uno straordinario violinista di dodici anni e successivamente riarrangiato dalla Hülsmann: il pezzo è affascinante con questa linea melodica tutt'altro che banale disegnata dalla pianista mentre Muellbauer è impegnato in una sorta di contrappunto e Köbberling colora il tutto di timbriche affatto inusuali.

B. B. King – “Essential Original Albums” – MM Cofanetto 3 CD

Lui la chiamava Lucille e l'amava talmente da intitolare allo stesso modo uno dei suoi brani più famosi. A questo punto avrete già capito che stiamo parlando di Riley B. King, meglio conosciuto come B. B. King e della sua rinomata chitarra. Il celebre bluesman ha scritto alcune delle pagine più significative della storia del blues influenzando schiere di chitarristi e di band rock inglesi e americane. E la statura del personaggio risalta evidente dall'ascolto di questi tre interessanti CD che contengono sei completi album registrati in studio : “Singin' the Blues” (Crown CLP-5020), “More B. B. King” (Crown CLP-5230), “The Blues” (Crown CLP-5063), “Blues in My Heart” (Crown CLP-5309), “King of the Blues” (Crown CLP-5167), e “My Kind of Blues” (Crown CLP-5188), incluso un booklet di 20 pagine. Le registrazioni risalgono ad un periodo compreso tra il 1953 e il 1960 quando il blues-man aveva già perfezionato il suo stile riuscendo a ricondurre ad unità le influenze derivanti da T. Bone Walker, da Blind Lemon Jefferson così come da Charlie Christian e da Django Reinhardt. … insomma traditional blues, jazz, swing, pop amalgamati in maniera straordinaria… anche perché parallelamente l'aspetto vocale si affinava dichiarando esplicitamente la discendenza di B. B. King dalla grande tradizione gospel. Non è quindi un caso che nel corso degli anni B. B. King abbia collaborato con artisti di diversa estrazione quali, ad esempio, gli U2, Eric Clapton, i Crusaders, Ringo Starr, Ray Charles… e l'elenco sarebbe lunghissimo fino a comprendere Luciano Pavarotti.
Già a partire dalla seconda metà degli anni '50 B. B. King cominciò a incidere una serie di hit come “You Know I Love You”, “Woke Up This Morning”, “Please Love Me”, “When My Heart Beats Like a Hammer”… brani che troverete tutti nel cofanetto in oggetto. Insomma per chi volesse avere un'idea abbastanza precisa del grande blues-man scomparso nel maggio del 2015 , l'ascolto di questi tre CD è caldamente consigliato.

Nguyên Lê & Ngô Hong Quang – “Ha Noi Duo” – ACT 9828-2

Musica tradizionale vietnamita (“A Night With You, Gone”) , blues (“Beggar's Love Song”), jazz, musiche africane, influenze dall'India (“Chiec Khan Piêu”): questi i molteplici elementi che si ritrovano in “Ha Noi Duo” , album così diverso e interessante. Amalgamare elementi tanto disomogenei, modernità e tradizione è sicuramente operazione assai rischiosa ma altrettanto sicuramente Nguyên Lê & Ngô Hong Quang hanno vinto la sfida alla grande. E la cosa non deve stupire più di tanto ove si tenga conto della statura artistica dei due personaggi. Nguyên Lê è chitarrista jazz , dotato di grande inventiva oltre che di una tecnica prodigiosa, moderno ma allo stesso tempo fortemente ancorato alla sua cultura originaria. Ngô Hong Quang è invece artista di stampo tradizionale: nato nel villaggio di Hai Duong nel nord Vietnam, all'età di undici anni cominciò a studiare il Đàn Nhị (sorta di violino tradizionale vietnamita a due corde) e nel giro di pochi anni ne divenne un vero e proprio specialista incantando i pubblici non solo del Vietnam, ma anche di Tailandia , Corea…fino ad arrivare nei Paesi Bassi; se a ciò si aggiunge la ben nota maestria di Poalo Fresu, inserito nel quintetto che accompagna i due, si capirà come i produttori dell'album abbiano potuto contare su un ensemble di grandi musicisti. Di qui una musica straordinariamente fresca, continuamente mutevole, che, come afferma lo stesso Nguyên Lê si propone non solo di illustrare l'anima del Vietnam ma anche di illustrare quali potrebbero essere gli sviluppi della musica vietnamita già oggi attraversata e innervata da grandi diversità.

Julie London – “Whatever Julie Wants” – fm 610

Julie London, (26 Settembre 1926 – 28 Ottobre 2000), oltre ad essere un'eccellente vocalist, era anche una donna dal fascino irresistibile, dotata di una sensibilità e una sensualità senza pari. Prova ne sia che , se avesse voluto, avrebbe benissimo potuto intraprendere una carriera cinematografica; non è certo un caso che, restando sostanzialmente una cantante, abbia comunque partecipato ad oltre 20 film accanto ad attori come Gregory Peck, Gary Cooper e Rock Hudson. Questo CD racchiude due LP: l'album originale completo “Whatever Julie Wants” (Liberty LRP 3192) con gli arrangiamenti di Felix Slatkin e “About the Blues” un concept album caratterizzato dalla presenza in ogni titolo della parola ‘blues', cui si aggiungono quattro bonus tracks. Il primo LP, registrato a Hollywood nel luglio del 1961, evidenzia una London diversa dal solito nel senso che, in molti dei brani, i testi, magistralmente cesellati dalla vocalist, evidenziano una vamp, una “femme fatale”; così in piena aderenza con la bella copertina che mostra Julie con addosso una pelliccia che le lascia scoperte le spalle e tutto intorno soldi, gioielli e champagne, i vari brani ci dicono che una donna, grazie al suo fascino, può ottenere ciò che vuole , fino ad affermare in “There'll Be Some Changes Made” che una donna può vivere senza un uomo e senza il suo denaro. Comunque, al di là delle considerazioni sui testi, la London affronta questo repertorio di dodici pezzi, sostanzialmente canzoni divertenti, con leggerezza e la sua voce si vibra leggera nello spazio, quasi come una nuvola ad accarezzare l'udito degli ascoltatori. Leggermente diverso il secondo LP in cui la vocalist dimostra di saper affrontare, con piglio e sicurezza, un repertorio non facile come quello del blues, in ciò magistralmente coadiuvata dalla perfetta conduzione orchestrale e dagli arrangiamenti di Russ Garcia. Così mentre la voce della London conserva la sua innata dolcezza, alle sue spalle l'orchestra swinga a tutta birra. E tale sensazione la si percepisce già dal modo in cui attacca il primo brano in programma, “Basin Street Blues” di Spencer Williams. Comunque, parlando dei brani, uno dei più suggestivi e meglio riusciti è “Meaning of the Blues” scritto appositamente per Julie dal marito Bobby Troup, nella duplice veste di compositore e produttore dell'album.

Jimmy Scott – “I Go Back Home” – Eden River Records 01

Devo confessare che quando ho ascoltato questo album mi sono commosso così come quando, il 4 febbraio scorso, ho visto alla Casa del Cinema di Roma il documentario con testimonianze, tra le altre, di Quincy Jones, Tommy Li Puma, Madeleine Peyroux e David Ritz, biografo ufficiale di Jimmy Scott.. Il perché è facilmente spiegabile: Jimmy Scott è sempre stato uno dei mei jazzisti preferiti e vederlo ed ascoltarlo con quanta passione, con quanto straordinario calore affronti anche questa sua ultima fatica, allo stremo delle forze, testimonia di un uomo, di un artista con la A maiuscola, che mai rinuncia al suo sogno. In particolare l'album è stato registrato nel 2009 tra i Westlake Studio di Los Angeles e gli Odds on di Las Vegas, e ci restituisce un Jimmy Scott impegnato in una serie di duetti con alle spalle differenti organici tutti di straordinaria levatura impreziositi da elementi quali , tanto per fare qualche nome, Kenny Barron (piano), Peter Erskine (batteria), Joey DeFrancesco (organo Hammond), Til Bronner (tromba), James Moody (sax). In quest'ambito straordinari i duetti con Joe Pesci in ‘The Nearness of You' , con Oscar Castro Neves in ‘Love Letters', con Renee Olstead supportata da Arthuro Sandoval al flicorno in ‘Someone to Watch Over Me', con Dee Dee Bridgewater in ‘For Once in My Life', con Monica Mancini in ‘I Remember You'. Ma è tutto l'album ad essere davvero straordinario in quanto illustra al meglio la personalità del vocalist; Scott ha realizzato un suo grande desiderio, avendo il controllo totale sulla produzione del disco: ha selezionato le tracce, ha scelto musicisti e arrangiamenti, sì da raccontare la sua storia in musica. Così, seppure con un filo di voce ma con una intatta musicalità Scott interpreta le sue creature ribadendo quella che è sempre stata la sua caratteristica, vale a dire la straordinaria capacità di porgere i testi, di attribuire ad ogni singola parola il giusto peso sì da far entrare l'ascoltatore nel suo personalissimo mondo.

Trygve Seim – “Rumi Songs” – ECM 2449

Album a nostro avviso di straordinaria valenza sia per il progetto su cui si basa sia per la bravura dei musicisti che tale progetto realizzano: Trygve Seim sax tenore, sax soprano, Tora Augestad voce, Frode Haltli fisarmonica, Svante Henryson violoncello. E già dalla struttura dell'organico si può avere un'idea della musica che si ascolterà, un mix in cui elementi di carattere folk si mescolano a pulsioni jazzistiche e a precisi riferimenti sia all'universo classico sia alla musica contemporanea. Insomma una sorta di pastiche che potrebbe risultare indigesto se a preparalo non fosse un artista colto e preparato come Trygve Seim. Il quarantaseienne sassofonista e compositore norvegese, diplomato in sassofono jazz al Trondheim Musikkonservatorium nel 1992, ha dall'inizio seguito diverse strade: da un canto la musica jazz fortemente innervata dalle tradizioni folcloristiche del Nord, dall'altro composizioni espressamente scritte per musicisti classici, in special modo il mezzo-soprano norvegese Anne-Lise Berntsen, il soprano Tora Augestad, il violinista Atle Sponberg. Ecco questo “Rumi Songs” rappresenta il punto di sintesi più alto raggiunto da Seim. I dieci brani contenuti nell'album sono dieci poesie di Jalal al-Din Rumi, mistico e poeta persiano del tredicesimo secolo, tradotte da Coleman Barks e messe in musica da Trygve Seim. Il risultato è sorprendente: la splendida voce di Tora Augestad dà vita alla scrittura del sassofonista riuscendo a far rivivere l'alchimia di testi che ad onta del tempo conservano una stupefacente attualità. Il tutto all'interno di un contesto strumentale in cui sassofono, fisarmonica e violoncello, strumenti certo non affini, riescono a convivere disegnando percorsi in cui anche l'improvvisazione trova un suo spazio.

Jimmy Smith – “Home Cookin'” PWR 27358

Jimmy Smith-Lou Donaldson Quartet – “Complete Studio Recordings” – 2cd Phono 870271

Jimmy Smith rimane ancora oggi uno dei più grandi (se non il più grande in assoluto) specialista dell'organo Hammond. E' stato lui a portare questo strumento alla generale attenzione, è stato lui a farne una sorta di icona nel mondo del jazz. E' quindi con grande piacere che vi segnaliamo questi album registrati tra il 1957 e il 1963, un periodo in cui l'organista stava esprimendo il meglio di se. In particolare nel primo CD, “Home Cookin”, registrato nel 1958 e 1959, Jimmy Smith suona in quartetto con Kenny Burrell alla chitarra, Percy France presente al sax tenore in tre brani e Donald Bailey alla batteria. Il repertorio è costituito dalla riproduzione integrale dell'originario LP con l'aggiunta di 6 bonus tracks di cui una tratta dalla stessa session di “Home Cookin'” ma non inclusa nell'originario LP, e le altre cinque registrate alla Manhattan Towers di New York il 13 febbraio del '57; in due di queste ultime Smith suona da solo mentre nelle successive è accompagnato da Eddie McFadden alla chitarra e sempre Donald Bailey alla batteria. Smith è al meglio della condizione ed evidenzia un lirismo che non sempre è presente nelle sue produzioni discografiche.
Nel doppio album sono contenute tutte le registrazioni effettuate in studio dal quartetto di Jimmy Smith e Lou Donaldson (sax tenore) completato da diverse sezioni ritmiche costituite, rispettivamente, da Eddie McFadden alla chitarra e Donald Bailey alla batteria, Kenny Burrell chitarra e Art Blakey batteria, Quentin Warre chitarra e ancora Donald Bailey con l'aggiunta in tre brani di “Big” John Patton tamburello. Le registrazioni risalgono ad un periodo compreso tra il 1957 e il 1963. Soprattutto a beneficio dei giovani che non conoscono ancora bene l'organista, forse non è superfluo aggiungere che l'organo Hammond di Jimmy Smith e il sax alto di Lou Donaldson hanno dato vita ad un proficuo sodalizio ottimamente documentato dal doppio CD in oggetto. Per quanto concerne il repertorio ritroviamo alcuni classici di Jimmy Smith come “Thre's a Small Hotel” preso, nell'occasione, a tempo medio o
“Round Midnight” significativo perché Smith fu il primo a proporre composizioni di Monk all'organo.

Craig Taborn – “Daylight Ghosts” – ECM 2527

Imprevedibile; ora densa, quasi grumosa, materica, ora eterea, come sospesa: queste le caratteristiche della musica di Craig Taborn che si riscontrano anche in quest'ultimo album inciso a New York nel maggio del 2016. Il pianista e compositore statunitense si presenta questa volta in quartetto con Chris Speed al sax tenore e clarinetto, Chris Lightcap al contrabbasso e alla chitarra basso e Dave King alla batteria e percussioni elettroniche, formazione in vita da oltre un anno e rodata attraverso una serie di tournées effettuate anche in Europa e anche in Italia; in programma dieci pezzi tutti scritti dal leader ad eccezione di “Jamaican Farewell” di Roscoe Mitchell. Insomma un terreno ideale su cui estrinsecare le proprie potenzialità, occasione che di certo Craig non si lascia sfuggire scagliando tutte le frecce della propria faretra. Ecco quindi quella musica così cangiante cui si accennava in apertura, ecco quindi quella ricerca assidua dell'intesa perfetta, ecco quindi quell'intrigo fitto tra i quattro strumentisti impreziosito spesso da sottigliezze, da dettagli, da stratificazioni non sempre facili da cogliere ad un ascolto superficiale.
In omaggio al titolo le atmosfere sono spesso crepuscolari, indefinite anche se qua e là non mancano pennellate di cantabilità, silenzi stranianti o accentuazioni ritmiche che subito dopo si dilatano nell'ambito di una concezione ben precisa dello spazio, il tutto accompagnato sempre da un preciso controllo della dinamica. In questo quadro ci stupisce il fatto che Craig qualche volta abbia esagerato nella reiterazione di nuclei tematici come accade nel caso di “Ancient”, unica pecca in un album nel complesso più che positivo.

Bobby Timmons – “Classic 1960s Studio Sessions” – Phono 8702073 2 CD

Se amate il soul ecco un doppio album che non dovete lasciarvi sfuggire. Protagonista uno dei migliori interpreti di questo genere, vale a dire il pianista Bobby Timmons che divenne noto per il suo lavoro prima con i Jazz Messengers di Art Blakey e poi con il Cannonball Adderley Quintet, dopo di che costituì il suo trio ottenendo un successo clamoroso, anche come compositore grazie a quel “Moanin” registrato per la prima volta da Art Blakey nel 1958. Ed è proprio nella classica formazione del trio che ascoltiamo Timmons in questi due CD contenenti quattro album completi: “Sweet and Soulful Sounds”, “Born to Be Blue”, “A Little Barefoot Soul” e “Chung-King”, tutti risalenti ai primi anni '60. Nel primo Timmons suona con Sam Jones al basso e Roy McCurdy alla batteria; nel secondo con Ron Carter al basso e Connie Kay alla batteria sostituiti in tre brani rispettivamente da Sam Jones e Coonie Kay; nel terzo con Sam Jones e Ray Lucas alla batteria; nel quarto con Keter Betts basso e Albert “Tootie” Heath batteria. Se la formazione cambia, non muta l'entusiasmo, la carica, la prorompente vitalità di Timmons che dà un ampio saggio non solo delle sue grandi doti pianistiche ma soprattutto del suo modo di concepire il jazz. Una concezione in cui il ritmo assume un peso di rilievo, in cui si avvertono echi ben precisi del gospel, del funk, del blues … il tutto supportato da un profonda conoscenza della letteratura pianistica. In effetti quando si ascolta Timmons in piano solo (“Spring Can Really Hang You Up The Most” e “God Bless The Child”) si avverte come il pianista abbia ascoltato con attenzione sia Bud Powell sia Bill Evans artisti almeno sulla carta da lui assai distanti. Insomma grande musica eseguita da grandi artisti.

Ralph Towner – “My Foolish Heart” – ECM 2516

Dato il titolo dell'album si potrebbe pensare ad un CD dedicato agli standards e invece l'unico brano ben noto è proprio “My Foolish Heart” di Victor Young e Ned Washington scelto dal chitarrista per omaggiare questo brano che nell'interpretazione del trio di Bill Evans con Scott LaFaro e Paul Motian ebbe – confessa lo stesso Towner – un “immensurabile impatto sulla mia vita musicale”; per il resto si possono ascoltare tutti brani originali di Ralph tra cui alcuni nuovi ( ad esempio “Blue As In Bley” ovviamente dedicato a Paul Bley ), altri tratti dal songbook degli Oregon ( “Shard” e “Rewind” ) altri ancora già registrati da Towner che, per questa occasione, torna ad incidere in splendida solitudine con la sua classica chitarra a 12 corde, dopo gli acclamati progetti con Paolo Fresu (“Chiaroscuro” 2008), con i chitarristi Wolfgang Muthspiel e Slava Grigoryan (“Travel Guide” 2013) e il sassofonista Javier Girotto (“Araucanos” 2015) . Questo “My Foolish Heart” si inserisce, quindi, nel filone già tracciato da importanti album quali “Diary” (1973), “Solo Concert” (1979), “Ana” (1996), “Anthem” (2000), “Time Line” (2005) tutti registrati per la ECM in chitarra-solo. E ancora una volta Towner centra l'obiettivo: il suo tocco, la sua musicalità, il modo di esporre la materia musicale sono immediatamente riconoscibili, così come riconoscibili sono le molteplici influenze che hanno forgiato il suo stile. Intendiamo riferirci alla musica classica così come a quella spagnola, e naturalmente al jazz specie per quella sua unica capacità di usare lo spazio, di attribuire importanza alle pause, di quasi invitare l'ascoltatore ad una sorta di quieta meditazione.

Colin Vallon – “Danse” – ECM 2517

Nato a Losanna nel 1980, il pianista Colin Vallon è al suo terzo album in trio per la ECM; ad accompagnarlo ancora una volta il bassista Patrice Moret e il batterista Julian Sartorius. In repertorio undici brani scritti nella quasi totalità dallo stesso Colin che, quindi, anche attraverso la scrittura determina ancora una volta la sua identità di artista. La musica proposta da Vallon non si può certo definire jazz tout court; molte sono le influenze che compaiono, a partire da jazzisti rinomati quali Thelonious Monk e Miles Davis per finire con un compositore di musica contemporanea come György Sándor Ligeti, passando attraverso i grandi compositori della musica “colta”
; di qui uno stile che si avvicina in certo modo al minimalismo, in cui il brano si sviluppa attraverso variazioni, alle volte poco percettibili, di un iniziale nucleo sonoro. Ma poi c'è un elemento che improvvisamente allontana la musica di Vallon dall'universo caro ai vari La Monte Young, Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass, vale a dire una tensione che riporta il discorso classificatorio in alto mare (si ascolti al riguardo “Tsunami”) . E probabilmente sta in questa imprevedibilità la dote più significativa di Vallon: nonostante nella sua musica il ritmo sia quasi totalmente assente, tuttavia i tre musicisti giocano su un diverso concetto dell'interplay, esprimendosi su piani diversi che trovano comunque una loro logica. Tra i brani una menzione particolare la meritano l'apertura, “Sisyphe”, che evidenzia una sorta di simbiosi tra il pianoforte di Vallon e il contrabbasso di Patrice Moret, “Kid” il brano più interessante sotto l'aspetto melodico e “Morn” dall'andamento dolcemente ipnotico.

Various artists – “Jazz at Berlin Philarmonic VI – Celtic Roots” – ACT 9836-2

Disco interessante anche se ben difficilmente classificabile come jazz. Protagonista un settetto di derivazione chiaramente folk. In effetti il gruppo nacque nel 2010 quando Ale Möller, multistrumentista considerato tra i migliori esponenti della musica folk svedese, fu incaricato di formare un ensemble blues. Möller scelse quindi i chitarristi Knut Reiersrud and Eric Bibb, il sassofonista e specialista di cornamusa scozzese Fraser Fifield, la vocalist norvegese Tuva Livsdatter Syvertsen, Olle Linder bassista e percussionista e Aly Bain violinista. Come si nota una formazione davvero assai variegata che in effetti produce una musica particolare, difficile da classificare. Come si accennava non si può parlare di jazz in senso stretto, ma non si può neanche parlare di musica folk sic et simpliciter. In realtà si tratta di una felice commistione tra due linguaggi che si compenetrano profondamente dando vita ad un unicum a tratti affascinante. D'altro canto è proprio questo lo spirito con cui è nata la serie di concerti “Jazz at Berlin Philharmonic”, vale a dire la volontà di evidenziare tutte le varie correnti che stanno alimentando il nuovo jazz europeo. Di qui la creazione di nuovi ensemble per ogni concerto con l'obiettivo di focalizzare , illustrare una differente tematica. Tutti i concerti si sono rivelati un successo e anche questa volta non si è fatta eccezione: l'obiettivo di evidenziare in che modo la musica celtica abbia allargato la sua influenza anche sul jazz è stato perfettamente raggiunto. Basti ascoltare al riguardo “Lament For The Children” in cui l'elemento improvvisativo la fa da padrone.

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